LE PROPOSTE IMMONDE

Antonio Russo, contadino di Grisolia, è un uomo umile e tanto timido e vile. Nel 1924 sposa Rosina Marino, al contrario donna assai proterva e impudica, e ben presto viene ridotto alla condizione, forse ancora più abbietta, di un rustico Giovanni Episcopo (Giovanni Episcopo, protagonista dell’omonimo romanzo di Gabriele D’Annunzio edito nel 1891, è un umile impiegato, sottomesso ai voleri dei suoi colleghi, al prepotente avventuriero Giulio Wanzer e a Ginevra, la moglie infedele. Nda), dal momento che, quasi subito dopo la nascita del loro bambino, è costretto a sopportare, senza ribellarsi, che la moglie si accoppiasse nel letto coniugale, alla sua presenza e a quella del bambino, di notte e di giorno, con il di lei amante Biagio De Marco, sinistra figura di delinquente, la cui audacia e prepotenza non ha limiti.

Antonio potrebbe legittimamente denunciare i due per adulterio, potrebbe cacciarli di casa, potrebbe ammazzarli, come hanno fatto tanti altri, ma non fa niente, è prigioniero della sua timidezza, della paura che ha di Biagio De Marco e della vergogna, così abbassa sempre la testa e piange in silenzio, cercando di perseguire quello che ormai è l’unico scopo della sua vita: crescere suo figlio e cercare di allontanarlo, prima o poi, da quell’ambiente così corrotto.

Sono ormai 8 anni che Antonio e suo figlio assistono impotenti e umiliati alle scene di sesso tra Rosina e Biagio. La notte di Santo Stefano del 1934 i due stanno facendo come al solito i loro comodi nel letto matrimoniale, ai cui piedi il bambino sta dormendo, quando Biagio, ridendo, chiama Antonio:

– Totò… alzati e vieni qua.

– Che vuoi?

– Vieni, è tanto tempo che non tocchi tua moglie… vieni che ce la facciamo insieme allu culu e alla fissa – e giù una grassa risata, che fa sobbalzare nel sonno il bambino.

– Si, vieni Totò, vi soddisfo tutti e due insieme e ci divertiamo! – interviene Rosina dandosi due pacche sul sedere e ridendo sguaiatamente.

Antonio si sente gelare il sangue nelle vene e poi quello stesso sangue ribollire, ma non si muove, limitandosi ad un semplice:

– Lasciatemi stare per piacere.

I due amanti scrollano le spalle, ridono e continuano il loro da fare tra mugolii, gemiti, grugniti e risatine.

Quando fa giorno, Biagio, dopo aver dormito qualche ora, come al solito se ne va. Rosina si alza, si stropiccia gli occhi, si stiracchia,  si avvicina al focolare, sistema la legna e si prepara ad accendere il fuoco.

Antonio si alza come al solito in silenzio dal misero giaciglio che gli è concesso e si mette dietro alla moglie, apparentemente per osservare l’accensione del fuoco, ma in lui c’è qualcosa di strano: gli occhi non sono più bassi e spenti come al solito, adesso sono due fessure da cui esce il bagliore del fuoco che ha dentro; la testa non è più reclinata verso il basso, ma alta, e le spalle non sono più curve, ma ritte; le braccia non sono più penzoloni, ma alzate sopra la testa che sostengono una scure.

Uno, due colpi sulla testa di Rosina che si accascia senza un lamento, mentre una piccola pozza di sangue le fa da corona. Antonio posa la scure, bacia il figlio che ancora dorme ed esce. No, non sta scappando, sta andando dai Carabinieri a costituirsi, sentendosi finalmente libero dalle catene che lo opprimevano e  fiero di sé per avere recuperato il suo onore.

– Ho ammazzato mia moglie… – confessa subito, poi racconta, a sua discolpa, la triste odissea delle sue disavventure coniugalipassando ogni limite di depravazione umana, i due amanti hanno osato proporre proprio a me, vittima infelice dei loro crudeli dileggi, di copulare contemporaneamente la donna immonda, l’uno per le vie naturali e l’altro pederasticamente. Stamattina, al colmo dell’ira

I Carabinieri corrono sul luogo del delitto col Pretore ed il medico per i rilievi del caso, ma con enorme sorpresa scoprono che, nonostante le due gravi lesioni abbiano intaccato il tavolato osseo del cranio in tutto il suo spessore, Rosina è ancora viva, seppure in imminente pericolo di vita e l’accusa per il momento è di tentato omicidio.

Mentre Antonio è in carcere, ancora più inaspettato e sorprendente è il decorso clinico: dopo novanta giorni Rosina riprende la sua normale vita, senza reliquati di sorta.

Indagando, gli inquirenti si rendono conto che le disavventure coniugali di Antonio Rocco erano sconosciute solo a loro perché sono note a tutto il paese, confermate dal bambino e nemmeno smentite da Rosina e da Biagio.

Ovviamente le indagini sono brevi e Antonio viene rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza. La causa viene trattata nell’udienza del 10 ottobre 1935 e la Corte si trova davanti il problema di quale sia l’ipotesi di reato configurabile nel fatto delittuoso commesso dall’imputato e quali le attenuanti che allo stesso possono ragionevolmente competere. Perché questo dubbio se è ampiamente accertato che Antonio ha volontariamente colpito sua moglie per ucciderla, come ha confessato? Perché alla Corte sembra strano che se quei due colpi, dati col dorso dell’ascia sulla testa, fossero stati veramente dati con volontà omicida, certamente Rosina non se la sarebbe cavata senza reliquati di sorta. Ma se quei colpi invece fossero stati dati solo con l’intenzione di produrle una lesione per darle una lezione dopo le proposte immonde della notte di Santo Stefano, le conseguenze penali sarebbero completamente diverse.

La Corte ragiona così: sebbene l’arma adoperata, la regione vitale su cui i due colpi di scure furono vibrati e le gravi ragioni che determinarono l’insorgere dell’ideazione criminosa son tutti gravi elementi che rendono ragionevole l’ipotesi secondo cui l’intenzione specifica dell’imputato, nel vibrare i due colpi di scure sul capo della moglie, sia stata quella di ucciderla anziché quella soltanto generica di ferirla, il dubbio circa il sicuro fondamento di tale ipotesi appare tutt’altro che arbitrario ove si ponga mente, non tanto e soltanto al fatto che l’ideazione criminosa insorta – cioè un moto improvviso di ira per l’offesa poco dianzi patita – dovette essere necessariamente vaga ed indeterminata, ma anche e soprattutto al fatto che l’imputato, dopo avere inferto due soli colpi di scure, desistette da ulteriori violenze e si allontanò immediatamente senza darsi neppure conto dell’esito dei colpi inferti, che in effetti risultò poscia tutt’altro che letale. Pertanto, esclusa o ritenuta quanto meno dubbia l’intenzione omicida dell’imputato, la sua responsabilità va limitata alla sola ipotesi di reato che risulta configurata entro i confini oggettivi dell’evento prodotto dalla sua azione criminosa, vale a dire entro i confini di una lesione grave, guarita in giorni 96 e prodotta con arma (scure).

Antonio può tirare un sospiro di sollievo, i 14 anni di reclusione previsti dal Codice Penale sono scongiurati.

Ma la Corte non si ferma qui. Ha già affermato che il reato è stato commesso per gravi ragioni e che all’imputato possono ragionevolmente competere delle attenuanti e quindi esamina quelle possibili: non può cader dubbio che all’imputato competa non soltanto l’attenuante di avere agito in istato d’ira determinato da fatto ingiusto dell’offeso, ma anche quella di avere agito per motivi di particolare valore morale.

Quanto alla pena, tenuto conto delle attenuanti nonché degli ottimi precedenti di Antonio Rocco, da tutti descritto come un contadino altrettanto mite e buono quanto onesto ed operoso, la Corte ritiene equo infliggergli la pena di anni 1 e mesi 5 di reclusione, oltre alle pene accessorie e alle spese.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.