DONNA LUIGINA

La quarantanovenne gentildonna Luigina Leo è nubile e nel 1944 vive da sola in un bell’appartamento di proprietà a Cosenza, ma la solitudine è pesante così decide di darlo in fitto alla famiglia Scurti, con la quale ha consuetudine di vita e sincera e leale amicizia, riservandosi per sua abitazione una camera indipendente e separata dalle altre da uno stretto corridoio. Ma nemmeno questa soluzione sembra soddisfarla perché, nonostante la sua età, vagheggia un qualche conveniente matrimonio.

Gli Scurti si divertono a prenderla in giro per tale suo ossessionante desiderio dicendole che una qualche buona occasione non le potrà mancare e un giorno che va a far loro visita tale Stanislao Armieri, glielo presentano quale principe molto ricco che si è invaghito di lei e vuole sposarla. Donna Luigina, ingenua e credula, è entusiasta e gli chiede dettagli sulla di lui ricchezza, sul di lui paese e lo sollecita a vedersi spesso.

È uno scherzo crudele perché quando il “principe” si stancherà o donna Luigina in qualche modo scoprirà la verità, la delusione sarà tremenda. Ma questo non è il problema principale di donna Luigina: il suo problema è che a Francesco, il diciottenne figlio degli Scurti, viene in mente di poter approfittare della beffa per trarne il suo tornaconto. Ed è capace di farlo perché è quasi alla disperazione. Perché? Perché a Francesco non piace lavorare e né studiare, visto che frequenta ancora la prima media, ma gli piace la crapula con donnine allegre, sebbene a corto del danaro necessario, onde è perfino costretto a contrarre un debito in denaro con Antonietta, la sua prostituta preferita, e deve restituirle tutto altrimenti saranno guai.

Ha in testa un’idea, ma ha bisogno di un complice e la scelta cade sul diciassettenne Raffaele Leonetti, discolo perditempo che se n’è andato da casa e vive randagio accattando a quando a quando ospitalità e vitto da qualche amico buono e generoso. Lo prende da parte e, seduti sulla riva del Crati appena fuori città, gliene parla e insieme elaborano un piano: far credere a donna Luigina che il principe della beffa desidera un suo messaggio d’amore e che all’uopo avrebbe mandato da lei un suo servo a ritirare la lettera desiderata. Francesco tenderà la trappola, Raffaele sarà presentato come il servo del principe e una volta avuta in loro presenza l’ingenua vecchietta, piena di speranze e di fiducia, l’accopperanno insieme per poi darsi a far man bassa di quanto più riuscirà loro di arraffare di denaro, gioie, effetti d’uso che la donna possiede.

Adesso bisogna pensare agli strumenti da usare per accoppare la donna, ai tempi d’esecuzione del piano ed a trovare un ricettatore fidato. Gli strumenti saranno un tovagliolo ed un asciugamano; il piano verrà messo in atto il primo giorno che donna Luigina resterà da sola in casa; il ricettatore sarà il trentanovenne Arduino Scarpelli di Rovito, lo stesso paese della famiglia Scurti, che promette a Francesco di accettare la refurtiva e di aiutarli a collocarla.

Sabato 18 novembre 1944 la famiglia Scurti va a Rovito per un paio di giorni, donna Luigina resta da sola in casa e la domenica è il giorno propizio. Di buon mattino Francesco torna a Cosenza e cerca il complice; quando lo trova si appartano e preparano con ogni cura l’esecuzione del crimine. Pranzano insieme e insieme vanno al cinematografo e poi insieme a casa di Francesco. Schermano con una coperta la finestra della prima camera per evitare che qualcuno, sapendo gli Scurti a Rovito, si insospettisca; Raffaele indossa un abito di Francesco, più presentabile dei suoi stracci, in modo da non sfigurare quando si presenterà come servo del principe. Poi Francesco va a bussare alla porta della camera di donna Luigina:

– E tu sei tornato? – gli dice, sorpresa.

– Donna Luigì, sono tornato per voi perché ho visto il principe e mi ha detto di riferirvi che vorrebbe da voi una lettera d’amore. Tenetela pronta per stasera perché verrà un suo servo a ritirarla.

– Ma davvero dici? – gli occhi le brillano di gioia.

– Certo, come vi ho detto sono tornato apposta!

– E a che ora viene il servo?

– Di preciso non lo so, mi ha detto di tenere pronta la lettera. Appena viene vi chiamo.

– Va bene, va bene! Adesso ti lascio così gli scrivo la lettera, mi raccomando chiamami appena arriva il servo, così vengo di là e gliela do personalmente. Non vedo l’ora che arrivi stasera! Grazie Cicciuzzo – termina dandogli una carezza, e trattenendo a stento lacrime di gioia, poi rientra in camera e chiude la porta.

Francesco si sfrega le mani soddisfatto pregustando già la refurtiva e rientra in casa dove lo aspetta il compare per stabilire gli ultimi particolari.

– La cordicella mettitela in tasca – dice a Raffaele.

– Si, l’asciugamano dov’è? E il tovagliolo? – gli fa di rimando.

– Il tovagliolo ce l’ho in tasca, l’asciugamani l’ho messo sulla sedia dietro la porta. È tutto pronto, adesso vai a farti una camminata, stasera al buio operiamo!

Alle 22,30 le nocche di Francesco battono discretamente sulla porta della gentildonna, che in un attimo apre. Al petto stringe una busta per lettere.

– È arrivato! – le sussurra. Lei sospira e lo segue.

– Buonasera signora – la saluta con un inchino il sedicente servo – il mio padrone mi ha raccomandato di riferirvi qualche parola in segreto, il signore ci scuserà – termina inchinandosi verso Francesco, mentre donna Luigina gli fa segno di seguirlo e si appartano nello stretto corridoio.

Quando Raffaele è di fronte a donna Luigina sorride, è il segnale che è pronto ad agire. All’improvviso afferra la malcapitata e le tappa la bocca con una mano per impedirle di urlare, mentre Francesco le piomba alle spalle e l’imbavaglia con l’asciugamano. La donna si dibatte disperatamente e Raffaele le assesta un paio di pugni sul viso stordendola, mentre il sangue comincia a gocciolare sul pavimento, poi toglie la cordicella dalla tasca, le lega le mani e insieme la trascinano in una camera attigua, costringendola a sedere su di una sedia, che si rompe lasciandola cadere per terra.

Francesco prende il tovagliolo che ha in tasca, ne porge un capo al compare, lo passano intorno al collo della disgraziata e cominciano a tirare con quanta forza hanno. Donna Luigina rantola, strabuzza gli occhi e dopo qualche minuto di agonia muore. I due mollano la presa, vanno nella camera di donna Luigina, schermano la finestra con una coperta per non fare vedere la luce della lampadina elettrica dall’esterno, vanno a prendere il cadavere e lo portano nella camera. Ora sono liberi di rovistare dappertutto afferrando ogni cosa che ha valore: oro, soldi, biancheria e mettono tutto in due sacchi, poi si dedicano a ripulire il pavimento dal sangue e per confondere le macchie pensano anche di versarci sopra del vino rosso. Una volta terminata l’operazione, si caricano i sacchi sulle spalle ed escono dalla camera chiudendo la porta con le chiavi di cui si sono impossessati, poi, dopo aver chiuso a chiave anche il portone dell’appartamento, vanno sul greto del Crati a seppellire uno dei due sacchi e quindi si avviano a piedi a Rovito, dove lasciano a casa di Arduino Scarpelli l’altro sacco. Stanchi, ma elettrizzati per la riuscita del colpo, tornano in città a gozzovigliare.

Quando la famiglia Scurti torna da Rovito trova strano il fatto che donna Luigina non sia andata a salutarli e non abbia risposto quando sono andati a chiamarla perché non è mai successo che si sia allontanata da casa; trovano strane anche quella macchie rossastre sul pavimento perché nessuno dice di ricordare quando è caduto del vino, come invece ricorda Francesco. Chiedono in giro ma nessuno ha visto la gentildonna e poi c’è quello strano odore che viene dallo stretto corridoio della sua camera e che aumenta di ora in ora.

Deve esserle accaduta qualcosa e, avvisata la Polizia, decidono di sfondare la porta. Lo spettacolo che si presenta agli occhi degli Scurti e degli agenti di Polizia è di quelli che non si dimenticano ed è chiaro che è stata aggredita, uccisa e derubata. Ma chi può essere stato, visto che non frequentava quasi nessuno e che, come assicurano gli Scurti, non era solita aprire il portone di casa quando qualcuno bussava? Potrebbe essere stato Stanislao Armieri, il principe per scherzo, ma ha un alibi di ferro. Potrebbero essere stati gli Scurti, ma erano tutti a Rovito. Tutti? No, qualcuno ha visto Francesco a Cosenza durante la domenica, in compagnia di un altro giovanotto. Quando gli agenti vanno a casa per invitarlo in Questura a rispondere a qualche domanda, non possono fare a meno di notare le macchie rossastre e i sospetti aumentano, così le poche domande che avrebbero dovuto fargli diventano un vero e proprio interrogatorio al quale il giovanotto non regge e confessa tutto fin nei minimi particolari. Ovviamente viene arrestato anche Raffaele Leonetti e anche lui confessa tutto. Entrambi, però, in un secondo interrogatorio modificano qualcosa per cercare di diminuire la propria responsabilità, senza ottenere l’effetto sperato.

Allora la difesa di Francesco Scurti, attraverso un certificato medico rilasciato al suo assistito il 24 novembre 1944, attestante una tossicemia da meningismo di natura criptogenetica per la quale era stato curato nei precedenti mesi di maggio e giugno, sostiene che, a guarigione clinica avvenuta, sarebbe residuata una notevole alterazione delle sue facoltà mentali e che tale minorazione è risultata assai più evidente col passare del tempo, a giudicare dagli atti compiuti e dai quali esula ogni senso di coscienza delle proprie azioni. A corredo, cita alcuni testimoni e chiede che Scurti sia sottoposto a perizia psichiatrica. Il Giudice Istruttore, ascoltati i testimoni citati, ritiene che gli elementi di prova forniti non sono sufficienti a mettere in dubbio la piena facoltà di mente dell’imputato e rigetta la richiesta.

A sua volta la difesa di Raffaele Leonetti, assumendo che dagli atti non risulta che il suo assistito, minorenne al momento del fatto, abbia capacità di intendere e volere, chiede di accertarla tramite perizia, anche perché esibisce un certificato medico che attesta come Leonetti sia affetto dal morbo di Basedow (patologia autoimmune che determina l’instaurarsi di uno stato di ipertiroidismo. Il paziente, tra gli altri sintomi, può soffrire anche di ansia, insonnia, eccessiva emotività, irritabilità, inquietezza e depressione. Nda), che può avere influenza sul suo stato di mente. Anche questa richiesta viene respinta dopo una lunga dissertazione medico-legale.

Arduino Scarpelli viene arrestato con l’imputazione di ricettazione e si difende sostenendo di non sapere che gli oggetti rinvenuti a casa sua fossero di provenienza illecita e di averli soltanto tenuti in deposito per conto di Scurti e Leonetti. Nel corso delle indagini sorgono forti sospetti che anche la moglie di Scarpelli, la trentacinquenne Amalia Venturi, sia convolta nel reato di ricettazione e anche lei finisce dietro le sbarre.

A istruzione conclusa tutti e quattro gli imputati vengono rinviati al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza. Ovviamente Francesco Scurti e Raffaele Leonetti risponderanno delle gravissime imputazioni di concorso in omicidio aggravato dalla premeditazione e dalla crudeltà, commesso al fine di eseguire il reato di rapina. I coniugi Scarpelli – Venturi di concorso in ricettazione.

Il 15 giugno 1945 la Corte conclude i lavori osservando che, in esito alle risultanze dell’istruzione e del pubblico dibattimento, non può revocarsi in dubbio la colpevolezza degli imputati Scurti e Leonetti in ordine ai reati loro ascritti. Hanno confessato di avere ucciso Leo Luigina mediante strangolamento e di averla poscia derubata, di quanto hanno potuto, dei suoi averi. La loro confessione particolareggiata, la regina delle prove, trova pure riscontro nella necroscopia che accertò la morte per asfissia da strangolamento, nelle deposizioni testimoniali di coloro ai quali Leonetti, stragiudizialmente, confessò i fatti commessi e nel rinvenimento della refurtiva nei luoghi da loro indicati. Entrambi, è vero, hanno affermato che non volevano uccidere la Leo, ma soltanto derubarla. Il loro assunto, però, non può essere atteso dalla Corte, la quale ben ricorda che la povera vittima, dapprima imbavagliata, fu strangolata dai due imputati. Se essi non avessero avuto volontà di uccidere, si sarebbero limitati ad immobilizzare la vittima e ad imbavagliarla per non farla gridare al soccorso e potevano quindi agevolmente fare il bottino. Invece, come è loro confessione, la legarono, la imbavagliarono e quindi la strangolarono con un tovagliolo legatole attorno al collo, tirando l’uno da un capo e l’altro dall’altro e la lasciarono soltanto quando non dette più segni di vita. D’altronde non potevano non volere la sua morte perché soltanto questa poteva lasciar loro una qualche speranza d’impunità, per ottenere la quale tante precauzioni avevano prese. Se la Leo fosse rimasta in vita avrebbe subito denunziato lo Scurti come uno dei due che le avevano usato violenza e l’avevano derubata perché ella lo conosceva perfettamente, abitando nella stessa casa ed avendo avuto con lui, come con la sua famiglia, amicizia e consuetudine di vita. Né può essere atteso dalla Corte l’assunto della difesa del Leonetti, che nega la partecipazione di costui all’uccisione perché nel secondo interrogatorio ha dichiarato di aver desistito dal tirare il tovagliolo strangolatore, mosso a pietà dai lamenti della vittima. Già la desistenza rivelata nel secondo interrogatorio non è in alcun modo provato ed è recisamente smentito dal correo Scurti, ma comunque non avrebbe alcuna rilevanza essendosi la morte verificata lo stesso e come conseguenza dell’attività di Leonetti, che agì di pieno accordo con Scurti in tutti i passi dell’iter criminoso. Non può nemmeno essere atteso l’ultimo assunto della difesa che l’opera prestata da Leonetti nell’esecuzione del delitto debba essere considerata di minima importanza. La minima importanza dell’opera prestata da taluno dei concorrenti nel reato implica un’attività di molto scarsa efficienza causale, non necessaria, pleonastica. Nel caso in esame, invece, l’opera di Leonetti deve considerarsi di massima importanza perché attivo e presente così nell’ideazione, preordinazione e meditazione del delitto, come fu presente ed attivo nell’esecuzione di esso in quanto fu lui che per primo aggredì la vittima mettendole una mano sulla bocca, consentendo all’altro concorrente di aggredirla da tergo e d’imbavagliarla e legarla, che poi, in perfetto accordo con l’altro, la strangolò con il tovagliolo. Mancando la sua opera il delitto non sarebbe stato commesso. L’omicidio di Luigina Leo fu, dunque, voluto e consumato da entrambi gli imputati, che vi concorsero in eguale misura e fu pure voluto e consumato quale mezzo per compiere il delitto di rapina al fine di impossessarsi degli averi dell’uccisa, quindi sussiste la relativa aggravante. Sussiste inoltre l’aggravante speciale della premeditazione. Non ricorre, invece, l’aggravante di avere agito con crudeltà verso le persone. Tale aggravante ricorre quando si dimostra, da parte del reo, la volontà d’infliggere alla vittima speciali tormenti o sofferenze per il piacere di vederla soffrire o, quanto meno, si dimostra assenza completa di quei sentimenti di compassione e di pietà, che caratterizzano l’uomo civile. Nel caso in esame nulla autorizza a ritenere che entrambi gli imputati possedessero tale perversa volontà. Tutto ciò che essi hanno commesso, dall’aggressione all’imbavagliamento, alla legatura delle mani, ai pugni per non farla gridare, allo strangolamento, costituisce il mezzo necessario nelle contingenze verificatesi per raggiungere l’evento. L’animo risoluto al delitto è elemento costitutivo di esso e non aggravante, come credette il Giudice Istruttore.

Dopo queste durissime parole, la Corte passa ad esaminare le attenuanti richieste dalla difesa: la diminuzione di pena per la minore età, maggiore degli anni 14 e minore dei 18, spetta di diritto a Leonetti, diciassettenne al momento in cui ha commesso il delitto. Giudica la Corte che, nonostante i gravissimi fatti commessi e la particolare intensità del dolo che li ha animati, debbano concedersi agli imputati le attenuanti generiche, che trovano ragione e cagione nella loro giovanissima età, più facile preda alla suggestione del male, che purtroppo dilaga in questa ora tormentata e tormentosa dell’umanità.

Tradotto il ragionamento in cifre, Francesco Scurti viene condannato ad anni 30 di reclusione; Raffaele Leonetti viene condannato ad anni 25 di reclusione. Per entrambi le spese, i danni e le pene accessorie.

Ora è il momento di giudicare Arduino Scarpelli e sua moglie Amalia Venturi, imputati di ricettazione: Scarpelli viene ritenuto colpevole del reato ascrittogli e condannato ad anni 2 di reclusione, più le spese e le pene accessorie. Al vaglio in aula degli elementi a suo carico, Amalia Venturi viene riconosciuta estranea ai fatti ed assolta per non aver commesso il fatto.

Il 22 aprile 1952 la Corte d’Assise di Cosenza dichiara condonati anni 3 della pena a Francesco Scurti.

Il 26 aprile 1952 la Corte d’Assise di Cosenza, visto il decreto di amnistia del 23 dicembre 1949, N. 939, dichiara condonata la sola multa di £ 5.000, avendo già espiata la pena della reclusione.

Il 20 febbraio 1954 la Corte d’Appello di Catanzaro, in applicazione del D.P. 19 dicembre 1953 N. 922, dichiara condonati anni 3 della pena a Raffaele Leonetti.

Il 18 marzo 1954 la Corte d’Appello di Catanzaro, in applicazione del D.P. 19 dicembre 1953 N. 922, dichiara condonati anni 3 della pena a Francesco Scurti.

Il 6 maggio 1954 la Corte d’Appello di Catanzaro, in applicazione del D.P. 19 dicembre 1953 N. 922, dichiara condonati anni 2 della pena a Raffaele Leonetti.

Il 23 ottobre 1963, la Corte d’Assise d’Appello di Catanzaro, in applicazione del D.P. 24 gennaio 1963 N.5, dichiara condonati mesi 6 della pena a Francesco Scurti.[1]

È tutto.

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.