I PARENTI DEGLI AMANTI IN FUGA

– Mà, ohi mà, Anna ha preso il volo con Pasquale Spingola! – queste sono le parole con le quali Remo Piragine avvisa sua madre, Maria Antonia De Zarlo, che la ventitreenne sorella Anna è scappata con l’amante, coniugato con figli. Siamo a Mottafollone ed è il 26 giugno 1943.

Dove siano i due fuggitivi al momento non si sa, ma la sera del 29 qualcuno dice a Maria Antonia che si sono nascosti in casa di Filippina Artusi, la madre di Pasquale, e lei non perde tempo, precipitandosi sul posto in compagnia di congiunti.

– Filippì, Filippina! – comincia ad urlare dalla piazzetta antistante la casa – fai uscire mia figlia, lo so che è lì dentro!

– Te ne puoi andare ché qui tua figlia non c’è! – le risponde Filippina, senza aprire la porta di casa.

– Ah! Non c’è? Allora vuole dire che starò in questa piazza fino a domani mattina e così la vedrò uscire! – urla.

Le urla vengono udite da Filomena Spingola, settantacinquenne zia paterna di Pasquale, che esce di casa portando una lampada accesa, che poggia su un muretto fiancheggiante la piazzetta e, rivolta a Maria Antonia, minacciosamente urla a sua volta:

Razza di puttana, che cosa vuoi da mio nipote? Andate via di qui, credete che avete trovato una casa di puttane? Non vi credete che i miei nipoti non hanno sangue agli occhi e non trovano chi li difende!

A tali parole Maria Antonia si avvicina a Filomena e le dà una spinta, facendole prima sbattere la testa su uno spigolo e poi cadere per terra; quindi, con un pezzo di ferro lungo trenta centimetri ed a punta smussa, la colpisce in varie parti del corpo.

Filomena urla per il dolore facendo accorrere le nipoti Domenica, Rosina ed Elena, che la soccorrono e la accompagnano a casa. Dopo circa un’ora, purtroppo, Filomena muore e cominciano i veri guai.

Maria Antonia viene arrestata e ammette di avere colpito Filomena con un pezzo di ferro che aveva portato con sé da casa quando andò a richiedere la restituzione della figlia. Una reazione all’epiteto di puttana e quindi la volontà di darle una lezione? Visto il numero delle ferite inferte, secondo gli inquirenti no e quindi si procede per omicidio volontario.

Nove, le ferite riportate da Filomena: una ferita lacero contusa a margini frastagliati alla fronte, dovuta alla spinta che la fece cadere e battere la testa a terra; una ferita nella regione gastrica interessante i tessuti molli; due lesioni alla regione sopra ombelicale non penetranti in cavità ma profonda fino al peritoneo, senza che questo fosse toccato; due lesioni nella regione sopra e sottoscapolare sinistra non penetranti in cavità; una lesione sulla spalla destra non penetrante in cavità; una lesione nel fianco sinistro lungo la linea ascellare non penetrante in cavità; una escoriazione sul braccio sinistro dovuta all’attrito con corpo scabro.

Visto che nessuna delle lesioni è penetrata in cavità, i periti, frettolosamente, ritengono inutile procedere all’esame autoptico e si limitano a relazionare sulle cause della morte basandosi solo sull’esame esterno delle lesioni, senza che nessuno abbia niente da obiettare, e c’è una sorpresa: le lesioni riscontrate sul cadavere di Filomena Spingola, meno quella alla regione frontale, non hanno potuto cagionare la morte. La morte, piuttosto, è esclusivamente dovuta allo shock traumatico dovuto alla caduta, che determinò commozione cerebrale e secondariamente a commozione addominale dovuta a trauma, aggravate dall’età avanzata della vittima.

Questo lascerebbe pensare che, forse, la volontà omicida non è scontata, ma il 6 marzo 1944 il Giudice Istruttore del Tribunale di Castrovillari rinvia Maria Antonia De Zarlo al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza per rispondere di omicidio volontario.

Durante il dibattimento, la Corte osserva: il sentimento della giustizia non può certamente ritenersi soddisfatto dalla perizia eseguita in questo processo. Appunto perché nessuna delle lesioni risultarono apparentemente penetrate in cavità era necessario, indispensabile procedere all’autopsia del cadavere. L’accertamento che si sarebbe compiuto attraverso l’esame delle cavità addominale, toracica e cranica avrebbe portato alla luce la causa della morte della Spingola ed avrebbe proiettato la sua influenza anche sull’esame della volontà omicida della De Zarlo, esame richiesto non solo dalla difesa, ma anche dalla necessità che ha ogni giudice a far aderire la responsabilità penale di ogni imputato all’elemento psichico. Certamente non può negarsi che molteplici furono i colpi che la De Zarlo inferse alla vittima, che due delle lesioni furono riscontrate alla regione gastrica ed a quella sopra ombelicale. Potrebbe quindi dirsi che si ebbero quelle ripetizioni di colpi e quella direzione e quelle regioni del corpo che possono far desumere abbia avuto, l’agente, la volontà di produrre la morte. Ma accanto a questi elementi ve ne è un altro che se non fa escludere fa per lo meno dubitare di tale volontà: la De Zarlo usò un mezzo non idoneo a produrre lesioni che potevano cagionare la morte, un pezzo di ferro a punta smussata, il che spiega la mancanza di penetrazione in cavità di tutte le lesioni riscontrate sul corpo della Spingola. D’altra parte lo dicono i periti stessi indicando come causa della morte la commozione cerebrale in seguito alla ferita alla fronte prodotta dalla caduta dopo essere stata spinta.

Quindi, per la Corte, più aderente alla realtà è ritenere che la De Zarlo ebbe la volontà di ledere e non quella di cagionare la morte della Spingola. E per rafforzare questa conclusione, la Corte cita un particolare non considerato durante l’istruttoria: Maria Antonia De Zarlo, dopo aver ferito Filomena Spingola, non scappò ma tornò nel luogo dove era prima per aspettare l’uscita della figlia dalla casa in cui si era nascosta con l’amante e ci restò per quasi un’ora. Quindi, se la De Zarlo dopo il ferimento si fermò sul posto, vuol dire che non ebbe neppure l’impressione che dalla propria azione poteva derivare un evento tanto grave come la morte della Spingola.

La conseguenza di tale ragionamento è che la Corte decide di modificare il capo d’accusa da omicidio volontario in lesioni seguite da morte.

Ma non bisogna dimenticare le parole offensive pronunciate da Filomena Spingola mentre si avvicinava al gruppo di parenti di Maria Antonia De Zarlo. La Corte su questa circostanza calca la mano: dicendo la Spingola che quella non era casa di puttane, evidentemente diceva che la figlia della De Zarlo, perché puttana, non poteva trovarsi in quella casa, casa di persone oneste. Venne così a rinfacciare alla madre la situazione nella quale Anna Piragine si era posta prendendo la fuga con Pasquale Spingola il quale, ammogliato, non poteva riparare, contraendo matrimonio, all’offesa recata alla famiglia della De Zarlo. È la motivazione per la quale la Corte decide di concedere all’imputata l’attenuante di avere agito in stato d’ira per causa ingiusta altrui. La Corte ammette che il fatto ingiusto lo aveva commesso Pasquale Spingola portando alla casa paterna Anna Piragine per farla convivere con lui e che, quindi, la reazione doveva estrinsecarsi contro l’autore del fatto ingiusto, ma da ciò non deriva necessariamente che deve essere esclusa l’attenuante tutte le volte che la reazione si esplica contro persona diversa da colui che pone in essere il fatto ingiusto che determinò lo stato d’ira. La Spingola, pronunziando quelle parole, esprimeva la propria solidarietà con Pasquale Spingola, suo nipote, e gli offriva apertamente aiuto davanti a chi il fatto ingiusto lo aveva subito. È questo che rende ammissibile l’attenuante.

Motivate le proprie decisioni, la Corte dichiara responsabile Maria Antonia De Zarlo di omicidio preterintenzionale e la condanna, concessa l’attenuante dello stato d’ira, ad anni 6 e mesi 8 di reclusione, oltre a spese, danni e pene accessorie. Nello stesso tempo, in virtù del R.D. 8 aprile 1944 n. 196, dichiara condonati anni 3 della pena, che resta, quindi, fissata in anni 3 e mesi 8 di reclusione.

È il 17 maggio 1944[1] ed a Montalciata, provincia di Biella, 17 partigiani, attirati in trappola da un traditore, vengono fucilati alla schiena nel cimitero di San Vincenzo; dopo cinque mesi di furiosi combattimenti e migliaia di morti, Cassino viene presa dagli Alleati ed in Ciociaria finiscono oggi le 50 ore di libertà totale e di impunità concesse alle truppe coloniali francesi per tutti i crimini commessi in questo lasso di tempo ai danni delle popolazioni locali liberate dall’occupazione tedesca, ovvero migliaia di stupri (in realtà questo orrore si protrasse per mesi in tutto il Lazio, fino in Toscana. Quasi nessuno dei responsabili fu perseguito, 28 stupratori furono sorpresi in flagrante e fucilati, 1488 le vittime risarcite).

[1] ASCS, Processi Penali.