PUBBLICAMENTE SVERGOGNATA

Vincenzo Lazzaro e la diciannovenne Vittoria Mazzei si sposano il 16 settembre 1943. Vincenzo è un uomo laborioso che, seppure dotato di un’intelligenza molto angusta e di una sensibilità molto scarsa, con il suo mestiere di carrettiere riesce a garantire alla nuova famigliola una certa agiatezza economica. Dalla loro unione, però, non vengono i tanto desiderati bambini e le caratteristiche negative di Vincenzo provocano un progressivo allontanamento di Vittoria  dall’amore che le aveva fatto pronunciare il fatidico “sì”. E Vittoria si allontana così tanto, che sin dall’agosto 1945 intreccia una relazione adulterina con Pantaleone Garofalo, anch’egli carrettiere, uomo ormai maturo, coniugato e padre di 5 figli.

La storia clandestina potrebbe finire quasi subito perché la moglie di Pantaleone, venuta a conoscenza del tradimento, gli fa una terribile scenata ed ottiene la promessa che l’illecito rapporto sarebbe stato subito troncato. Sarebbe, appunto, ma non è così perché tutto continua tra mille precauzioni fino alla notte tra il 28 ed il 29 agosto 1946 quando un giovanotto di Scandale, nei pressi di Crotone, sorprende i due amanti nella stalla dove Pantaleone suole chiudere il mulo. Lui rimane muto e impassibile, mentre Vittoria supplica e scongiura in ginocchio il giovanotto di non parlare, ma l’occasione è troppo ghiotta per farsela scappare e la tresca diventa di dominio pubblico. Ovviamente anche Vincenzo viene reso edotto del tradimento della moglie e la caccia di casa. Non basta: va dal Pretore di Santa Severina e denuncia gli adulteri.

Vittoria prende la sua roba e si rifugia in casa del vecchio padre, sordomuto e infermo, e della sorella Bettina, che però non l’accettano di buon grado, tanto che il padre medita seriamente di mandarla via perché l’ambiente di Scandale non può riuscir tollerabile alla peccatrice, ormai pubblicamente svergognata.

In questa difficile e penosa situazione, le risuonano nella mente le lusinghiere promesse del suo ganzo e si confida con un’amica:

Essendo stata scoperta, non ho altro partito che andare a convivere col mio amante

Non disperare, agisci con ragionevolezza, le cose si possono aggiustare…

Vittoria, mordendosi le mani e bestemmiando, esclama:

Debbo fare una cosa che dovrà raccontarsi!

Così, il 30 agosto, fa in modo di parlare all’amante:

– Sono disperata, trovami una sistemazione a Crotone e resterò lì come tua mantenuta – lo prega.

– Va bene, adesso vai, ti faccio sapere tra un paio di ore.

Ma le ore passano e non arriva nessuna notizia e Vittoria, avendo saputo che Pantaleone il giorno dopo sarebbe dovuto andare a portare un carico a Crotone, il 31 mattina parte a piedi e incontra l’amante in Piazza Pitagora.

– L’hai trovata la casa? Io non posso più stare da mio padre, non posso più stare a Scandale, posso fare solo la tua mantenuta.

– Si, l’ho trovata, vieni con me.

A Vittoria brillano gli occhi, prima sorride, poi piange di gioia perché l’incubo sta per finire e trotterella dietro a Pantaleone, seduto comodamente in sella al suo mulo. Arrivano davanti al “Diurno”. L’uomo smonta, lega l’animale e dice a Vittoria, che guarda con aria perplessa e interrogativa il cesso pubblico:

– Ho voglia, andiamo lì dentro che ti voglio fottere.

Vittoria accetta, entrano in una latrina e chiudono la porta. Lei si sfila le mutandine e le lascia cadere per terra, poi lui la monta come farebbe una bestia. Quando finisce, Vittoria torna alla carica:

– Allora? La casa è lontana?

– Non te la trovo, ora trovavo una casa a una zoccola e puttana! – le dice sorridendo sarcasticamente mentre sputa a terra.

Vittoria spalanca la bocca incredula, poi mette una mano in tasca, estrae un coltello e fulmineamente gli vibra un fendente al collo, proprio nel punto tipico che vien preso di mira da chi vuole scannare. Questa volta l’incredulità è stampata sul viso di Pantaleone che boccheggia mentre cerca di fermare il sangue che zampilla a fiotti dal collo. Vittoria lascia cadere il coltello, lascia le mutandine sul pavimento sporco dell’urina di mille sconosciuti e del sangue di Pantaleone, poi se ne va asciugandosi le lacrime col dorso della mano.

Poco dopo qualcuno fa per entrare nel “Diurno” e vede il cadavere di Pantaleone, morto dissanguato su quel pavimento lurido.

Vittoria vaga senza meta per qualche ora, poi va a Papanice, borgata di Crotone, dove una guardia municipale nota il suo vestito sporco di sangue e la ferma:

– Che cosa è quel sangue?

Ho avuto un alterco con Garofalo Pantaleone e l’ho accoltellato

La guardia non può fare altro che consegnarla ai Carabinieri.

Ero venuta a Crotone per indurre Pantaleone Garofalo a trovarmi un’abitazione, ma con l’intenzione di ucciderlo qualora si fosse rifiutato di far questo

– Il coltello chi te lo ha dato?

Il coltello l’ho portato per servirmene se Garofalo si fosse rifiutato di sistemarmi

– È da non credere che tu abbia ucciso quell’uomo per un motivo così futile.

– Si, sono state anche le maniere di tale rifiuto e il suo inqualificabile comportamento che mi provocarono risentimento e ira

– Parla di questo suo comportamento.

Finito l’atto fisiologico gli ho chiesto ancora una volta di trovarmi la casa e lui mi rispose negativamente cominciando ad ingiuriarmi chiamandomi zoccola e puttana. Io allora perdetti il dominio di me stessa e lo colpii al collo

C’è un uomo ucciso, c’è una donna che confessa di avere commesso il delitto e c’è anche il marito della donna che l’ha denunciata per adulterio. Si potrebbe arrivare in tempi brevi al rinvio a giudizio, ma per la sentenza del Giudice Istruttore bisognerà aspettare il 26 luglio 1947 e ad occuparsi del caso sarà, dopo quasi altri due anni, la Corte d’Assise di Catanzaro.

La Corte, letti gli atti ed ascoltati i testimoni, osserva: se il Garofalo le abbia veramente rivolto quegli epiteti offensivi è cosa che non può più essere sicuramente accertata, ma certo è, tuttavia, che la Mazzei agì in preda ad un veemente stato emotivo e certo è anche che l’offesa a lei recata dall’amante fu ben altrimenti grave di quella che può essere una semplice ingiuria verbale. Con questa premessa sembra che le cose si stiano mettendo bene per Vittoria, ma la Corte continua: l’imputata aveva, senza dubbio, la sua parte di colpa nei fatti che prepararono il delitto ma, senza timore di sbagliare, è lecito affermare che la colpa maggiore era del Garofalo e che sua era stata l’iniziativa della loro relazione peccaminosa. Sta di fatto che la Mazzei era una ragazza appena uscita dalla minore età, mal custodita e niente affatto compresa da un marito semplicione, laddove il Garofalo era un uomo maturo e di molta esperienza. E mentre la Mazzei era una giovane mite e tranquilla, che mai prima aveva fatto parlare di sé, il Garofalo, viceversa, era noto a tutto Scandale come un impenitente “don Giovanni”, come un uomo che aveva insidiato la pace e l’onore di molte famiglie.

Poi la Corte si spinge oltre e afferma: d’altra parte, se nessun elemento obiettivo di controllo esiste per ammettere o per escludere che il Garofalo abbia chiamato la Mazzei “zoccola e puttana”, esistono invece delle insuperabili considerazioni di natura logica che dimostrano la veracità dell’interrogatorio dell’imputata nella sua sostanza. È da credere che il Garofalo usò ancora una volta di lei nel gabinetto dell’albergo diurno perché, a prescindere dal ritrovamento delle mutande, nessun altro motivo i due avrebbero potuto avere per entrare insieme nel gabinetto; è da credere che prima del coito il Garofalo si impegnò con la Mazzei di trovarle la casa e dopo del coito rinnegò quanto aveva promesso perché, infatti, se così non fosse stato, l’imputata che andava in cerca di un’abitazione, né prima avrebbe acconsentito all’accoppiamento, né dopo avrebbe avuto ragione di colpire l’amante. Ciò posto, non v’ha chi non scorga il carattere ingiusto sino alla ripugnanza di un tale comportamento del Garofalo: approfittare dello stato di abbattimento di un essere umano dopo averne provocato la rovina economica e morale, ricorrere ad un miserabile inganno per poter soddisfare ancora una volta la propria libidine, trascinando con la frode, sino al fondo della morale abiezione, all’accoppiamento bestiale nella pubblica latrina. Tutto questo è indicibilmente turpe e ripugnante, è la beffa più atroce che si possa giuocare ai danni di un essere umano. Fu per questa più profonda ragione che la Mazzei perdette il dominio di sé stessa, ossia entrò in un imponente stato d’ira e d’intenso dolore e volle vendicare col sangue la sua dignità di persona, così vilmente e disumanamente offesa. Le offese verbali, furono o non furono profferite, nulla avrebbero potuto aggiungere all’enorme gravità della provocazione.

Pertanto, alla stregua delle suesposte considerazioni, appare chiaramente dimostrato che l’imputata volle uccidere il Garofalo e che volle ucciderlo nell’impeto d’ira determinata dal fatto ingiusto della vittima, e concede all’imputata la relativa attenuante.

Poi, in considerazione della giovanissima età, degli illibati precedenti penali e anche morali prima della vicenda in questione, la Corte decide di concederle anche le attenuanti generiche e questo al fine di mitigare, per quanto è possibile, in considerazione della sua minima pericolosità sociale, l’asprezza della pena.

Ora bisogna esaminare il reato di adulterio. Anche qui non ci sono dubbi sulla responsabilità di Vittoria, ma la Corte osserva che è da considerare che ella fu una vittima incauta della circuizione del Garofalo, ancorché non sia risultato vero quello che l’imputata ebbe a dire, che, cioè, la relazione ebbe inizio con una violenza carnale da parte del Garofalo.

Detto ciò, la Corte stima equo, calcolate le attenuanti, infliggere a Vittoria Mazzei anni 9 e mesi 4 di reclusione per l’omicidio e mesi 2 di reclusione per l’adulterio, oltre alle pene accessorie, spese e danni.

È l’8 giugno 1949.

La Corte d’Appello di Catanzaro, il 21 giugno 1950 dichiara condonati anni 3 della pena.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Catanzaro.