TU PARLI TROPPO!

È l’imbrunire del 7 gennaio 1935. La diciottenne Natalia Bianco è da sola in casa ma il marito, Achille Scilinguo, sposato da appena due mesi, dovrebbe essere di ritorno da un momento all’altro dal lavoro nei campi intorno a Malvito.

Qualcuno bussa alla porta, Natalia apre e davanti a lei c’è Vittorio Jannello, che le chiede:

Quando arriva tuo marito?

– Dovrebbe essere già qui, perché? – gli risponde, infastidita, affrettandosi a richiudere la porta di casa.

Va bene… allora me ne vado.

Ma perché Natalia è rimasta infastidita dalla inaspettata visita? Perché, prima di sposare Achille, era stata, per qualche tempo, vagheggiata da Vittorio. Anzi, il padre di costui, dopo circa una settimana che la ragazza si era fidanzata con Achille, aveva tanto direttamente a lei, quanto alla madre, fatto proposta di rompere il fidanzamento per sposare Vittorio, ma ne ebbe un duplice rifiuto, anche con riguardo al fatto che pochi anni innanzi proprio esso proponente aveva, con un tremendo colpo di scure alla fronte, sfregiato e messo in pericolo la vita di un fratello della ragazza.

Vittorio ha detto che se ne sarebbe andato, invece si è fermato a pochi metri dalla casa in attesa di Achille, che arriva dopo qualche minuto portando in mano un tovagliolo pieno di verdura e non appena lo vede, fermo praticamente davanti alla porta della casa ove si trova la sua donna, esclama:

– Che fai davanti casa mia? Vattene e non permetterti più a passare da qui perché io devo tornare al mio Reggimento e non voglio che altri passino davanti alla casa dove c’è mia moglie. E poi la padrona del fondo mi ha comandato di non far passare alcuno pel viottolo che conduce alla via pubblica perché è un viottolo privato ad uso esclusivo della padrona!

Ma qui tu parli troppo, andiamo un poco sulla strada pubblica perché desidero sapere per quale ragione non posso passare davanti la porta di casa tua! – gli risponde. Ma è una sfida? Una minaccia? Fatto sta che, pronunciate queste parole, si avvia verso la strada pubblica distante solo pochi metri dalla casa, con in mano un pungolo da buoi lungo circa tre metri e dal diametro di circa tre centimetri, subito seguito da Achille, che ha sempre in mano il tovagliolo con la verdura.

Allora Vittorio si gira e, rivolto a Natalia, dice:

Natalia, non ti preoccupare, ché noi non faremo liti!

La giovane, però, timorosa nonostante la rassicurazione, li segue verso la strada. La stessa cosa fa Antonio Braiotta che, trovandosi sulla strada pubblica ad una certa distanza ed essendo a conoscenza della situazione tra i tre, nel vedere i due giovani in atteggiamento eccitato e temendo che volessero quistionare affretta il passo per impedirlo e a tale scopo richiede anche l’intervento di Raffaele Angelico che è un po’ più indietro e lo raggiunge quasi di corsa. I due affrontano un breve gomito che fa la strada e per pochi secondi Vittorio ed Achille scompaiono alla loro vista. Quando riappaiono sono uno di fronte all’altro a un paio di passi l’uno dall’altro, mentre Natalia, poco distante, è sul ciglio della strada.

Non voglio che tu passi davanti casa mia! – ripete Achille.

Ho capito, me ne debbo andare! – risponde Vittorio.

Vittorio! Vittorio! Vieni qui con noi così continuiamo la strada insieme! – urlano per ben due volte Braiotta e Angelico.

Vittorio, però, invece di rispondere loro, fa un paio di passi indietro e, disteso improvvisamente il braccio, col pungolo che ha in mano colpisce violentemente alla testa Achille. Subito dopo, lasciato cadere il pungolo, si avventa sull’avversario che, stordito dal colpo, è caduto a terra, e lo tempesta di pugni. In questo frattempo Braiotta e Angelico sono arrivati e insieme a Natalia cercano di dividere i due. Vittorio a questo punto si divincola e corre via prendendo la strada verso la sua abitazione di campagna, mentre Achille, sorretto da Natalia, va in paese per farsi medicare la ferita.

Il medico, dopo avere ascoltato il racconto dell’accaduto, rileva sul parietale sinistro una ferita lacero contusa, lunga circa tre centimetri, prodotta da bastone, che ritiene guaribile in una decina di giorni, salvo complicazioni (probabile encefaloemorragia), nel qual caso la morte sarebbe avvenuta in poche ore.

Con la speranza che non si verifichi il peggio, Achille e Natalia vanno dai Carabinieri per denunciare Vittorio Jannello, ma appena entrato in caserma Achille si accascia a terra, entra in coma e muore, come previsto dal medico, nel giro di poche ore.

Frattura del parietale sinistro con conseguente lacerazione del ramo posteriore dell’arteria meningea media e, quindi, imponente emorragia intracranica, dirà l’autopsia.

Omicidio. Si stabilirà in seguito come qualificarlo.

Ora l’urgenza è rintracciare Jannello, che sembra essersi volatilizzato. Poi, il 9 gennaio, arriva un telegramma dalla Procura di Cosenza che comunica la costituzione in carcere del ricercato. Interrogato, racconta:

Non nego di avere inferto, verso l’imbrunire di avantieri, col mio pungolo un colpo alla testa di Achille Scilingo, ma ho ciò fatto perché questi, dopo avermi ingiunto di non più transitare pel viottolo che passa avanti la sua casa di campagna, per il quale è invece a tutti consentito il transito, mi ha afferrato per la giacca e poscia, tiratosi indietro, ha fatto il gesto di estrarre dalla tasca posteriore dei pantaloni un’arma. Io, sapendo che Scilinguo andava sempre in giro armato, per tema di essere sparato gli ho vibrato un colpo col pungolo, che invece di cadere sul braccio ove lo avevo diretto, lo ha malauguratamente colpito sul capo perché in quel momento Scilinguo ha fatto un movimento in avanti con la testa. Non volevo ucciderlo, tanto è vero che per colpirlo non ho fatto uso della scure di cui ero armato.

Braiotta, Angelico e Natalia però lo smentiscono. Racconta la vedova:

Non è vero che Jannello aveva una scure e non è vero che mio marito fece il gesto di prendere un’arma dalla tasca perché non aveva armi. È vero, invece, che Jannello vibrò il colpo alla testa di mio marito proditoriamente, dopo che questi, ritenendo finito il breve diverbio, voltò la testa al suo interlocutore per far ritorno a casa.

Antonio Braiotta precisa:

Il povero Scilinguo stava di fronte a Jannello tenendo nelle mani il tovagliolo pieno di verdure e non fece alcun gesto di minaccia o di violenza contro Jannello.

Raffaele Angelico spiega:

Ebbi l’impressione che i due discorressero tranquillamente, così che inopinato quanto improvviso mi è apparso l’atto violento commesso da Jannello. Scilinguo non fece atti di violenza o di minaccia.

Terminata l’istruttoria, Vittorio Jannello viene rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza per rispondere di omicidio volontario.

La causa si discute il 30 giugno 1936 e la Corte, letti gli atti ed ascoltati i testimoni, osserva: se con riguardo ai buoni precedenti dell’imputato, all’arma non propriamente detta da lui adoperata, all’unicità del colpo vibrato a Scilinguo mentre nulla gli impediva di reiterare i colpi e, soprattutto, con riguardo alla mancanza di una causale adeguata ad un suo proposito estremo di uccidere il suo avversario, si può con tranquilla coscienza escludere che tale sia stata l’intenzione del giudicabile, cosicché l’imputazione di omicidio volontario a lui ascritta va degradata in quella di omicidio preterintenzionale; manifestamente destituita di fondamento appare la tesi difensiva principale, secondo cui l’evento della morte dello Scilinguo dovrebbe essere imputata a Jannello soltanto a titolo di eccesso colposo di legittima difesa in quanto egli, sia pure eccedendo colposamente i limiti imposti dalla necessità di difendersi, si sarebbe indotto a vibrare il colpo di bastone sol dopo che Scilinguo avrebbe fatto il gesto di estrarre un’arma dalla tasca posteriore dei pantaloni. Vero è che l’imputato, per dare un certo colore di verosimiglianza alla tesi difensiva, ha fatto citare al dibattimento i testi Feraco Teresina e Belmonte Angela, pretesemente presenti allo svolgersi dell’episodio, per deporre sul contegno tenuto dallo Scilinguo, ma le due donnicciole, non avendo osato dire nulla al riguardo perché presenti al fatto non furono, dichiararono soltanto, a domanda della difesa, “una volta vedemmo Scilinguo ch’era armato di rivoltella, di fucile e di pugnale”. Ora, non havvi chi non veda come tutto questo sia un vero tentativo di riempire di frodo il carniere difensivo, ove si consideri che, se vera la circostanza indicata nella posizione ed anche l’altra insinuata di straforo all’udienza delle due testi, allora il Jannello non avrebbe atteso di raccattarle all’ultimo momento, a dibattimento fissato, ma le avrebbe indicate subito nei suoi interrogatori resi in periodo istruttorio.

Poi la difesa, in subordine, richiede la concessione dell’attenuante di avere agito in stato d’ira determinato da ingiusta provocazione della vittima, ma la Corte rigetta anche questa motivando che se in quella sera vi fu, come vi fu certamente, un provocatore ostinato, indiscreto ed ingiusto, questi non fu il povero Scilinguo, bensì proprio l’imputato il quale, non avendo alcun diritto di passare avanti la casa di Scilinguo per il viottolo privato, non solo mostrò di tenere in ispregio tale diritto, come altre volte aveva fatto, ma spinse l’indiscrezione al punto di soffermarsi, con pretesto ipocrita, a parlare con la moglie della vittima, da lui vagheggiata e chiesta in isposa anche dopo che essa si era fidanzata con lo Scilinguo. Circostanza, questa, rimasta dimostrata, malgrado le negative dell’imputato, dalle dichiarazioni della ragazza e dei familiari di lei. Ond’è che non può farsi torto allo Scilinguo se, pensoso dell’onore e del decoro suo e della propria donna, se ne sia risentito col Jannello in maniera, d’altronde, che neppure può dirsi eccessivo, visto che non mancò di spiegare a Jannello le giuste ragioni per le quali egli non voleva cha altri passasse davanti la casa sua. A tali spiegazioni altri, del Jannello più ragionevole e meno impulsivo, si sarebbe certamente acquietato. Ma egli, punto a torto nel suo amor proprio da quel divieto che gli veniva fatto davanti la donna un tempo da lui corteggiata e desideroso forse anche di dimostrare a costei ch’egli valeva qualche cosa di più del marito da lei prescelto, invece di rispondere pacatamente alle giuste rimostranze di costui, gli lanciò senz’altro la sfida di portarsi con lui sulla strada pubblica per definire colà la quistione, dopo avergli detto in tono ruvido e secco “tu qui parli troppo!”. Naturalmente, per la tutela del proprio orgoglio – di questo dio che si agita nel cuore di ognuno – non poteva lo Scilinguo dare davanti alla propria donna prova di essere un pusillanime, onde seguì Jannello. Ma la prova che non egli, ma quest’ultimo avesse l’intenzione di rendersi iniziatore di violenze è data dal fatto che, mentre Scilinguo si recò sulla strada pubblica tenendo sempre in mano il fagotto pieno di verdure, Jannello vi si recò armato del pungolo che aveva nelle mani ed il suo contegno era talmente eccitato e più male intenzionato rispetto a quello del suo avversario, che i testi Angelico e Braiotta ritennero necessario rivolgere ripetutamente proprio a lui anziché a Scilinguo degli inutili appelli pacificatori e precisarono che Scilinguo non fece alcun gesto di minaccia o violenza contro l’avversario. Dopo quanto si è detto, parlare di provocazione da parte di Scilinguo significa fare offesa alla verità giuridica e umana, mentre non vi ha dubbio che provocatore audace e pertinace in tutto lo svolgersi dell’episodio fu unicamente l’imputato, la cui responsabilità va, pertanto, affermata in pieno, in ordine alla imputazione di omicidio preterintenzionale, indubbiamente commesso in condizioni normali di intendere e di volere.

Non resta che determinare la pena e la Corte decide di essere clemente perché, avuto riguardo agl’incensurati precedenti del Jannello, alla sua giovane età e alle modalità del fatto, stima giusto ed equo infliggere il minimo della pena, anni 10 di reclusione, oltre alle spese, ai danni e alle pene accessorie.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.