LA STRAGE DI GIARRATANA

Nel 1902 Giarratana, comune in provincia di Ragusa, ha 2740 abitanti, in stragrande maggioranza contadini, pochi artigiani e pochissimi ricchi signori. In una situazione del genere è ovvio che prevalga la grande proprietà terriera o, per meglio dire, la storica piaga del latifondo, con un sistema di coltura inadeguato ai tempi, che genera raccolti scarsi e nel quale non esistono nemmeno case coloniche per i contadini. Eppure quella di Giarratana è una terra fertile dal clima invidiabile e con una sufficiente capacità di irrigazione. Una situazione completamente diversa da quella di Ragusa Inferiore e Modica, distanti appena una ventina di chilometri, i cui territori, seppure non godano delle stesse caratteristiche di quelli di Giarratana, sono più produttivi perché la grande proprietà, che non degenera nel classico latifondismo, adotta sistemi di coltura più moderni e razionali, ha costruito case coloniche per i contadini, che godono di condizioni generali, per quanto non buone, certamente migliori di quelle dei contadini di Giarratana.

Nell’estate del 1902 a Giarratana viene fondata Camera del Lavoro e vi aderiscono circa trecento contadini per avere più forza contrattuale nel rivendicare l’aumento del salario, cosa che finora hanno fatto in ordine sparso senza ottenere risultati. Rivendicano, in sostanza, che la giornata di lavoro, di dieci ore e anche più, passi dalla retribuzione di ottantacinque centesimi e la minestra (e che minestra!) a una lira più la minestra o a una lira e venticinque centesimi senza minestra. Non sembra una richiesta ingiusta o esagerata e anche il Sindaco è d’accordo, così controfirma le nuove tariffe e ne autorizza l’affissione partire dell’11 ottobre 1902. Affisse le tabelle, la Presidenza della Camera del Lavoro chiede al Sindaco di convocare i proprietari per le trattative e ottiene in risposta che li ha già convocati per le nove della mattina del 13.

Sarà una giornata storica e i contadini iscritti alla Camera del Lavoro, per dare più forza alla rivendicazione, decidono di scioperare e per rendere nota la loro decisione e le pratiche fatte e quelle in corso ai contadini non iscritti, verso le cinque del mattino bloccano le strade di accesso al paese. Molti contadini, ora che sono informati dell’agitazione giusta e santa, aderiscono, pochi invece rifiutano e, tra questi, due contadini che devono andare a zappare in un fondo del Sindaco. La cosa non va giù agli scioperanti, anche perché nel frattempo sembra che il Sindaco abbia cambiato opinione e manifestato dell’astio nei confronti del Presidente della Camera del Lavoro. Il rifiuto di aderire allo sciopero da parte dei due contadini, che probabilmente hanno anche ricevuto qualche schiaffone, viene interpretato come una dichiarazione di guerra da parte del Sindaco, che pure aveva firmato le nuove tariffe.

Quando poi si sparge la voce che i due contadini sono andati a chiedere aiuto al Sindaco e al Brigadiere dei Carabinieri, la situazione, da estremamente pacifica degenera perché in Via Umberto I, dove sono riuniti gli scioperanti, arrivano una dozzina di Carabinieri. Qui le versioni sullo svolgimento dei fatti sono diametralmente opposte.

La stringata versione ufficiale, riportata dal Corriere illustrato della Domenica, pubblicato il 26 ottobre 1902, sostiene: “A Giarratana era stato proclamato lo sciopero. Ma non tutti i lavoratoti erano d’accordo, molti erano i dissidenti. Per evitare che commettessero violenze, essendo gli animi molto eccitati, intervennero i carabinieri, e siccome volavano sassi, e si minacciavano serie colluttazioni, i carabinieri, che erano armati di sole rivoltelle, spararono in aria. Quello fu il segnale dell’eccidio. I carabinieri furono circondati dalla folla, che, come invasa da follia di distruzione, li investì a colpi di sassi e di mazze. I militi, piegando sotto l’urto veemente, tentarono di difendersi. Ma, sopraffatti dal numero, esplosero altri colpi di rivoltella. Poi si videro i pennacchi rossi dei militi come sommersi dalle ondate della folla, sulla quale agitavansi furiosamente i bastoni. La mischia si fece spaventevole, tra urli di ferocia e di terrore, i carabinieri furono stretti da ogni parte. Il carabiniere Antonino Giancastro fu dalla folla isolato dai compagni, tentò di difendersi colla rivoltella, ma dovette cercare scampo in una casa vicina. La folla, inferocita, lo inseguì nel rifugio, ebbra di furore e di sangue. Vedendo un grande agitarsi presso la casa ove erasi rifugiato i carabinieri vi accorsero. Ma troppo tardi: egli era stato già finito dai suoi assalitori”. A rimetterci la vita, purtroppo, sarebbe stato solo il Carabiniere Antonino Giancastro.

La versione degli scioperanti e del paese, raccontata nell’articolo “La strage di Giarratana” pubblicato sul giornale napoletano La Propaganda del 21 ottobre 1902 racconta tutt’altro: [I Carabinieri] erano in 13 o 14 con qualche guardia municipale. Dissero che furono accolti a sassate, ma ciò è da escludersi perché nessuno dei carabinieri fu colpito. Questi benedetti contadini non si sa mai dove vadano a pescare i loro sassi e a Candela come a Giarratana i sassi lanciati dai contadini non feriscono! [I Carabinieri] per rispondere ai sassi non scagliati hanno sguainato le daghe menando colpi alla cieca ferendo parecchi contadini. Una guardia municipale (forse non aveva la daga per fare la sua parte) volle un po’ di rumore e scaricò in aria la rivoltella. Disgraziatamente stava affacciato ad un balcone un povero piccino: con le manine aggrappate ai ferri e la testolina sporgente, l’innocente creatura osservava inconsapevole il duro e terribile dramma della vita in una delle sue scene più significative, fra il lavoro che crea la vita e ne reclama il diritto e la forza bruta ed omicida che quel diritto contende, nega e comprime. La palla della rivoltella della insensata guardia andò a colpire quella innocente creatura, che emise un grido e stramazzò al suolo: i contadini esasperati da quella terribile scena, santamente, giustamente reagirono.

La lotta tra i “tutelatori” dell’ordine ed i contadini si impegnò seriamente.

Il sindaco, causa prima di ciò che avveniva, lungi dallo interporsi per ristabilire la calma, si chiuse coraggiosamente in una bottega insieme alla guardia municipale Impeduglia Salvatore.

Nel trambusto tre carabinieri restarono isolati. Uno di essi si fece largo a colpi di daga ferendo parecchie persone e raggiunse i suoi compagni; un altro sparò a bruciapelo contro un certo Giovanni Maurillo, uccidendolo sul colpo e ferendo mortalmente anche il fratello di lui che gli stava dietro; il terzo si rifugiò nella bottega di un calzolaio e, sprangato l’uscio, da uno sportello cominciò a sparare all’impazzata, come se si trovasse in un forte assediato dai nemici. I contadini, esasperati, gliela fecero pagar cara sfondando la porta ed uccidendolo a colpi di pietra e di bastone. Gli altri carabinieri raggiunsero la caserma, si armarono di moschetto e ritornarono sul posto.

Ma i contadini in parte si erano già sbandati: pochi rimanevano ancora a piangere sui cadaveri delle vittime infelici del triste sistema capitalistico e quindi i carabinieri si limitarono a scaricare in aria i moschetti, mentre i pochi rimasti sul luogo dell’eccidio si dileguarono rapidamente.

E così restò signora e padrona della strada, dove la miseria aveva chiamato i contadini, dove il lavoro aveva tentato di affermare il diritto alla vita, dove era passata fredda e terribile la sventura e la morte, restò signora soltanto la forza bruta.

I feriti sono circa una cinquantina, beninteso tutti fra i contadini. I carabinieri sono “di ferro battuto” e quindi non possono nemmeno subire un’ammaccatura qualsiasi dalle “terribili sassaiole” dei contadini, che ormai sono la nota caratteristica di queste disgraziate scene di sangue che purtroppo vanno ricorrendo con spaventevole frequenza.

Si sono arrestati, finora, circa quaranta contadini; molti altri, in previsione di arresti, hanno abbandonato il paese.

Questi i fatti che sono confermati dalle primizie della inchiesta Moè pubblicate sull’Avanti del 19.

Le autorità hanno fatto diffondere notizie false e hanno impedito che le attendibili e vere fossero comunicate ai giornali. A tal fine furono arrestati i telegrammi spediti dal Noè e dai corrispondenti dei giornali, fra cui anche quelli della “Tribuna”, dell’ “Ora”, della “Patria” ecc.; fu sequestrato un telegramma circolare a Giolitti, Roux, Bissolati col quale si protestava contro il sequestro illegittimo dei telegrammi. Si è ammannita dai fatti una versione ad “usum delphini” e di quella soltanto si è permessa la diffusione. Così si fa la storia ufficiale.

Adesso si vorrebbe anche sostenere che il carabiniere ucciso si rifugiò nella bottega del calzolaio quando già era malconcio e si è dovuto trascinare carponi. Questa versione non è vera ed è inverosimile. Egli sparava dallo sportello della porta. Dunque non si era rinchiuso per difendersi, ma aveva cercato un posto dal quale offendere sicuro; non era andato carponi e malconcio ma era in condizioni da poter “tranquillamente e comodamente” pensare ad uccidere!

Alla fine delle indagini vengono rinviati a giudizio sei contadini per rispondere di concorso nell’omicidio del Carabiniere Antonino Giancastro, con gravi sevizie ed a causa delle sue funzioni di pubblico ufficiale: Francesco Giaquinta, 35 anni, Salvatore Cavallo, 35 anni, Francesco Renna, 26 anni (anche di lesioni in persona di Scarso Paolo), Salvatore Mauceri, 34 anni (anche di lesioni in persona di Scarso Paolo), Salvatore Lissandrello, 32 anni (anche di lesioni in persona di Scarso Paolo), Raffaela Cabbibbo, 41 anni. Inoltre, tutti a) di avere, in tempi diversi e con atti esecutivi della medesima risoluzione criminosa, con violenze e minacce cagionato la cessazione del lavoro agricolo a fine d’imporre ai proprietari un aumento di salario giornaliero; b) in riunione di oltre cinque persone e con armi, previo concerto fra di loro, usato violenza contro il Sindaco funzionante da delegato di P.S., Carabinieri e guardie per costringerli ad omettere di garentire la libertà del lavoro, atto del loro ministero.

La causa, per motivi di ordine pubblico viene discussa davanti alla Corte di Assise di Catanzaro il 23 dicembre 1904.

Letti gli atti ed ascoltati i testimoni, la Corte non spende una sola parola per ricostruire i fatti e motivare la sentenza, ma va dritta al punto: col verdetto dei giurati gli accusati Giaquinta Francesco e Cavallo Salvatore sono stati ritenuti responsabili di aver preso parte all’esecuzione dell’omicidio del Carabiniere Antonino Giancastro, con la circostanza d’ignorarsi l’autore del delitto commesso a causa delle sue funzioni di pubblico ufficiale che rivestiva l’ucciso e con gravi sevizie. Ai due accusati si sono inoltre concessi i benefici del vizio parziale di mente e delle circostanze attenuanti generiche. Ora, l’omicidio volontario commesso con gravi sevizie è punito con la pena dell’ergastolo, ma ove si versi nell’ipotesi in cui quando più persone prendano parte all’esecuzione di un delitto e non si conosca l’autore dell’omicidio o della lesione, esse soggiacciono tutte alle pene ivi rispettivamente stabilite, diminuite da un terzo alla metà ed all’ergastolo si sostituisce la reclusione non inferiore ad anni quindici. E la Corte, valutate tutte le circostanze di fatto, crede di dover partire da anni 18 i quali per la concessa attenuante del vizio parziale di mente, devono applicarsi colla durata da tre a dieci anni. La Corte, in considerazione del modo come ebbe a consumarsi il reato, crede doversi partire da anni 8, che diminuiti di un sesto per le concesse attenuanti generiche, si riducono ad anni 6 e mesi 8, oltre alle spese, ai danni e alle pene accessorie.

Poi continua con gli altri imputati.

L’accusato Renna Francesco è stato ritenuto responsabile di lesione volontaria in persona di Paolo Scarso. Per siffatto reato la Corte, in vista delle circostanze tutte obbiettive e subbiettive, crede di partire, nella commisurazione della pena, da anni 3 i quali, per l’ammesso beneficio del vizio parziale di mente, devono ridursi a mesi 15 che, tolto il sesto pel concorso delle attenuanti generiche, residuano a mesi 12 e giorni 15, oltre alle spese, ai danni e alle pene accessorie.

Gli accusati Salvatore Mauceri e Salvatore Lissandrello sono stati pure ritenuti responsabili di lesioni volontarie in pregiudizio del detto Scarso e la Corte crede, in vista delle circostanze che accompagnarono la consumazione del delitto, di partire da anni 2 di reclusione che, per l’ammesso vizio parziale di mente, si riducono una prima volta a mesi 9 e per il concorso delle attenuanti generiche a mesi 7 e giorni 15, oltre alle spese, ai danni e alle pene accessorie.

L’altra accusata Cabibbo Raffaela è stata ritenuta responsabile anche essa di lesione volontaria in danno del ripetuto Scarso, se non che le lesioni attribuite alla Cabibbo non produssero né malattia, né incapacità di attendere ad ordinarie occupazioni, quindi la Corte, considerata l’entità del reato, stima di dover partire da mesi 1 di reclusione che, per il consentito vizio parziale di mente, riducesi a giorni 12 e per il concorso delle attenuanti generiche a giorni 10, oltre alle spese, ai danni e alle pene accessorie.

I ricorsi per Cassazione di Giaquinta e Cavallo vengono rigettati con sentenza del 27 febbraio 1905.[1]

E tutto continua come prima, se non peggio.

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Catanzaro.