LA SCUSA DELL’UOVO

È la mattina del 6 maggio 1933, il ventinovenne Francesco Scavello, dopo aver fatto un giro in campagna col fucile senza aver preso niente, rientra a casa in contrada San Pietro di Cetraro. Sul tavolo c’è un cestino con delle uova fresche e fa per prenderne uno, ma sua moglie, Erminia Ricucci, gli toglie il cestino da sotto il naso, dicendogli:

– Tu non ne mangi, sono per la bambina!

Infatti ne prende uno e lo mette a bollire. Francesco si mette a sedere e ciondola la testa mentre gli occhi gli si iniettano di sangue, poi guarda la moglie che gli volge le spalle intenta a cucinare, fa dei strani gesti, si alza, afferra la scure e, senza dire una parola, le vibra un tremendo colpo alla nuca. Erminia cade a terra senza un lamento mentre il sangue comincia a scorrere sul pavimento e bagna la grossa treccia di capelli che il colpo le ha reciso di netto. La bambina urla terrorizzata, mentre Francesco esce di casa prima che arrivino i vicini, richiamati dalle grida di aiuto.

Erminia respira ancora e qualcuno corre in paese ad avvisare i Carabinieri e chiamare un medico.

– È in imminente pericolo di vita. Se dovesse salvarsi dovrà ringraziare la treccia, che ha in qualche modo attutito il colpo – dice il medico al Maresciallo, poi continua –. Vedete? Sono recisi tutti i comuni tegumenti, gli strati muscolari sottostanti ed è fratturato il tavolato osseo. Speriamo… è una donna forte e robusta…

Intanto Francesco Scavello viene rintracciato e portato in caserma. Interrogato, fornisce la sua versione dei fatti:

– Sono fermamente convinto che mi tradisse col maestro elementare, me lo ha confessato mio cognato…

– Questo lo vedremo in seguito, intanto ditemi come sono andate le cose.

– Stamattina ero andato a caccia col fucile…

– La licenza l’avete? – lo interrompe il Maresciallo.

– No… ho dichiarato il fucile, ma la licenza…

– Ah! Allora devo denunziarvi anche per questo. Continuate.

– Quando sono tornato a casa volevo prendere un uovo dal cestino, ma mia moglie me lo ha tolto di mano sgarbatamente nascondendolo ed io, irritato, l’ho colpita, ma non per ammazzarla! Ero preso da non so cosa… il tradimento… l’uovo… e l’ho colpita…

Erminia resta in pericolo di vita per qualche mese, poi comincia lentamente a riprendersi, grazie alla sua forte tempra e grazie alla sua treccia. Per riprendere una vita più o meno normale ha dovuto attendere duecentoquarantanove giorni, poco più di otto mesi.

Chiuse le indagini, durante le quali la difesa ha chiesto inutilmente di sottoporre Scavello a perizia psichiatrica, il 10 marzo 1934 l’imputato viene rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza per rispondere di tentato omicidio e porto di fucile senza licenza. La causa si discute il 5 luglio 1934 e la difesa ripropone la richiesta di perizia psichiatrica o, in subordine la modifica del capo d’accusa in lesioni gravi.

La Corte boccia entrambe le richieste e osserva: l’imputato ha ammesso di aver ferito la moglie mediante un colpo di scure, ma sostiene che non ha avuto l’intenzione di uccidere, dato il grande orgasmo in cui egli versava al momento del fatto per aver saputo o creduto che la moglie lo tradisse. La Corte non ritiene che l’imputazione di tentato omicidio possa modificarsi in quella di lesione grave, invero egli adoperò la scure, un’arma estremamente micidiale, e ne vibrò un colpo alla nuca con siffatta violenza da tagliare una grossa treccia di capelli, tessuti, muscoli e il tavolato osseo, sicché la donna sopravvisse solo in grazia della sua sana costituzione fisica.

Ma per giustificare un simile reato non basta certo un uovo. La Corte ne è pienamente consapevole e ragiona: l’elemento morale concorre a chiarire il fine dell’azione delittuosa. Scavello era fermamente convinto che la moglie lo avesse tradito con un maestro elementare del luogo, soprattutto per le confidenze fattegli dal proprio cognato, sicché, data una causale di siffatta gravità e intensità, non è luogo a dubitare che il giudicabile, sentendosi profondamente offeso si prefisse l’evento mortale. Vero è che da costui si assume ch’egli colpì essendo irritato pel fatto che la moglie gli aveva rifiutato sgarbatamente un uovo. E non vi è motivo di dubitare della verità di tale circostanza ma, come è evidente, quest’episodio di trascurabile importanza, in sé stesso considerato, fu soltanto l’occasione che fece esplodere i sentimenti che, per una ragione ben grave, si annidavano nell’animo del giudicabile come la scintilla che fa divampare le fiamme e non può assumersi come il vero movente dell’azione, data la sua evidente sproporzione.

Finora si è parlato della ferma convinzione di Francesco Scavello che la moglie lo tradisse o lo avesse tradito e sembra che quasi quasi abbia fatto bene. Ma tra l’essere convinto e avere la certezza c’è una gran bella differenza. Qualcuno ha chiesto ad Erminia qualcosa in merito? Si sa chi sarebbe questo maestro elementare? È rimasto accertato che la donna si era mantenuta onesta. Almeno a questo ci siamo arrivati.

La Corte si avvia a chiudere la causa e afferma: in base ai fatti rimasti in tal modo accertati, reputa il Collegio che all’imputato possano concedersi le due attenuanti dello stato d’ira e dei motivi di particolare valore morale. Ma come? Se la Corte ha appena riconosciuto che Erminia non ha tradito il marito, adesso su cosa basa la concessione delle attenuanti?

La prima gli compete perché la moglie, che pur sapeva che il marito sospettava della fedeltà di lei e ne era profondamente addolorato ed offeso, è in qualche modo causa del fatto, imprudentemente stuzzicandolo col negargli le uova e nasconderle anziché mostrarsi docile e remissiva verso il marito, che si credeva sì gravemente offeso. L’altra attenuante gli compete perché, pur essendosi la moglie mantenuta onesta, è certo che il marito agì a causa di onore, essendo pienamente convinto, specie per gl’inopportuni riferimenti fattigli dal cognato in base a fallaci apparenze, che il suo onore fosse stato indegnamente vilipeso.

Quindi o innocente o colpevole, Francesco ha fatto bene a voler uccidere Erminia, senza fortunatamente riuscirci, perché lei non si è mostrata docile e remissiva come un animale domestico.

Poi, alla riproposizione della richiesta di perizia psichiatrica o in subordine del riconoscimento del vizio parziale di mente fatta dalla difesa, la Corte dichiara di respingerle entrambe perché la capacità d’intendere e volere, che è posta come base e fondamento della responsabilità penale, rimane integra quali che siano gli stati emotivi o passionali dell’agente, tenuto conto che i periti, contrariamente a quello che è un testuale precetto di legge, dovrebbero giudicare della normalità o anormalità del funzionamento delle facoltà psichiche in base a meri stati passionali, mentre nel caso in esame, per tutto l’insieme degli elementi raccolti e specie in considerazione della vita anteatta del reo, mancano del tutto quei gravi indizi in base ai quali soltanto il giudice è autorizzato a disporre accertamenti del genere.

Solo due parole per affermare la responsabilità di Francesco Scavello in ordine al porto di fucile senza licenza e si può passare a quantificare la pena da infliggergli: tenuto conto di tutte le modalità del fatto, dei motivi che lo spinsero a delinquere, dei buoni precedenti penali dell’imputato, stimasi giusto determinare la pena nella reclusione per anni 10 (partendo da anni 24 e riducendola ad anni 10 per le norme che regolano il reato tentato). Detta pena può equamente ridursi ad anni 8 per l’attenuante dei motivi di particolare valore morale e quindi ad anni 6 per l’attenuante dello stato d’ira per fatto ingiusto altrui. Pel porto di fucile può irrogarsi un mese di arresti ed il sestuplo della tassa di concessione governativa, oltre alle spese e alle pene accessorie. Non ci sono danni da pagare.[1] In questo Erminia si è mostrata docile e remissiva.

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.