TI MANGEREI CRUDO!

È il pomeriggio del 9 novembre 1935, fa freddo ma è una giornata tersa e il sole sta scendendo sulle montagne verso il mare.

Sulla rotabile Cosenza – Casole Bruzio il traino condotto da Alfonso Mazzuca si ferma per far salire la quattordicenne Fausta Greco, poi procede stancamente lungo la discesa verso il capoluogo. Superate le ultime costruzioni di Casole, ad una cinquantina di metri davanti a loro due uomini camminano l’uno verso l’altro. Quando i due uomini sono vicini, uno di fronte all’altro, quello che cammina in direzione di Cosenza all’improvviso afferra l’altro per il bavero della giacca e gli assesta un pugno in faccia.

Mazzuca e la ragazza restano sorpresi dalla scena, ma la sorpresa maggiore la hanno quando l’uomo che ha sferrato il pugno, indietreggiando di un paio di passi, urla mentre alza le mani in alto:

Trainiere! Mi sei testimone! – poi mette una mano in tasca, caccia una rivoltella e spara un colpo al petto dell’altro il quale, mentre cerca di allontanarsi, urla a sua volta:

Ahi! Ahi!

L’aggressore gli spara un altro colpo, che tuttavia va a vuoto, mentre il ferito barcolla, fa qualche passo e stramazza al suolo morto stecchito.

L’uomo rimette la rivoltella in tasca e continua a camminare come se nulla fosse successo. La ragazzina è terrorizzata e impietrita sul sedile, mentre il trainiere, spaventato dalla impressionante e fulminea scena, si affretta ad urlargli:

Io non ho visto niente!

L’assassino, Luigi Ciafrè, cinquantaseienne di Roseto degli Abruzzi ma residente a Spezzano Piccolo, sparisce nel nulla.

La vittima è il ventiseienne Michele De Domenico, morto perché il proiettile che lo ha colpito al petto gli ha trapassato l’aorta. Quando i Carabinieri di Spezzano Sila arrivano sul posto, gli trovano in una mano un rotolo di carte giudiziarie ritirate a Cosenza presso il suo avvocato.

I due testimoni raccontano la scena a cui hanno assistito e alle domande dei Carabinieri che cercano di capire se c’è stata una provocazione della vittima, escludono nella maniera più assoluta qualsiasi azione o parola provocatoria o offensiva da parte di De Domenico verso il suo assassino. Un delitto apparentemente inspiegabile.

Quando Ciafrè si costituisce il 12 novembre, interrogato, spiega le sue ragioni:

– Ho sparato perché offeso da De Domenico, prima con parole e poi con vie di fatto. Vedete? Ho riportato una ferita al labbro, che mi sembra essermi stata inferta con un coltello… il trainiere Alfonso Mazzuca, che conosco, ha visto tutto.

– Si, lo sappiamo che ha visto tutto. La rivoltella dove l’avete presa? Il permesso lo avete?

– Allora già sapete che i fatti sono andati come vi ho detto… la rivoltella l’avevo comprata qualche anno fa da uno sconosciuto e il permesso non lo ho…

Ovviamente il Pretore ed i Carabinieri sanno che i fatti sono andati diversamente e non gli credono, così il reato che gli contestano è terribile: omicidio aggravato dalla premeditazione.

Come sono arrivati gli inquirenti a formulare questa accusa? Per saperlo bisogna scavare nei rapporti tra i due: Ciafrè nutriva rancore nei confronti di De Domenico  perché questi aveva indotto la sua amante a querelarsi contro la di lui moglie per lesioni lievi riportate in un diverbio e, nel dibattimento celebratosi il giorno 6 dello stesso mese dinanzi alla Pretura di Spezzano, aveva dimostrato, a dire del Ciafrè, tale accanimento da indispettirlo non poco.

Piuttosto banale per giustificare un omicidio, per di più premeditato. Il problema è che quel giorno, mentre si era ancora in Pretura, Ciafrè non seppe frenare il suo risentimento e minacciò De Domenico, causa della condanna a due mesi inflitta alla moglie, dicendogli davanti a tutti:

Se non ci fossero i carabinieri, ti mangerei crudo!

Per di più, il giorno dopo la causa Ciafrè non nascose il suo rancore quando, narrando l’accaduto a Teresina Iaquinta, se ne dimostrò amareggiato assai e non mancò di minacciare De Domenico, dicendo che non gli avrebbe fatto godere l’eredità lasciatagli dallo zio. E due giorni dopo mette in atto la minaccia.

Per questi antefatti e per le modalità con le quali è stato commesso l’omicidio, gli inquirenti si sono convinti che l’imputato ha premeditato il delitto e ne chiedono, ottenendolo, il rinvio al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza.

La causa si discute il 13 ottobre 1936 e la Corte, senza perdersi in fronzoli va dritta alla sostanza del problema: l’arma usata, la parte vitale a cui ha mirato, la brevissima distanza dalla quale ha esploso il colpo mortale dicono che non esiste nessun dubbio sulla volontà omicida di Ciafrè, cosa che nemmeno la difesa mette in dubbio, ma ritiene che, per le modalità dell’atto, appare per lo meno dubbia la sussistenza dei due elementi caratteristici previsti dal Codice Penale per qualificarlo tale: il primo, di carattere cronologico, prevede che il fatto criminoso sia preceduto da un apprezzabile lasso di tempo tra l’ideazione e l’attuazione, durante il quale entra in gioco il secondo elemento, di carattere ideologico, che consiste nella ferma risoluzione criminosa di mettere in pratica il delitto, predisponendo tutti i mezzi e gli accorgimenti necessari  all’attuazione del delitto.

Derubricato il reato ad omicidio volontario, la Corte ritiene giusto condannare Luigi Ciafrè ad anni 22 di reclusione per l’omicidio, a mesi tre di arresti per il porto di rivoltella senza licenza, oltre le pene accessorie, spese e danni, liquidati in Lire ventiduemila, comprese Lire duemila per onorario di difesa.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.