IL FORSENNATO MATRICIDA

Nel 1906 a Borgia vive la famiglia dei baroni Veraldi. Leonardo, il capo famiglia è morto lasciando la moglie, Maria Caterina Megna, cinque figli maschi, Salvatore, Tommaso, Giovanni, Giuseppe e Patrizio, questi ultimi due residenti a Catanzaro, e quattro figlie, Emerita, Concetta, Maria e Cecilia. Salvatore e Giovanni hanno un negozio ciascuno nei magazzini della grande casa di famiglia, Tommaso si occupa dell’amministrazione dei beni di famiglia di cui è, secondo le leggi del maggiorascato, l’unico erede. Le femmine, invece, sono destinate o a farsi monache o a restare zitelle.

Cecilia, però, non vuole sottostare alle regole e amoreggia da più tempo con l’agiato contadino Lorenzo Passafaro, il cui padre è fattore del barone Massara, e per questo motivo è ostacolata dai fratelli, con maggiore vigore da Tommaso il quale spesso la sottopone a continue percosse e maltrattamenti. Non solo: pretende e ordina che Cecilia non resti mai da sola.

La mattina del 20 luglio 1906 donna Maria Caterina va a messa e lascia l’incarico di sorvegliare la figlia ribelle alle altre tre. Poco dopo si presenta in casa un mezzano che porta ai padroni il primo cesto di fichi della stagione. È il segnale che Cecilia aspettava: nel posto segretamente e faticosamente concordato c’è il suo Lorenzo che l’aspetta. Facendo credere alle tre sorelle di essere ancora a letto, riesce ad eluderne la sorveglianza e ad uscire attraverso un cortiletto che mena alla campagna e raggiunge l’amato nel fondo Madama, dove è andato a lavorare per aspettarla. Mano nella mano corrono a perdifiato fino a casa di Elisabetta Molfetta, dove restano in attesa di andare a casa del barone Massara, che ha acconsentito a tenerli nascosti.

Ritornata la madre dal tempio e cercata invano in casa Cecilia, fa avvertire subito i figli Salvatore e Giovanni e questi, a loro volta, avvisano Tommaso, che torna a casa dalla circostante campagna, dove si trova per assistere ad alcuni lavori, armato di fucile Veterly (I fucili Vetterli erano una serie di fucili d’ordinanza dell’esercito svizzero, in uso dal 1869 al 1889. Nda). Le ricerche di Cecilia in paese sono vane e, suppostosi dai tre suoi germani che essa avesse realmente raggiunto l’amante, Tommaso precede gli altri due ed entra in casa imbracciando il fucile e urlando come un pazzo. Emerita, Concetta e Maria, spaventate, temendone l’ira, fanno in tempo a nascondersi nel soffitto, seguite dalla madre, altrettanto terrorizzata.

Dopo un po’ di tempo donna Maria Caterina, però, per cercare di calmare Tommaso e per proteggere le figliuole, si affaccia dalla botola del soffitto e si mostra al figlio. Tommaso, alla vista della genitrice, ribollente d’ira, da piè della scala che mette al soffitto le punta contro il fucile carico a mitraglia. La madre capisce cosa sta per accaderle e istintivamente porta il braccio destro davanti al viso per un’inutile protezione, perché il figlio fa partire un colpo che la stende morta sul limite del soffitto. Alla detonazione accorre Concetta, ma inciampa e cade giù per le scale. Tommaso le è sopra e la percuote più volte col calcio della rivoltella, che nel frattempo ha impugnato al posto del fucile, esclamando:

Tua madre ha voluto morire di quella morte! – poi rimette tranquillamente la rivoltella al fianco e se ne va, sempre imbracciando il fucile.

Tardi, ma ancora in tempo per evitare altra strage, accorre Agazio Scicchitano, alla cui vista il forsennato matricida scappa e mentre scende le scale di casa col moschetto in mano si imbatte nel fratello Salvatore che, intuita la disgrazia, sta salendo e lo afferra, gli toglie l’arma e gli dice:

Consegnala a me perché altrimenti ammazzerai tutti! – Tommaso, senza nemmeno rispondergli, concitato e senza piangere, continua a scendere, esce di casa e si allontana sparendo dalla circolazione.

La notizia della tragedia si sparge velocemente in paese e tutti si sussurrano che Tommaso ha ucciso la propria madre nell’impeto d’ira causato dal disonore arrecatogli dalla sorella, quasi che tutto questo orrore fosse atteso da un momento all’altro.

Orrore che viene confermato dall’autopsia effettuata sul corpo di donna Maria Caterina: la morte istantanea fu effetto esclusivo ed immediato dell’esplosione del fucile avvenuta quasi a bruciapelo. Il braccio e l’avambraccio destro dell’uccisa, lungo la superficie esterna ed interna aveva sette forami di entrata e cinque di uscita; piegato ed alzato il braccio, alla faccia si appalesano i proiettili ricevuti in attitudine di difendere dall’alto il volto da uno che mirava da basso. Due dei detti forami d’uscita corrispondono per direzione a due forami d’entrata a metà destra della faccia e, nonostante l’atteggiamento di difesa del braccio, i proiettili attraversarono altresì la rocca del temporale destro penetrando nella scatola cranica, fratturando la base dell’osso del cranio con spappolamento della massa cerebrale e conseguente versamento ematico, donde, come si è detto, la morte istantanea della vittima.

I fratelli e gli amici del matricida tentano pietosamente di alleggerire la sua posizione affermando che il fatto era stato casuale, essendo esploso involontariamente il fucile per essere difettoso, non avendo mai potuto Tommaso attentare volontariamente alla vita della madre, verso la quale nutriva culto e devozione filiale. Per confutare questa versione dei fatti basterebbe solo ricordare che dopo aver ucciso la madre, Tommaso si scagliò contro la sorella Concetta, alla quale procurò lesioni lacero-contuse ed escoriazioni alla regione occipitale, alla regione frontale ed al polso sinistro. Ma gli inquirenti vogliono una prova inconfutabile ed ordinano una perizia tecnica sul fucile Veterly ed ottengono il risultato sperato: il Veterly è un’arma perfetta, senza alcun difetto, che anzi occorre ben premere il grilletto per ottenere l’esplosione. È più che sufficiente ad escludere qualsiasi dubbio che il colpo fosse partito casualmente.

Passano molti mesi e del matricida non ci sono più notizie. Evidentemente è riuscito ad espatriare clandestinamente, come tanti altri assassini nello stesso periodo, per cui si decide di procedere in contumacia e Tommaso Veraldi viene rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Catanzaro per rispondere di omicidio volontario della propria madre legittima e lesioni personali volontarie in danno della propria sorella.

La discussione della causa col rito contumaciale si tiene il 18 novembre 1908 e la Corte subito osserva: la responsabilità penale dell’imputato in ordine ai due delitti in epigrafe è risultata pienamente assodata dalle prove, generiche e specifiche, raccolte a di lui carico, oltremodo gravi e tali che non lasciano minimamente dubitare della volontà omicida. Basta, a ciò dimostrare, tener presente il contegno da lui mostrato appena commesso l’orrendo delitto e le parole da lui rivolte alla sorella Concetta quando la percuoteva con la rivoltella: “Tua madre ha voluto morire di quella morte!”. Tommaso Veraldi, dopo compiuta la terribile strage, non cerca perdono, non si commuove, non chiama ad alta voce i suoi congiunti per protestare la sua innocenza ma, avido di altro sangue si getta sulla sorella Concetta e ripetutamente la percuote colla rivoltella. poi, appena si accorge della presenza del testimone Agazio Scicchitano, primo accorso, rimette tranquillamente la rivoltella al fianco e se ne va fuori. Il teste Revaschieri Sebastiano depone che vide uscire di sua casa il Tommaso Veraldi dopo il delitto molto concitato, ma senza piangere e così lo vide allontanarsi per darsi alla latitanza e anche riferì che immediatamente si disse dalla voce pubblica che Veraldi aveva ucciso la propria madre nell’impeto d’ira causato dal disonore arrecatogli dalla sorella. Ciò lo depongono anche altri testimoni e gli stessi fratelli del prevenuto, che ebbero a confermarlo ai Carabinieri.

Non c’è bisogno di altro e alla Corte non resta che ragionare sulla pena da infliggere e da far scontare all’imputato contumace, se verrà assicurato alla giustizia prima che intervenga la prescrizione di legge.

Per le ragioni esposte devesi ritenere completamente provata la responsabilità del prevenuto e dichiararlo, perciò, colpevole dei delitti a lui ascritti, senza che in di lui favore stimasi concorrere alcuna circostanza attenuante. La Corte osserva che all’imputato per il delitto di omicidio volontario, del quale si è riconosciuto responsabile, devesi applicare la pena dell’ergastolo, senza che possa irrogarsi al medesimo l’altra pena per il delitto di lesioni personali volontarie, del quale si è reso anche colpevole, per doversi ritenere che egli col medesimo fatto commesso ebbe a violare diverse disposizioni di legge e che per conseguenza deve andare punito secondo la disposizione che stabilisce la pena più grave.

La condanna all’ergastolo ha per effetto l’interdizione perpetua del condannato dai pubblici uffici, l’interdizione legale e la perdita della capacità di testare. L’imputato deve sottostare anche alla condanna del pagamento delle spese del giudizio e della rivalsa dei danni alle parti lese.

Come era facile prevedere, Tommaso Veraldi è riuscito a non scontare nemmeno un minuto di carcere per il suo orrendo delitto, restando irreperibile in Italia almeno fino al 16 maggio 1930, quando la Corte di Appello di Catanzaro dichiara estinta l’azione penale per prescrizione e ordina la revoca del mandato di cattura.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Catanzaro.