GELTRUDE E LE PRATICHE ABORTIVE

Dopo cinque anni che il marito è emigrato Allamerica, Geltrude, madre di tre bambini, accoglie in casa prima la suocera, Carmela La Via, e poi, dai primi del mese di ottobre del 1943, anche il trentenne cognato Umberto Salvatore. La promiscuità della convivenza in un ambiente molto angusto per sei persone favorisce subito la nascita di una relazione adulterina tra Umberto e Geltrude, che nel mese di gennaio 1944 si fa accompagnare dalla cognata Angelina Arcieri all’ospedale di Corigliano perché è da mesi che le sono scomparse le mestruazioni e qui, come già sospettava, le dicono che è incinta e sta per entrare nel quinto mese.

– Incinta? Di cinque mesi? – le fa Angelina sgranando gli occhi e facendo un gesto con la mano per chiederle chi sia il padre.

– Angelì… e chi può essere il padre? Lo sai come stiamo in casa…

– Umberto?

– Umberto…

– O gesummaria! E mò?

– Ancora non si vede tanto, dirò a mia suocera e alle amiche che, lavando la biancheria familiare, mi sono accorta della scomparsa delle mestruazioni per uno spavento

– E poi?

– E poi… non lo so…

Ma è facile immaginare cosa accade non appena la gravidanza non può più essere nascosta: tutti del paese l’attribuiscono al cognato Umberto e ciò perché Geltrude sta quasi sempre in casa. Adesso però bisogna fare qualcosa per far cessare il chiacchiericcio ed i due adulteri non hanno che una soluzione: interrompere la gravidanza.

Allora Geltrude, col pretesto di fare degli acquisti e poi farsi operare di emorroidi, accompagnata fino ad un certo punto dal drudo va a Castrovillari per cercare di abortire, ma è costretta a tornare a Corigliano ed a questo punto è inevitabile coinvolgere nel disgraziato progetto anche la suocera. Con i consigli e la fattiva collaborazione della suocera e del cognato/amante, Geltrude comincia a sottoporsi ad ogni sorta di pratica abortiva, sia ingerendo della liscivia (la liscivia è una soluzione acquosa carbonata con potere sgrassante e sbiancante, usata come detergente per il bucato e si ottiene miscelando cinque parti di acqua bollente a una parte di cenere di legno setacciata per estrarre il carbonato di sodio e di potassio che la cenere contiene e filtrando il tutto. Il suo potere detergente è accompagnato da una blanda azione corrosiva. Nda) che scioglie la sera e beve al mattino dopo averla lasciata al fresco tutta la notte o dei medicinali purganti salini e chinino, sia facendosi pediluvi caldissimi a base di liscivia o applicazioni di mattoni caldi sull’addome, sia facendosi introdurre nella vagina un ferro da filare riscaldato nell’acqua bollente o ancora un ferro da calza arroventato.

La conseguenza di tutte queste sciagurate pratiche è una imponente emorragia. Dopo tre lunghi giorni di atroci sofferenze, a cui assistono inevitabilmente anche i tre figlioletti di Geltrude, così come hanno assistito a tutte le barbare pratiche abortive, finalmente la suocera, la notte tra il 10 e l’11 aprile 1944, si decide a chiamare una levatrice, non prima, però, di fare un lavaggio tiepido con permanganato. La levatrice accorre subito e trova Geltrude in tale stato di pericolo da consigliare l’immediato ricovero in ospedale dove, giunta la stessa notte in condizioni generali gravissime e tali da far desistere dall’idea di qualsiasi intervento ostetrico, è giudicata affetta da endometrite putrida in gravida al settimo mese con settico – pioemia e flebite delle femorali destra e sinistra.

Davanti a questa drammatica situazione, sia la levatrice che i sanitari dell’ospedale sospettano che sia stata sottoposta a manovre abortive, ma Geltrude nega ostinatamente e dopo tre giorni viene rimandata a casa in condizioni sempre più gravi.

A casa Geltrude si libera di un feto morto per la medesima tossinfezione generalizzata, presumibilmente con punto di partenza dal collo uterino, e il giorno successivo, purtroppo, muore anche lei.

Dal sospetto all’accusa generalizzata il passo è breve e Carmela La Via, con l’accusa di procurato aborto da cui derivò la morte di Geltrude Monteforte, finisce in carcere. Umberto Salvatore è accusato di concorso nello stesso reato, ma è sparito dalla circolazione.

Il Giudice Istruttore, al termine delle indagini, ritiene che Geltrude è stata, si, sottoposta a pratiche abortive che l’hanno portata alla morte, ma era consenziente, così il 26 ottobre 1944 madre e figlio vengono rinviati al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza per rispondere, la prima di procurato aborto seguito da morte su donna consenziente ed il secondo di concorso nello stesso reato.

La causa si discute il 14 marzo 1945 e la Corte, letti gli atti ed ascoltati i testimoni, afferma che, attraverso le prove, si è convinta che la La Via ha in realtà procurato l’aborto alla nuora, resa incinta dal figlio Umberto, col concorso di costui e con il consenso della vittima. E questo nonostante i racconti precisi dei figli di Geltrude, che raccontano l’orrore a cui hanno assistito quando la mamma veniva sottoposta alle pratiche abortive della nonna, aiutata dallo zio.

– Mamma non voleva e protestava – raccontano i bambini, oltre a descrivere minuziosamente tutto ciò che hanno visto.

La Corte, però, obietta, confortata dalle confessioni di Carmela La Via, la quale dice che Geltrude tutte quelle porcherie le faceva da sola e lei ed il figlio la rimproveravano – ma perché allora non l’hanno fermata? –, che i bambini hanno scambiato per dissenso quelli che erano i naturali lamenti per il dolore conseguente alle pratiche. La difesa cerca di approfittare dell’affermazione della Corte e sostiene che, in mancanza di una prova certa che sia l’aborto, sia la morte di Geltrude Monteforte siano stati cagionati dal fatto altrui, non si può, solo attraverso le deposizioni dei tre teneri fanciulli, che possono essere stati influenzati dai nonni materni, affermare la responsabilità dei loro difesi. La Corte però smonta questa tesi affermando che: sta bene che i periti settori, come pure i medici dell’ospedale nel quale la vittima fu ricoverata, si trovarono nella impossibilità di stabilire con sicurezza la causa della tossinfezione generalizzata della quale fu riscontrata affetta la paziente e che uccise prima il feto nell’utero materno e poi la madre, ma è pur vero che i predetti sanitari hanno sostenuto che presumibilmente il punto di partenza della tossinfezione letale sia stato il collo uterino per le alterazioni riscontrate a carico della mucosa di esso, riferibile ad attecchimento di germi pervenuti dall’esterno con meccanismo imprecisabile. Tale giudizio presuntivo diventa certezza quando agli accertamenti eseguiti dai periti settori si aggiungono le circostanze di fatto deposte dai testimoni. Poi ripercorre le fasi più cruente delle pratiche abortive per dimostrare quanto afferma: nella vagina della Monteforte per una decina di volte introdussero un fuso per filare riscaldato nell’acqua bollente ed una volta un ferro da calza. Tali introduzioni hanno apportato i germi anaerobi pervenuti dall’esterno, il cui attecchimento sul collo dell’utero ha cagionato la tossinfezione letale, così diffusa d’avere guadagnato le vene e da costituire uno stato setticemico che impediva di stabilire il primo movente di essa. La consulenza tecnica di un grande e stimato maestro, presentata dalla difesa in proposito, non può nel caso avere alcuna rilevanza in quanto prescinde dal fatto certo dell’introduzione in vagina del fuso e del ferro da calza non bene sterilizzati e si fonda su una carenza di vitamina C nell’organismo della vittima, da nessuno constatata e del tutto anormale nei nostri contadini che, anche in questi duri anni di guerra, si alimentano di frutta e verdura, ricche di vitamina C. Né la Corte può dubitare della veridicità dei tre bambini, che non hanno potuto essere influenzati dai nonni materni, che nessun accanimento hanno mostrato verso gli imputati, disinteressandosi del tutto della loro sorte, soprattutto perché le pratiche abortive di cui parlano i bambini sono commesse dalla stessa imputata presente, pur attribuendole alla vittima.

Poi parole di comprensione per l’imputata: cuore di mamma fu messo alla più dura prova dal comportamento sleale, peccaminoso e delittuoso della nuora e del proprio figlio. La famiglia dell’altro figlio, emigrato in America, si sarebbe accresciuta di un altro figlio, testimone della colpa della madre e dello zio e del conseguente disonore familiare e cagione, forse, di fosca tragedia in un prossimo domani. Se per questo volle evitare, la sventurata Carmela La Via, giunta alla tarda età onesta e rispettata, sopprimendo l’innocente creatura, il cui avvento alla luce avrebbe portato tanto lutto nella sua famiglia, disonore, odio tra i fratelli, forse vendetta sulla nuora e sul figlio correo nell’adulterio, non può denegarsi che ella fu mossa all’azione delittuosa per salvare l’onore del figlio assente e che sia meritevole, oltre che dell’attenuante di avere agito per causa d’onore, anche di quelle generiche. Nessuna attenuante, invece, a favore dell’imputato Umberto Salvatore, la cui turpe condotta contrasta con i benefici invocati. Non può essere mosso a salvare l’onore colui che ne ha fatto strazio.

Detto ciò, non resta che quantificare le pena da infliggere: Carmela La Via, considerate le attenuanti, viene condannata ad anni 3 di reclusione. Umberto Salvatore ad anni 10. Per entrambi le spese e le pene accessorie. Non ci sono danni da pagare, nessuno si è costituito parte civile a tutela dei tre bambini innocenti. Il quarto, espulso morto dal ventre materno, nemmeno conta ai fini della legge.

Il primo marzo 1946 la Suprema Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso di Umberto Salvatore.

Il 13 maggio 1954, la Corte d’Appello di Catanzaro, applicando il D.P. 19 dicembre 1953, N. 922, dichiara condonata ad Umberto Salvatore la pena residua di anni 2, mesi 1 e giorni 28.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.