UN SOGGETTO PROFONDAMENTE IMMORALE

– Eccellenza, vorrei denunziare la sparizione di mia sorella Giuseppina Rotella di 27 anni da Cicala… è da circa un mese che si è allontanata dal proprio domicilio e non ha dato più notizie – racconta Maria Rotella al funzionario della Questura di Catanzaro in uno degli ultimi giorni del mese di gennaio 1943.

– Uhm… andiamo con ordine, il domicilio di vostra sorella qual era?

– Al Vicolo Pastaiuoli presso De Carolis Nicodemo, era a servizio lì.

– Qualche altro particolare? È sposata, signorina o che?

– È maritata a Salvatore Marazziti, dal quale, però, viveva separata da più anni.

– Va bene, vi faremo sapere.

Dalle prime, sommarie indagini sembra un classico allontanamento volontario e la cosa non preoccupa granché, visto che Giuseppina Rotella risulta essere notoriamente dedita al meretricio, per cui spesso si allontana dalla residenza. Ma poi i poliziotti ricevono informazioni più dettagliate dall’altra cameriera di casa De Carolis e la questione sembra assumere contorni più precisi e, se vogliamo, anche lieti:

Prima di partire, Giuseppina mi ha lasciato una valigia contenente indumenti personali perché glieli custodissi

– Per quanti giorni lo ha detto?

Solo per qualche giorno mi ha detto.

– Sapete se era da sola quando si è allontanata?

Era venuto a prenderla un giovane diciottenne, che ha presentato a me, a Maria Martino e al padrone don Nicodemo De Carolis come il proprio cognato Pippo Marazziti e, di più, con gran gioia ci ha confidato che il cognato la rilevava per incarico del marito che finalmente si riconciliava con lei e la conduceva a Cicala e poi a Napoli, dove il marito aveva trovato una stabile occupazione.

Solo per qualche giorno, ma è passato un mese. Che le sia accaduta veramente qualcosa? Ma d’altra parte Giuseppina potrebbe essere ancora al paese natio o a Napoli con suo marito e potrebbe benissimo aver deciso di non andare a riprendere la valigia, almeno per il momento. Comunque bisogna accertare com’è la situazione e la Questura incarica i Carabinieri di Carlopoli di verificare, ma a Cicala Giuseppina non c’è e dalle informazioni ricevute sembra che nell’ultimo mese non sia stata vista in giro. Sarebbe molto problematico cercare Giuseppina a Napoli senza precisi riferimenti, quindi i Carabinieri cercano Pippo Marazziti e si fanno spiegare la stranezza:

– Guardate che vi sbagliate, io non sono mai andato a Catanzaro a prendere mia cognata!

Cosa? Ci sono tre testimoni che lo hanno visto in faccia e dice che non è mai andato a prendere sua cognata? Pippo Marazziti viene arrestato e trasferito nel capoluogo per essere torchiato a dovere.

Il 27 febbraio successivo, messo a confronto con le due donne, cede e racconta:

Mio fratello Salvatore tornò a Cicala il 15 dicembre 1942 da Nocera Superiore, accompagnato dai nostri cugini Flora e Salvatore. Il 18 successivo mio fratello mi preavvisò che l’indomani ci saremmo recati a Catanzaro per prendere della pasta presso il negozio Smiraglia. Difatti, la mattina del 19 andammo insieme a Catanzaro e in treno mio fratello mi diede incarico di recarmi a pigliare la moglie, avendo intenzione di riunirsi con lei dopo tanti anni di separazione. La donna si rallegrò moltissimo di quella proposta e i due coniugi si incontrarono in Piazza Vecchia ed avevano deciso di pernottare insieme, quella notte, a Cicala per ripartire per Napoli l’indomani, in quanto lì mio fratello si sarebbe impiegato alla Ferrovia. Alle 15,30 ci ritrovammo tutti e tre alla stazione delle Calabro-Lucane e prendemmo posto in un treno che, però, partì solo alle 18,40. Arrivati alla stazione di Cicala mi affacciai dal finestrino e dissi che eravamo arrivati, ma restai sorpreso nel vedere che mio fratello, anziché scendere, mi fece segno di starmene zitto. Scendemmo, invece, alla stazione successiva di San Pietro Apostolo. Essendo ormai buio, a piedi proseguimmo in direzione di Cicala per circa un chilometro lungo la strada ferrata e poi lungo una scorciatoia per quattrocento metri. A questo punto, mio fratello mi disse di fermarmi e procedette solo con la moglie ancora per una quarantina di metri, salendo per un sentiero dirupato fino ad un posto che forma quasi una fossa. Mio fratello ritornò dopo pochi minuti e mi condusse in quel luogo… – si ferma un attimo, si passa le mani sul viso, riprende fiato, tira su col naso mentre i poliziotti e il Magistrato lo guardano con impazienza, poi continua – vidi mia cognata stesa a terra, immobile. Capii che era morta e, inorridito, mi misi a piangere, ma mio fratello, minacciandomi, mi ingiunse di tacere a qualunque costo, anche con la Giustizia. Indi mio fratello, avendo appuntito un pezzo di legno con un coltello, scavò, per la profondità di circa un metro, una fossa in cui deponemmo il cadavere della sventurataPoi mio fratello pestò la terra con i piedi per rimetterlo al primitivo livello.

– Una fossa profonda un metro con un pezzo di legno appuntito e per giunta al buio? Non è credibile!

Il terreno era soffice perché già lavorato per la semina e splendeva la luna quasi piena

– Vedremo poi, continua.

Rientrammo a Cicala, donde la mattina successiva mio fratello, con i nostri cugini, ripartì per Nocera Superiore… questo è tutto…

La mattina del 28 febbraio alcuni funzionari della Questura, accompagnati da Pippo, vanno a fare un sopralluogo in quello che, con quasi assoluta certezza, è il luogo di un delitto, in un fondo di fresco seminato a grano, nei pressi del casello ferroviario numero 78353. Sarà stata la concitazione di quei terribili momenti, la sensazione di avere scavato quasi fino al centro della terra, fatto sta che, alla profondità media di 25 centimetri, in una breve e angusta fossa, c’è il cadavere dell’infelice Giuseppina Rotella. Al collo ha ancora una catenina di metallo con l’effige della Madonna:

– È uno scapolare dal quale Giuseppina non si distaccava mai per devozione – dice piangendo Angela, un’altra sorella della povera Giuseppina.

A questo punto è inevitabile l’emissione di un mandato di cattura per Salvatore Marazziti, eseguito dai Carabinieri di Nocera Superiore, che provvedono a scortarlo fino a Catanzaro. È il 3 marzo 1943 quando, appena arrivato, viene interrogato:

Non vedo mia moglie dal 1935, anno in cui ci separammo per l’immorale sua condotta!

– Si? Davvero? Allora tuo fratello ha mentito dicendo che il 19 dicembre siete andati insieme a Catanzaro, che avete preso tua moglie, che siete saliti sul treno, che siete scesi a San Pietro Apostolo, che su un terrapieno hai ucciso quella sventurata e la mattina dopo sei ripartito per Nocera con i tuoi cugini Salvatore e Flora?

Salvatore sbianca in viso, mai si sarebbe aspettato il tradimento di suo fratello. Adesso è in un vicolo cieco, forse è meglio confessare e chissà che non possa accadere qualcosa che lo tirerà fuori dai guai:

– Si è svolto tutto come vi ha raccontato mio fratello Pippo…

– Va bene, ma ci devi raccontare come hai fatto materialmente ad ucciderla.

Io e mia moglie ci siamo allontanati circa quaranta o cinquanta metri da Pippo; le dissi di sedersi un poco per riposare e così potei, dopo aver raccolto da terra una grossa pietra, darle un forte colpo alla testa. Giuseppina si accasciò stordita o svenuta, allora le fui subito addosso, le misi i ginocchi sopra il petto e la strinsi forte alla gola con le mani per il tempo che mi sembrò sufficiente a soffocarla. Poscia obbligai mio fratello ad aiutarmi nel sotterramento del cadavere

– E fin qui ci siamo. Ora devi spiegarci perché l’hai uccisa, ne va della tua sorte…

Nel 1939, congedatomi dal servizio militare prestato nella guerra di Spagna, fui accolto, ospite, in casa di mio zio Filippo in Nocera Superiore. M’innamorai di mia cugina Flora, la sedussi e nel settembre del 1942 rimase incinta. Preoccupato di nascondere il vergognoso fatto ai miei zii, pensai di condurre Flora a Cicala per farla occultamente partorire. In ottobre scrissi ai miei familiari pregandoli di allestire un alloggio per Flora, ma quelli risposero di non potere; intanto la gravidanza avanzava e decisi, nell’imminenza del Natale e con la scusa delle feste, di portare Flora a Cicala, ma fummo male accolti dai miei genitori che si accorsero di ogni cosa e mi invitarono ad andar via. Fu così che, come unico ed estremo rimedio, mi nacque il pensiero di sopprimere mia moglie per sposare mia cugina

A questo punto sorgono dei sospetti anche su Flora, che viene arrestata, ma si dichiara innocente ed ignara di tutte le azioni compiute da Salvatore.

I risultati dell’autopsia confermano il racconto dell’imputato: c’è una vasta tumefazione alla regione occipito-parietale sinistra, c’è la rottura della branca destra dell’osso ioide, ci sono le ecchimosi ed imbibizioni di sangue delle masse muscolari e dei tessuti della regione sopraioidea, sottoioidea e laringea, tutti segni di strozzamento. I periti concludono, quindi, che la tumefazione aveva determinato perdita dei sensi e che la morte era seguita a strozzamento mediante prolungata e brutale compressione delle regioni anteriori del collo, con conseguente asfissia. Prolungata e brutale compressione. Orrore.

Chiamati dal Giudice Istruttore, Pippo e Flora confermano di non aver partecipato in alcun modo all’esecuzione del brutale omicidio e Pippo ammette, ancora una volta, di avere soltanto aiutato suo fratello a seppellire il cadavere, ma sotto minaccia.

Salvatore invece non conferma la sua confessione e ritratta tutto:

Ho sottoscritto l’interrogatorio in Questura a causa delle percosse ricevute… – e continua fornendo un’altra versione con il relativo alibi – mi recai a Cicala ai primi di dicembre per vedere i miei genitori e rientrai a Nocera il 15 dicembre, ci sono delle persone che possono confermare tutto. E se così fosse vorrebbe dire che sta accusando suo fratello di avere ucciso Giuseppina.

Ma i testimoni non confermano nulla e Salvatore si chiude in un mutismo assoluto, tenendo in carcere un comportamento tale da far sospettare in lui uno squilibrio psichico. Per non sbagliare, gli inquirenti dispongono una perizia psichiatrica al fine di stabilire se si tratti di simulazione oppure di sopravvenuta infermità mentale che renda necessaria la sospensione del procedimento penale, così Salvatore viene ricoverato nel manicomio giudiziario di Aversa ma, il 13 settembre 1943, viene illegalmente liberato dai tedeschi e si dà alla fuga. Adesso è un ricercato e gli inquirenti, nonostante le difficoltà della guerra, fanno di tutto per assicurarlo alla giustizia, ma poi, il 2 marzo 1944, decidono di rinviarlo a giudizio, seppure in contumacia, insieme a suo fratello Pippo, mentre Flora viene prosciolta per non aver commesso il fatto. Ad occuparsi del caso sarà la Corte d’Assise di Catanzaro. Dopo due rinvii, l’11 dicembre 1944 la Corte, considerato che Salvatore Marazziti è scappato dal manicomio di Aversa, che la disposta perizia psichiatrica non si è effettuata, che dell’imputato non si hanno più notizie, onde v’è il dubbio sulla sua esistenza fisica, oltre che sulla sua sanità mentale, ordina la separazione dei giudizi nei confronti dei due coimputati e, sospendendo il giudizio nei confronti di Salvatore Marazziti, rinvia gli atti al Tribumale dei minorenni, ritenuto competente a giudicare separatamente il minore Filippo (Pippo). Il Tribunale dei minorenni di Catanzaro, però, si dichiara incompetente e ricorre per Cassazione. Il 6 luglio 1945, la Suprema Corte stabilisce che la competenza a giudicare Pippo è della Corte d’Assise di Catanzaro la quale, il 28 novembre 1945, lo assolve per insufficienza di prove.

Di Salvatore, il 5 novembre 1947, non ci sono ancora notizie e la Corte rinvia la causa a nuovo ruolo, in attesa di possibili novità dalle nuove indagini disposte per rintracciare l’evaso. Le indagini, però, non portano a nulla e la Corte, nell’esaminare nuovamente il caso, scrive: di certo v’è soltanto questo: il Marazziti, nel settembre ’43, evase dal manicomio di Aversa e in quell’epoca – come del resto capitò a tutti gli italiani – dovette certamente trovarsi sotto qualche bombardamento aereo. Ma la certezza se sia in vita o se sia morto non c’è e, d’altra parte, se fosse vivo, è evidente il sommo interesse che Marazziti, per quanto gli sia possibile, ha a non dare notizie di sé o, per lo meno, a non darne a chi può informare la Giustizia. Di questa incertezza cerca di approfittare la difesa, che chiede una nuova sospensione del giudizio per il fondato dubbio dell’infermità mentale di cui soffrirebbe l’imputato, ma la Corte ribatte: a legittimare la sospensione del procedimento a causa di completa infermità mentale, la legge richiede non il fondato dubbio, ma la prova. Ma la prova non c’è, anzi, a stare alle ultime notizie provenienti da Aversa, c’è la prova contraria. La richiesta è respinta e la Corte va avanti nel giudizio.

E se ne scoprono delle belle sulla personalità profondamente immorale e diabolica dell’imputato.

Quando Salvatore doveva sposare Giuseppina, il fratello di costei per scrupolo di coscienza lo rese edotto che ella non era vergine. Il Marazziti la sposò egualmente e, nei primi anni del matrimonio, trasferitosi con lei a Gagliano, la sfruttò conducendole in casa i giovanotti del paese. Ospite, poi, degli zii in Nocera ne ricambiò l’amorevolezza e la fiducia rendendone incinta la figlia. Sin dall’ottobre 1942 medita come coprire questa vergogna: scrive alla sorella, poi porta addirittura Flora a Cicala per farla partorire di frodo. Ma qui incontra la ribellione morale dei suoi familiari e prima di tutti dei suoi genitori ed allora, con metodo e con calma, preordina l’uxoricidio badando ai più minuti particolari perché il delitto riesca e perché, ciò che è più essenziale, rimanga impunito. Alla scena dell’ammazzamento è bene che non assista il fratello: è troppo giovane e potrebbe essere vinto dal terrore o dalla compassione per quella donna che nulla gli ha fatto di male; di più è necessario simulare il desiderio dell’intimità e dell’abbandono. Egli è un mingherlino mentre la moglie è una giovane piena di vita e di energia, per cui non è consigliabile colluttare con lei, che può anche gridare ed attirar gente dal casello ferroviario che è a 200 metri; c’è bisogno del tradimento, del colpo inopinato che la stordisca. I suoi nervi sono veramente saldi e gli permettono, dopo il sotterramento del cadavere, di ritornare a Cicala del tutto calmo e tranquillo e di preparare la partenza per Nocera l’indomani mattina.

Da questa disamina la Corte ne ricava delle considerazioni:

Primo: il comportamento dell’imputato nei giorni che precedettero il delitto, durante la consumazione di esso e nei giorni successivi dimostra assai palesemente, in lui, il pieno possesso di tutte le facoltà psichiche, percettive, volitive, affettive. Non una titubanza, non una esitazione, non una distrazione, non una debolezza, ma animo freddo, mente lucida e straordinariamente accorta, volontà inflessibilmente tesa verso un fine cui egli ha preordinato tutti quei mezzi che possono essere suggeriti dall’umana prudenza nel male. Le notizie ultimamente pervenute dal manicomio giudiziario di Aversa – secondo le quali, durante il periodo di osservazione dal 17 luglio al 9 settembre 1943, fu constatata a suo carico “una lieve sindrome depressiva” – non infirmano per nulla, ma anzi e in un certo senso avvalorano in quanto ne mostrano la piena possibilità dal punto di vista scientifico, la convinzione scaturente dal sensato esame degli atti. Ora, per tutto il complesso delle ragioni sopra esposte, è certo che all’epoca e al momento del delitto il Marazziti godeva della più completa normalità.

Secondo: l’omicidio fu premeditato. Da qualsiasi punto di vista la cosa si guardi la premeditazione salta sempre agli occhi, viva, proterva, imponente.

Terzo: un simile delitto non merita attenuanti e merita, invece, di essere punito col massimo della pena.

E ciò equivale ad una sentenza. Infatti la Corte condanna Salvatore Marazziti alla pena dell’ergastolo con l’isolamento diurno per il tempo di mesi sei, all’interdizione perpetua dai pubblici uffici, a quella legale e alle altre pene accessorie, nonché alle spese processuali e di custodia preventiva.

È il 28 luglio 1949 e forse la condanna non sarà mai eseguita perché di Marazziti non ci sono notizie.

Poi accade ciò che nessuno si sarebbe aspettato, non sappiamo di preciso quando (è presumibile tra la fine del 1950 e i primi mesi del 1951), ma l’assassino viene rintracciato, arrestato e portato in carcere a scontare il suo terribile “fine pena mai”.

Ciò che sappiamo con certezza è che il Presidente della Repubblica Sandro Pertini, con D.P. 16 settembre 1981, concede a Salvatore Marazziti la commutazione condizionale della pena dell’ergastolo in quella finora espiata, con condizione che il beneficio si intenderà revocato qualora, entro 10 anni dalla data del decreto medesimo, commetta delitto non colposo per il quale riporti condanna a pena detentiva superiore a 6 mesi.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Catanzaro.