TUTTE LE TENEREZZE DI UNA MADRE

Il 12 settembre 1935 Giuseppina Maiorana dà alla luce una bella bambina e l’abbandona. L’abbandona perché è nubile. Nei registri dello Stato Civile del Comune di Cosenza la bambina viene registrata come Rosella Matilde d’ignoti. Un anno dopo, però, Giuseppina fa ciò che avrebbe dovuto già fare: va da un notaio e riconosce Matilde come sua figlia naturale, senza nominare il padre. Da questo momento ha per la bambina tutte le tenerezze di una madre nonostante, per poter lavorare, sia costretta a darla a dozzina alla famiglia di Santino Falbo per quaranta lire al mese. Matilde, così, cresce bella e forte grazie alle premure di sua madre e alle cure della famiglia Falbo.
Poi Giuseppina conosce Giovanni De Cicco e tra i due scocca subito la scintilla dell’amore. Giovanni sarebbe sposato con una figlia, ma sua moglie è da tempo ricoverata in un tubercolosario, quindi è come se fosse morta e lui si considera un vedovo. Nemmeno la sua bambina, Giulia, gode di buona salute, candidata anche lei alla tubercolosi. Giuseppina parla a Giovanni di sua figlia, di quanto sia bella, dei boccoli che cominciano a scenderle sulle spalle, ma non gliela fa mai vedere ed è felice così.
Dopo un breve periodo di conoscenza, Giovanni e Giuseppina decidono di convivere more uxorio e Giovanni quasi impone a Giuseppina di riprendersi Matilde:
– Le bambine cresceranno insieme come sorelle e poi in casa spenderemo meno di quaranta lire al mese per mantenerla!
È una proposta che non si può rifiutare. Giuseppina, con un sorriso che va da un orecchio all’altro, va da Santino Falbo, paga il conto e riprende Matilde.
– Eccoci! Matilde, saluta Giovanni e Giulia!
Giovanni cambia subito espressione non appena vede la bambina. Giuseppina gli aveva detto che è bella, forte e sana, ma vederla di persona è tutta un’altra cosa e ciò gli suscita un senso di amara invidia. Non sopporta che Matilde sia forte e robusta mentre sua figlia è gracile e debole. Da questo momento, per Matilde, nella casa dell’adulterio, comincia l’inferno, sottoposta ad inumani maltrattamenti sia da parte di Giovanni, sia da parte di sua madre che, per non dispiacersi l’amante, sente la opportunità di non impedire che il De Cicco maltratti la bimba ed anzi, per propiziarselo, gareggia con esso non risparmiando alla figlia botte ed imprecazioni e, con esse, crucci senza numero.
Spesso viene, dall’uno e dall’altra, percossa a pugni e calci ed a volte col bastone, talché il suo corpicino è quasi sempre pieno di lividure; a volte viene privata del cibo e costretta a soffrir la fame e se per poco i commossi vicini le fanno dei regaluzzi, ne viene privata per non giovarsene.
Una vicina di casa, la signora De Martino che, per altezza di casato e per essere forestiera e quindi estranea all’ambiente, è degna della massima fede (ella, nativa dell’alta Italia, è figlia di un Vice Questore, congiunta con un Presidente di Tribunale, moglie di un capo manipolo della Milizia) racconta che un giorno, impietosita che la bimba avesse fame, le regalò una lira e due arance, ma quando la bambina tornò a casa le furon tolte sia le arance, delle quali non ebbe nemmeno uno spicchio, sia la lira, con la quale fu comprato un giocattolo all’altra bimba.
Un vicino racconta le percosse brutali inferte a Matilde di cui è stato testimone oculare:
Ricordo benissimo che il giorno 11 marzo 1939 Matilde ebbe dal De Cicco un calcio al petto e ruzzolò per terra; la Maiorana era presente e non intervenne; un’altra volta Giovanni, dopo averle dato uno schiaffo, l’afferrò per la testa e la urtò contro al muro. Immediatamente Giuseppina afferrò la figliuola e la colpì a schiaffi e pugni. Io intervenni in difesa della bambina e minacciai la madre di denunziare i fatti. “Se morisse sarebbe una salvazione per me, perché Giovanni mi vorrebbe più bene…” mi rispose. Ho visto anche che non le viene nemmeno risparmiata l’umiliazione di dover mangiare il tozzo di pane che le danno al di fuori del desco sul quale banchettano quei due e la privilegiata Giulia.
Non le viene nemmeno risparmiato il freddo ed il terrore perché, nelle serate invernali, mentre quei due e Giulia si raccolgono attorno al braciere, Matilde deve appartarsi in un cantuccio – aggiunge un’atra vicina, che continua – è

Illustrazione di Roberta Fortino

uno strazio guardare e sentire quella bambina, che veniva lasciata chiusa in casa mentre i due amanti e l’altra bambina vanno a divertirsi

Tutti la sentono piangere per ore e ore, terrorizzata, quando la lasciano da sola di sera e al buio e tutti sentono, quando la madre torna a casa, per soprassello a tanto martirio, urlarle in faccia: “Chi vò jire sutta a ‘na machina o aru spitale!”.
È il pomeriggio del 18 marzo 1939, una settimana dopo che il vicino di casa ha visto Giovanni tirare un calcio a Matilde. La bambina, giocando, si sporca le scarpuccie. Giovanni bestemmia e, di nuovo, le tira un violento calcio al basso ventre. Matilde urla dal dolore, si piega in due e cade a terra senza fiato.
Azati! Azati, malanova tua! Azati ca ti dugnu ‘u riestu!
Matilde, piangendo, si alza e si accuccia in un angolo dello spiazzo dove stava giocando con Giulia e altre bambine. Dopo un po’ arriva Giuseppina e, invece di prendersela con Giovanni, fa una scenata alla bambina, trascinandola a casa. Ma non fatica a rendersi conto che sua figlia sta male, urina sangue. Dovrebbe chiamare un medico o, meglio, portarla all’ospedale, ma invece decide di mandar lontano Matilde, vuoi per impedire ch’ella propali il danno subito, vuoi per sottrarla ad eventuali contestazioni ed indagini. Così pensa di mandarla da un suo zio a Lago, ma siccome non ha i soldi pel viaggio, si rivolge alla sua vicina Concetta chiedendole in prestito lire dieci.
– Concè… la voglio mandare via per risparmiarle altri maltrattamenti… oggi Giovanni le ha dato un calcio alla pancia…
– Giuseppì, soldi non te ne presto, chiama un medico e guardati tua figlia.
A questo punto Giuseppina desiste dal suo progetto e tiene Matilde in casa, ma il medico non lo chiama, onde la bimba va rapidamente peggiorando.
Giulia, nella sua ingenuità, racconta a tutto il vicinato del calcione e di come Matilde stia male. Ora tutti sanno e cominciano a ricamarci sopra.
Due giorni dopo, la mattina del 20 marzo, Giuseppina bussa di nuovo alla porta di Concetta Vaccaro per chiederle aiuto, dato che fa l’infermiera all’ospedale.
– Concè… Matilde stanotte è caduta dal letto e ha battuto con la pancia su uno sgabello… si sente male… ha vomitato un verme
Concetta corre dalla bambina e le guarda l’addome. La sua esperienza le dice che la lividura al basso ventre non dipende da caduta, ma da un calcio.
– Quello che dici è una bugia, avantieri hai parlato di un calcio, adesso di uno sgabello… la verità è che si tratta di un calcio e non devi più perdere tempo, chiama subito un medico perché sta molto male…
Io medici non ne chiamo perché poi segnalano la cosa alle autorità! – le risponde sfacciatamente.
Matilde è grave. Quando Concetta torna a casa dopo il turno di notte all’ospedale, la va a trovare e si infuria.
– Giuseppì, o chiami subito il medico o ti vado a denunciare, vedi tu… – le urla in faccia sbattendo la porta dietro di sé.
Giuseppina è con le spalle al muro, non ha scelta, così fa chiamare il dottor Talarico che si rende subito conto della gravità del caso.
– La dovete portare immediatamente all’ospedale, è in pericolo di vita… date questo biglietto alla suora del reparto…
Controvoglia, la donna ubbidisce, sa che se non lo farà o il medico o Concetta la denunceranno.
E così all’ospedale Matilde ci finisce davvero, quasi quella imprecazione della madre le avesse forgiato il destino!
Giuseppina, però, pensa di provare a imbrogliare le carte e quando la suora e il medico di turno le chiedono cosa è successo a Matilde, dice:
– È caduta dal letto…
Per sua sfortuna è presente al colloquio anche l’Agente della Polizia Antonio Spinelli al quale è pervenuta notizia delle propalazioni di Giulia e interroga Matilde che, pur non potendo parlare, risponde con cenni del capo:
– Sei caduta dal letto? – le chiede Spinelli.
Matilde scuote il capo per dire di no, poi con la mano fa il gesto di colpirsi il pancino.
– Ti hanno picchiato?
Matilde fa segno di si.
– Un pugno?
Matilde fa segno di no e muove un piede.
– Un calcio?
Matilde fa segno di si.
– È stata tua mamma?
Matilde fa segno di no, poi accoppia gli indici.
– Ho capito… riposati adesso, vedrai che i dottori ti faranno tornare a giocare – la rassicura, baciandole la fronte che scotta come un ferro arroventato.
Spinelli, a questo punto, chiama in disparte Giuseppina.
– So tutto, vi conviene dire la verità altrimenti saranno guai seri per voi, specie se la bambina non dovesse farcela…
– È stato Giovanni durante una mia momentanea assenza… le ha dato un calcio alla pancia… me lo ha confessato Giulia, sua figlia, quando sono tornata a casa… io ritenevo che si trattasse di una sciocchezza e non di una cosa grave, per cui cercai di curare alla meglio la figliuola senza portarla da un medico, per evitare compromissioni al mio amante Giovanni De Ciccocerto si è che costui spesso e volentieri tirasse qualche schiaffo alla mia figliuola
Alle ore 3,40 della notte dal 23 al 24 marzo, Matilde muore.
Viene disposta l’autopsia e il dottor Nigro certifica: doppia ecchimosi all’addome; rottura della vescica; peritonite. La rottura della vescica è dipesa da forte urto di corpo contundente. Non si può escludere che sia stato un calcio, possibilmente inferto mentre la bambina era supina. Secondo questa ricostruzione, Matilde sarebbe stata calpestata: questo spiega il perché di due ecchimosi, una provocata dalla suola della scarpa e l’altra dal tacco. Agli inquirenti basta così e non propongono altre domande, per esempio se è stato possibile che il calcio sia stato dato col fianco del piede su bambina eretta, nel qual caso le sporgenze della scarpa, quella del tallone e quella della pianta, avrebbero potuto egualmente,  con un sol colpo, determinare le due contusioni.
La conseguenza immediata dei risultati dell’autopsia è l’emissione dei mandati di cattura nei confronti di Giovanni De Cicco con l’accusa di omicidio volontario e di Giuseppina Maiorana con le accuse di maltrattamenti e favoreggiamento.
Naturalmente i due negano tutto e sostengono di aver voluto sempre bene alla bimba, la quale si era prodotta il male cadendo dal letto.
Ma è una tesi che fa acqua da tutte le parti e, il 17 luglio 1939, i due amanti sono rinviati al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza.
Il dibattimento si tiene in due udienze, il 18 e 19 ottobre dello stesso anno, ed è battaglia tra accusa e difesa. Secondo il Pubblico Ministero, Giovanni De Cicco è colpevole di omicidio volontario aggravato dai maltrattamenti e dalle relazioni domestiche, perciò deve essere condannato all’ergastolo. Anche Giuseppina Maiorana è colpevole dei reati di cui è accusata e va condannata ad otto anni di reclusione. Per la difesa non ci sono prove contro nessuno dei due e vanno assolti. Al massimo Giovanni potrebbe essere responsabile di omicidio colposo e condannato al minimo della pena.
La Corte, il 19 ottobre 1939, emette la sentenza e ritiene, modificando il titolo del reato, Giovanni De Cicco
colpevole di maltrattamenti in pregiudizio della bambina Maiorana Matilde, con la circostanza aggravante che dalla sua attività delittuosa è derivata la morte della vittima e lo condanna a 13 anni di reclusione. Ritiene colpevole anche Giuseppina Maiorana di maltrattamenti e favoreggiamento e la condanna a 3 anni e 6 mesi di reclusione.
Ma perché la Corte non ha inteso accettare la tesi dell’omicidio volontario aggravato proposta dal Pubblico Ministero, né quella di omicidio colposo proposta dalla difesa?
È assurdo anzitutto pensare ch’egli, senza una ragione inducente al delitto, e cioè in difetto di un motivo proporzionato, volesse la strage della vittima ed è ancora più assurdo supporre che si servisse del calcio e consumasse il delitto alla presenza di testi (la figlia, che nella sua loquacità priva di accorgimenti lo avrebbe compromesso), quando avrebbe potuto arrivare all’omicidio – se veramente l’avesse voluto – con mezzi e modi meno appariscenti. Comunque non avrebbe lasciato in vita la vittima per impedirle di essere accusato. Tutto ciò va detto a prescindere dai suoi ottimi precedenti penali, che ne facevano un galantuomo e sarebbe strano che il galantuomo cominciasse a delinquere con un omicidio senza causa.
L’omicidio avvenne per una fatale complicazione, non prevista né voluta, di un’abitudine, costituente pur essa un delitto, ma di natura assai meno grave.
In quel giorno, in un momento di in contenuta collera (essendosi la bimba sporcata le scarpe), trascinato dall’abitudine di incrudelire contro la stessa, volle, ripetendo l’atto già altra volta senza conseguenze compiuto, sferrarle un calcio. Fatalmente la vittima si trovava con la vescica piena, talché questa, all’urto e per contraccolpo, si ruppe contro la volontà e la previsione dell’agente.
Giudicare che costui non abbia voluto l’omicidio non è indulgenza, ma serena valutazione del fatto.
 La richiesta della difesa, tendente a degradare l’accisa di omicidio volontario in quella di omicidio colposo – quale conseguenza non voluta – non può accogliersi perché si risponde di omicidio colposo solo quando l’evento “morte” avvenga nella esecuzione e quale accidente di qualsiasi reato, tranne i reati di percosse e lesioni, nei quali casi si risponde di omicidio preterintenzionale.[1]
Si può essere d’accordo o meno, ma questo è.
Ciò su cui si deve essere d’accordo è che i bambini non si toccano. Mai.
In memoria di Matilde. In memoria di tutti i bambini maltrattati e uccisi dalla violenza cieca di noi “grandi”.

 

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.

 

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