Sono le nove di sera del primo agosto 1927. Il Carabiniere Vincenzo Cavalieri è di servizio nella stazione di Santa Caterina a Reggio Calabria, quando squilla il telefono:
– Carabinieri di Santa Caterina, chi parla?
– Qui è l’ospedale, vi informiamo che tale Errigo Paolo, di anni 23 da Archi, colà ferito, cessava di vivere durante il trasporto all’ospedale.
Cavaliere ed il suo collega Tommaso Romano immediatamente si precipitano nel rione Archi e cominciano a raccogliere informazioni utili alle indagini. Accertano subito che il responsabile della morte di Errigo è un suo amico, Giuseppe Mascianà, e che il fatto è avvenuto durante una sparatoria davanti alla casa di quest’ultimo. I due Carabinieri si fanno accompagnare sul posto e bussano più volte alla porta della casa prima che una donna, Veronica Guida, la moglie del sospettato, apra. Entrati nell’abitazione, Cavalieri e Romano trovano Mascianà in mutande e gli contestano l’omicidio. L’uomo appare sorpreso nell’apprendere la notizia della morte di Errigo ma dopo qualche istante, seppure molto turbato, inizia a raccontare:
– Paolo Errigo frequentava casa mia, sia perché mio amico, sia perché amico di mia madre, deceduta nell’aprile ultimo. Io sono ritornato dall’America il 9 maggio perché avvisato da mia moglie con telegramma che mia madre era morente. Dopo qualche giorno, Paolo mi portò in regalo un adorno che io non accettai dicendogli che ero in lutto e in casa mia non si cucinava. Di tale atto egli restò turbato. Intanto mia moglie, più volte di notte quando andava al cesso, mi chiamava e mi diceva di aver visto un individuo nel retrostante giardino di proprietà di Cassano e, di fatti, la sera del 31 luglio me ne accorsi io e riconobbi in quell’individuo Paolo Errigo il quale, alla mia vista, s’è subito dato alla fuga. Per questo e tanti altri elementi dubitai sulla fede di mia moglie e perciò la percossi più volte. Due volte tentai suicidarmi e mia mogli m’ha dissuaso, insomma non avevo più la pace, la tranquillità domestica. Fu così che la sera del 31 luglio percossi ancora mia moglie, la minacciai con la pistola e le chiesi senz’altro di conoscere il perché di quelle visite misteriose dietro la grata di ferro del muro di cinta della mia casa, verso cui più volte ho anche sparato per intimorire, ed essa finì col confessarmi che Paolo aveva scavalcato più volte il muro di cinta ed era entrato in casa e che una volta, poi, mentre mia madre era morente, trovata mia moglie al pianterreno, con violenza l’abbracciò e baciò, riuscendo però a divincolarsi subito. Stasera mi appostai dietro la grata nella speranza che Paolo tornasse, viceversa, verso le otto e mezza intesi mia moglie che dalla soglia della porta rimproverava Paolo, che trovavasi in strada, per il suo contegno compromettente e perciò scesi la scala e appena fuori mi avventai contro di lui per colpirlo con pugni, ma quando vidi che egli mise la mano in saccoccia, io, estratta la mia pistola, gli esplosi un colpo. Paolo, estratta la sua, esplose un colpo a me, io un altro e lui ed egli altro a me. In quella circostanza riuscii anche a disarmarlo, rimanendo lievemente ferito al braccio sinistro, che avevo nudo perché mi trovavo con la sola camicia a maniche corte.
Sembra una scena surreale e bisognerà trovare testimoni che siano disposti a raccontare ciò che, eventualmente, hanno visto per confermare le parole di Mascianà. Intanto le conferma sua moglie per quanto riguarda la dinamica del fatto, ma con qualche differenza sostanziale sul resto:
– Io non mi sono mai accorta che Paolo varcasse il muro di cinta della mia casa e vi entrasse nel corridoio perché mai l’ho visto, ma ciò l’ho invece saputo da mio marito, il quale più volte ha sparato dei colpi di pistola verso quella direzione, e dal mio vicino di casa Francesco Laganà che l’ha visto nascosto dietro il muro. Una volta, quando mia suocera era gravemente inferma, Paolo, che veniva quasi ogni giorno, portò dei dolci ai miei bambini e poi, mentre mi trovavo al pianterreno, mi abbracciò e baciò con violenza, ma riuscii a divincolarmi dalla stretta. Mio marito, per mezzo dei suoi amici che non conosco, ha saputo che Paolo si vantò di avermi posseduta. Non solo, ma che pure altri suoi amici mi avevano posseduta. Da ciò è finita la pace in casa e mio marito continuamente mi batteva e due volte tentò di suicidarsi con la pistola e io l’ho dissuaso. Date le continue percosse di mio marito, la sera del 31 luglio, siccome mi ha anche picchiata e minacciato di uccidermi con la pistola puntata al petto, gli raccontai che da parte di Paolo ero fatta segno a continue premure di amore, che io però ho sempre scansato…
Giovanni Errigo, il padre della vittima, oltre a sostenere che Mascianà ce l’aveva col figlio per le dicerie della gente sui suoi presunti rapporti con la moglie, sostiene anche, ma forse soprattutto, che aveva un altro motivo e sostiene che la dinamica dei fatti è del tutto diversa, trattandosi di un omicidio premeditato:
– È corsa la diceria che la madre di Giuseppe Mascianà, morendo aveva lasciato duecentocinquantamila lire a mio figlio! Tutto ciò, però, è assurdo perché detta somma non poteva averla. Morendo, la donna lasciò invece trecento lire: cento lire ai poveri, cento lire per messe e cento lire per mio figlio, che però ha rifiutato. Mascianà sparava continuamente dalla sua casa nel giardino dirimpetto, quasi sempre di notte, e mi dissero che lo faceva per esercitarsi al tiro, onde non sbagliare mio figlio quando l’avrebbe ucciso. Mio figlio fu sparato dal balcone mentre passava per la via. Potete chiedere a Francesco Errigo…
Ma il testimone citato dice di non aver visto e sentito niente perché è rientrato molto tardi dal lavoro e la ricostruzione fatta da Francesco Errigo non trova esatto riscontro nemmeno nelle parole di altri vicini di casa Mascianà. Paola Logiudice dice:
– Ieri sera verso le otto e mezza ero sul letto, quando ho inteso sulla strada vicino casa mia parecchi colpi di rivoltella. Mi affacciai al balcone e vidi per terra Paolo Errigo e di sopra Giuseppe Mascianà il quale lo colpiva con pugni e alzò a viva forza Errigo e gli disse: “Idda mi disse che tu un giorno ti sei buttato per baciarla!” e l’altro, di rimando e con un fil di voce: “Mai al mondo queste cose!”.
Domenica Piria:
– Vidi che la moglie di Mascianà dal balcone chiamò Paolo Errigo mentre stava passando per la strada. Egli si accostò alla soglia della porta; essa, ritengo, scese giù e colà ho inteso parlare. Dopo qualche tempo io me ne sono entrata e ho inteso vari colpi di pistola e mi affacciai al balcone e vidi Mascianà sopra ed Errigo che stava per terra e subito si sono divincolati…
Gli inquirenti cercano di capire anche quando e come erano diventati amici Giuseppe e Paolo e per farlo ascoltano di nuovo il padre della vittima e l’imputato.
Francesco Errigo:
– Mio figlio Paolo era in ottima relazione di amicizia con la famiglia Mascianà, tanto è vero che quando Giuseppe è partito per l’America è andato ad accompagnarlo fino a Messina. Mascianà gli raccomandò la famiglia e di fatti mio figlio s’è sempre amorevolmente interessato, specie durante la malattia della madre di Mascianà e per la buona riuscita dei suoi funerali. Ritornato dall’America, Mascianà mai ha chiamato mio figlio per chiedergli alcuna spiegazione, ma sparava continuamente dalla sua casa nel giardino vicino.
Giuseppe Mascianà:
– Circa quattro anni or sono conobbi, malauguratamente, il giovane Paolo Errigo in occasione della costruzione di una mia casa in Archi, dove mi valsi dell’opera sua di manovale. Sia per tali rapporti, sia perché egli frequentava un esercizio di vendita di vino gestito da mia madre, Paolo prese a frequentare la mia casa ed io non fui contrario ad offrirgli ospitalità. Nel luglio dello scorso anno mi decisi a far ritorno in America, ma lasciai mia moglie, che è americana nata a Washington D.C., ad assistere mia madre. Nel maggio scorso dovetti far ritorno e rividi Paolo che veniva a casa, ma mi parve di notare che il suo sguardo sfuggisse il mio e che egli non fosse sincero. Quando mi portò l’adorno e io lo rifiutai perché ero in lutto, se ne dispiacque e, lanciandomi uno sguardo minaccioso, consegnò l’uccello ad un ragazzo che si trovava in quei pressi…
Viene fatta anche una perizia per stabilire se dalla grata nel muro di cinta si può guardare nel cesso e la risposta è si, guardando dalla grata si può agevolmente spiare i movimenti di chi è nel cesso.
Comunque, siccome è certo che uno scambio di colpi tra i due c’è stato, non solo perché riferito anche dai testimoni, ma soprattutto perché dalle perizie effettuate sulle armi rinvenute sul luogo del delitto, la Mauser di Mascianà con quattro cartucce e quella di Errigo sporca di sangue con tre cartucce, entrambe risultano di fresco esplose, riesce difficile accettare la versione del padre della vittima, visto che il proiettile che colpì Errigo alla regione carotidea destra risulta esploso a breve distanza, che certamente non poteva essere quella risultante dal balcone al punto in cui sicuramente si trovava Errigo quando fu colpito, cioè il punto dove per terra c’era una pozza di sangue. Potrebbe trattarsi di un delitto d’impeto e non premeditato, ma gli inquirenti propendono per l’aggravante e Giuseppe Mascianà viene rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Reggio Calabria per rispondere di omicidio aggravato dalla premeditazione.
Ed è da questo momento che le cose si ingarbugliano perché Mascianà in carcere comincia a dare evidenti segni di squilibrio che man mano aumentano e quando inizia il dibattimento la difesa chiede che sia sottoposto a perizia psichiatrica per stabilire se prima, al momento e dopo il delitto, Mascianà era capace di intendere e volere. La richiesta viene accolta e il risultato viene letto in aula dal Presidente della Corte il 21 gennaio 1929: la Corte assolve Mascianà Giuseppe per vizio totale di mente e ritenendo, allo stato, pericolosa la sua liberazione, ordina la sua consegna all’autorità competente per i provvedimenti di legge.[1]
Cioè l’internamento in un manicomio giudiziario senza una data precisa di rilascio.
[1] ASRC, Corte d’Assise di Reggio Calabria.