IL PADRE E IL FIGLIO

È appena passato il mezzogiorno del 24 febbraio 1950 e i Carabinieri di Aprigliano sono seduti intorno alla tavola per mangiare un bel piatto fumante di pasta e fagioli. Fuori fa freddo per la neve caduta durante tutta la notte mentre adesso il cielo minaccia pioggia e il cibo caldo è davvero un toccasana.
I colpi alla porta della caserma scuotono il tranquillo momento conviviale e il Brigadiere Giovanni Squillace, comandante della stazione, non può fare a meno di buttare per terra il cucchiaio con una imprecazione e un gesto di stizza quando il suo sottoposto gli riferisce il perché di quella visita fuori orario: in contrada Destre un certo Ignazio Borrelli ha sparato una fucilata al proprio figlio Salvatore, uccidendolo.
Arrivati sul posto, i Carabinieri trovano il cadavere steso in posizione supina su un letto matrimoniale, con il pigiama intriso di sangue nella zona del basso ventre. Sopra una seggiola una camicia nera sforacchiata e abbondantemente macchiata di sangue. Intorno al morto alcuni familiari si disperano, ma del presunto omicida in casa non c’è traccia.
– Viviamo tutti nella stessa casa: papà, mamma, io che sono zitella e il povero Salvatore con la moglie e i loro sette figli – racconta Agata –. Stamattina, dopo che mio fratello era andato in campagna a lavorare e aver lasciato mio padre seduto davanti al fuoco a mangiare qualcosa, sono andata a fare il pane nel basso con una mia nipote. A un certo punto ho sentito la botta di uno sparo venire dal piano di sopra. Sono salita in fretta e furia e ho trovato Salvatore pieno di sangue per terra che respirava a fatica. “Mettetemi
sul letto”
ha detto e con l’aiuto dei miei nipoti l’abbiamo accontentato, ma ormai non respirava più. Papà non era più in casa e non c’era più nemmeno il fucile e così ho pensato, e penso, che sia stato lui ad ammazzare Salvatore. Vi dico pure che tra mio fratello e mio padre non c’erano buoni rapporti perché papà si era intromesso nelle discussioni tra Salvatore e la moglie per fargli fare pace, ma mio fratello non ne voleva sapere e litigavano spesso, arrivando quasi a picchiarsi, ma sono sempre riuscita a evitare guai dividendoli in tempo. Anche stamattina hanno avuto parole e Salvatore gli ha tirato addosso una sedia…
Ignazio è sparito come è sparito il fucile e due più due fa sempre quattro: l’assassino è lui, ma non può essere andato troppo lontano, ha ottantadue anni, diamine! La pioggia battente ha preso il posto della neve, quando il Brigadiere Squillaci va alla stazione della Calabro-Lucana ad accertarsi che non sia partito verso Cosenza con la Littorina e qui viene raggiunto dal carabiniere Taruscio che lo avvisa di aver localizzato il presunto assassino in casa di un’altra figlia in contrada Macchie Vergini, nel limitrofo comune di Pietrafitta.
– Sono stati i nipoti ad avvisarci signor Brigadiere. Adesso è disarmato e calmo…
Ignazio è seduto su una seggiola circondato dai nipoti che hanno appeso la doppietta a un chiodo.
– Il fucile lo abbiamo scaricato. In tasca ne aveva altre tre… – dicono i nipoti porgendo ai militari cinque cartucce inesplose.
Ignazio viene portato in caserma sotto la pioggia. Fattolo asciugare e cambiare e fattolo calmare del tutto, verso le nove di sera il Brigadiere lo interroga:
Mio figlio non mi vedeva più di buon occhio perché gli consigliavo di comportarsi bene con la moglie e la famiglia. Non gli andava bene niente di quello che si faceva in casa e io avevo anche consigliato alla moglie di non rispondergli quando lui la richiamava o la maltrattava, ma lei faceva tutto il contrario e gli rispondeva aspramente, finché ha deciso di andarsene e tornare a casa sua. Ai figli non gli faceva niente e non faceva mancare loro il necessario. Da qualche tempo a questa parte si è pure permesso di picchiarmi, ma non sono venuto a denunciarlo per l’intervento di mia figlia Agata e delle mie nipoti. Nel mese di settembre dell’anno scorso con l’uncino, il bastone per raccogliere i frutti dagli alberi, mi ha rotto la testa e l’ho perdonato, come l’ho perdonato altre volte. Stamattina, prima di andare a lavorare, mi ha tirato addosso una sedia colpendomi a una gamba e quando è tornato dalla campagna ha cominciato a offendermi, mi ha detto che dovevo andarmene da casa mia altrimenti mi avrebbe ammazzato. Io andarmene da casa mia? Manco morto! Poi ha preso un tizzone dal fuoco e mi ha colpito a un braccio e mi avrebbe colpito ancora se una figlia non fosse riuscita a calmarlo. Almeno così sembrava. Agata e le mie nipoti sono andate a sbrigare le faccende domestiche e lui ha ricominciato a offendermi e minacciarmi, poi è uscito di nuovo e io ho avuto paura che, trovandomi ancora a casa quando tornava, mi avrebbe ammazzato davvero. Così ho preso il fucile dal muro e l’ho caricato con due cartucce a pallettoni e ho aspettato. Quando è tornato mi ha guardato male, poi si è affacciato dalla porta per vedere se il tempo era migliorato e io mi sono messo dietro di lui col fucile spianato con l’intenzione di dirgli che se non l’avesse finita con le sue angherie avrei ammazzato io a lui. Poi si è voltato verso di me e ha visto il fucile puntato, mi si è lanciato addosso per togliermelo, senza darmi il tempo di parlare e allora ho sparato. Un colpo solo. Lui è caduto sul pianerottolo, mezzo dentro e mezzo fuori. Volete sapere se qualcuno mi ha suggerito di uccidere mio figlio? No, la decisione è stata solo mia…
C’è un reo confesso, ci sono dei testimoni che confermano i maltrattamenti subiti dal vecchio Ignazio e questo dovrebbe bastare. Invece al Brigadiere Squillaci non basta perché qualche mese prima aveva accompagnato la moglie di Salvatore a casa del marito per dare esecuzione a una sentenza del Tribunale di Cosenza che imponeva all’uomo di consegnarle la somma di 16.000 Lire, la biancheria personale, il mobilio e i due figli più piccoli. A questo seguì la denuncia di Salvatore che accusava la moglie di essersi appropriata indebitamente di un involto contenente suoi effetti personali, ma la perquisizione a cui venne sottoposta la donna non ottenne risultati. Squillaci, nel suo rapporto evidenziò anche come dall’epoca in cui si sarebbe accorto della infedeltà della moglie – primi mesi del corrente anno 1950 – viene definito elemento che darebbe segni di alienazione mentale.
Interroga gli altri figli di Ignazio e questi confermano i dissidi tra il vecchio e il figlio Salvatore, ma dicono di non sapere assolutamente niente delle botte. Aggiungono, anche, che Salvatore accusava il padre di non volergli rivelare ciò che sapeva della tresca tra sua moglie e un suo cugino di primo grado.
– Salvatore accusava la moglie di avergli attaccato la blenorragia, a sua volta attaccatale dall’amante – riferisce qualche testimone.
– Non ho avuto mai a che fare con quella donna e posso assicurare di non essermi mai congiunto carnalmente con lei. Mio cugino è
stato sempre geloso della moglie, anche prima di sposarsi, tanto da sospettare addirittura una relazione incestuosa col fratello. Non sono stato mai affetto da malattie veneree.
Ma qui nasce un inghippo: a carico del presunto amante spunta una querela da parte di una compaesana nubile la quale, posseduta a viva forza dall’uomo, oltre ad aver perso la verginità, è rimasta contagiata da malattia venerea. Se l’uomo ha contagiato quella poveretta, allora Salvatore aveva ragione a sostenere di essere stato infettato dalla moglie. E se la moglie aveva una malattia venerea, allora era vera la voce che fosse in tresca col cugino del marito. Che dietro l’omicidio ci sia qualcos’altro? Perché Ignazio continuava ostinatamente a difendere la nuora?
La causa delle liti tra il defunto mio padre e mio nonno era dovuta al fatto che mio padre, essendo convinto dell’infedeltà di mia madre che aveva abbandonato la casa, spesso parlava male di lei e mio nonno, con buone parole, cercava di calmarlo e di persuaderlo a fare tornare a casa mia madre e lo esortava a non credere a quanto si diceva sul suo conto. Agli avvertimenti di mio nonno, mio padre si infuriava di più ed allora inveiva contro mio nonno e più di una volta io intervenni ed evitai che mio nonno fosse percosso – rivela la nipote maggiore del vecchio.
Mio padre era convinto che la moglie di mio fratello era una donna onesta e cercava di convincere mio fratello a farla ritornare a casa – dice una delle figlie di Ignazio.
Sono certo che mia nuora era onesta e che mai avesse tradito il marito. Cercai con tutti i mezzi di persuadere mio figlio a non maltrattare la moglie, anche perché i suoi sette figlioli sarebbero rimasti senza cure materne, ma egli non mi stette mai a sentire ed era pervaso da forte gelosia. Non mancai nemmeno di avvertire mia nuora di perdonare il marito per quanto le faceva, ma lei non poté più a lungo sopportare le liti e andò via di casa – spiega Ignazio.
Aveva l’idea fissa del mio tradimento e per me la casa coniugale si trasformò in un luogo di torture. Mio suocero interveniva sempre nelle liti e cercava di persuadere mio marito che quanto egli credeva nei miei riguardi era falso. Ciò determinava maggiore risentimento in mio marito e allora si rivolgeva contro il padre sottoponendolo anche a percosse – dice la vedova.
– Mio suocero teneva alla pace della famiglia, tanto più che i miei cognati hanno sette figli piccoli – sintetizza uno dei generi di Ignazio.
Mantenere unita e in pace la famiglia di Salvatore. Questa è la ragione dell’ostinazione di Ignazio a difendere la nuora e di ciò se ne convince anche il Brigadiere Squillaci che, chiamato a testimoniare davanti al Procuratore della Repubblica, dice:
Il Borrelli Ignazio usò buone maniere per spingere il figlio Salvatore a rappacificarsi con la moglie, ma la sua opera fu vana, anzi acuì i maltrattamenti del figlio verso di lui.
Ma questa non è la convinzione della Procura che chiede e ottiene il rinvio a giudizio di Ignazio Borrelli per omicidio aggravato.
Durante il dibattimento Ignazio aggiunge dei particolari per spiegare l’accanimento del figlio nei suoi confronti:
Mio figlio mi maltrattava sia perché esaltavo la figura morale di sua moglie, sia perché pretendeva che io acquistassi per conto suo un fondo del quale ero colono e che si apparteneva ad un americano. Non ne avevo la possibilità finanziaria e mio figlio non si dava per inteso, anzi pretendeva che io lo rimborsassi settimanalmente della somma di lire 500 che egli spendeva per acquistare delle sigarette – e ribadisce con forza – il motivo principale del grave risentimento di mio figlio contro di me era esattamente quello relativo al fatto che egli pretendeva che acquistassi il fondo e gli corrispondessi settimanalmente lire 500 per le sigarette. Io riferii sia ai Carabinieri che al Giudice queste circostanze e mi meraviglio come essi non le abbiano trascritte in verbale.
Ecco, Ignazio ha fatto la frittata. Il movente non è più di carattere morale ma di interesse economico e a niente servono le testimonianze che smentiscono recisamente queste dichiarazioni.
Ignazio Borrelli, per la giuria, è colpevole di omicidio aggravato e, concesse  le attenuanti generiche e l’attenuante di avere agito in stato d’ira, viene condannato a quattordici anni di reclusione, 20.000 lire di ammenda, al pagamento delle spese, dei danni e del suo mantenimento in carcere durante il periodo di custodia cautelare, nonché, scontata la pena, alla libertà vigilata per almeno tre anni e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici. È il 13 novembre 1951 e per un vecchio di 82 anni significa fine pena: mai.
Il ricorso in Appello viene dichiarato inammissibile per il mancato deposito dei motivi di appello e la pena è definitiva.[1]

 

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