È la mattina presto del 28 aprile 1924. Nella frazione San Pantaleone del comune di San Lorenzo in provincia di Reggio Calabria, la quindicenne Maria Santoro è in casa con sua madre Domenica Verduci. L’uscio, socchiuso, si spalanca con violenza e sulla soglia appare Carmelo Verduci, fratello di Domenica. Ha un aspetto mostruoso: tutto imbrattato di sangue, una ferita sulla fronte da cui cola un rivolo di sangue sugli occhi fuori dalle orbite, le narici dilatate, la bocca spalancata come a voler immettere nei polmoni tutta l’aria del mondo e in mano un pugnale sporco di sangue. Maria gli è davanti e a quella vista rimane impietrita dal terrore che le suscita la figura dello zio:
– Esci davanti mannaja la madonna, che debbo ammazzare tua madre! – urla mentre dà uno spintone alla ragazza. Poi si lancia sulla sorella, seduta su una sediolina, e comincia a colpirla col pugnale alle spalle e poi al petto e dovunque capiti, quindi se ne va di corsa lasciando il pugnale infisso nel petto di Domenica che, sbigottita, si alza, estrae dalle carni l’arma e si abbatte al suolo senza un lamento, morta.
Ma non è l’unico fatto di sangue accaduto la mattina del 28 aprile. Circa mezz’ora prima dell’omicidio di Domenica Verduci, Caterina Iaria sta portando gli animali vaccini in contrada Cammarà. Giunta in contrada Croce incontra il cinquantenne Bruno Candito a cavallo del suo asino e fanno insieme un piccolo tratto di strada, quando incontrano Carmelo Verduci che ha in mano una salvietta con qualcosa dentro.
– Buongiorno compare! – fa Bruno Candito.
– Buongiorno il cazzo, quando mi hai mancato di rispetto! – gli risponde Carmelo, indispettito per quella che gli sembra una presa in giro.
– Muccosello, che cosa devi farmi? Non mi ha fatto niente mia moglie e me lo fai tu? Ho preso quante donne ho voluto da San Pantaleo e nessuno mi ha fatto niente, che cosa devi farmi tu? – gli risponde con tono di scherno.
– Hai ragione perché mi trovi solo… – termina Carmelo continuando per la sua strada, sentendosi impotente davanti all’avversario molto più forte e armato di scure, mentre lui ha solo un pugnale.
Bruno Candito, nel frattempo smontato dall’asino con la scure in mano, vedendo Carmelo allontanarsi lascia l’asino e comincia a inseguire il giovanotto. Caterina Iaria, intuendo che sta per accadere qualcosa di brutto, cambia strada con i suoi animali e prudentemente si allontana.
– Se vuoi parlarmi scendiamo qui sotto – dice Bruno Candito, ma è quasi un ordine, visto che tiene la scure alzata in segno di minaccia. Carmelo sa che probabilmente è giunta la sua ora, ma non vuole sottrarsi alla sfida e i due scendono sotto la strada. Candito non perde tempo e abbatte la scure sulla fronte del giovane e poi sulla scapola, quindi lo fa cadere bocconi e gli tira due colpi di sasso alla nuca. Carmelo capisce che se non tenta una reazione morirà nel giro di pochissimo tempo e allora, con la forza della disperazione, estrae il pugnale dalla cintola, si gira e colpisce Candito che, sorpreso dalla reazione, lascia cadere la scure e si ferma a guardare il sangue che comincia a scorrere. Questo dà il tempo a Carmelo di rialzarsi, seppure ancora intontito, raccogliere la scure e colpire l’avversario, ammazzandolo. Poi va a casa di sua sorella e ammazza anche lei.
È ovvio, dalle parole pronunciate da Carmelo e Bruno, che debba essere accaduta qualcosa tra quest’ultimo e Domenica, la sorella del primo.
A scoprire cosa c’è dietro i due omicidi saranno il Pretore di Melito Porto Salvo ed il Maresciallo Francesco Calabrò, comandante la stazione dei Carabinieri di San Lorenzo. Arrivati sul luogo del primo omicidio trovano il cadavere di Bruno Candito con evidenti ferite da scure sul collo e sulla testa e accanto l’arma col manico rotto. Accanto al cadavere di Domenica Verduci c’è il pugnale. Di Carmelo invece non c’è traccia e le indagini cominciano con la deposizione della quindicenne Maria. Verbalizza il Maresciallo Calabrò:
– Cinque o sei anni dietro, mio padre da soldato morì in guerra. Mia madre, nel giugno 1923, con l’occasione che andava a casa di Bruno Candito per aiutarlo nei lavori dei bachi da seta, iniziò relazioni illecite con questo, tanto che fece parlare il pubblico di sé e maggiormente, or sono tre mesi, quando da questa relazione nacque un bambino. Mio zio Carmelo promise più di una volta di vendicare l’onore della famiglia nostra ed in ispecie per lo scandalo apportato a noi giovani nipoti.
Le apparenze dei fatti dicono che si è trattato di una questione d’onore, un caso facile facile, ma le imputazioni addebitate a Carmelo Verduci hanno poco a che fare con un delitto d’onore perché sono di omicidio con premeditazione mediante colpi di scure per quanto riguarda la morte di Bruno Candito, di omicidio con premeditazione mediante colpi di pugnale per quello di Domenica, di omessa denunzia di pugnale e porto di scure senza giustificato motivo.
Carmela Zumbo, la vedova di Bruno Candito, ricostruisce gli ultimi movimenti del marito:
– Stamattina mio marito stava andando presso suo fratello Lorenzo per costruirsi un aratro e partì con la scure e con due trapani. Doveva tornare a casa stasera e invece…
– Ci andava spesso in quella contrada?
– Non era solito recarsi nel luogo ove fu ucciso. Vi andava ogni anno nel bosco di proprietà di Antonio Catanoso per tagliare la legna che ci serviva per riscaldare gli ambienti destinati all’allevamento dei bachi, ma quest’anno non ci era ancora andato.
– E come pensate che Verduci sapeva che ci sarebbe andato?
– Non lo so…
– Sapevate che vostro marito aveva una relazione illecita con Domenica Verduci e che ha avuto un bambino da questa relazione?
– Nel decorso anno Domenica Verduci mi aveva dato aiuto nell’allevamento dei bachi ed aveva lavorato con me circa quindici giorni, ma non mi accorsi mai che mio marito la corteggiasse… non venne mai a mia conoscenza che Domenica fosse incinta, se non quel giorno che partorì. Quando partorì seppi dalla levatrice che in un primo tempo Domenica dichiarò che era rimasta incinta con un barese e solo la mattina appresso fece il nome di mio marito. Quando ciò seppi, ne parlai a mio marito il quale mi giurò che non era vero.
– Siete a conoscenza di minacce fatte da Verduci a vostro marito?
– Non mi consta di minacce ricevute da Verduci. Costui passava davanti casa nostra e, sebbene avesse tolto il saluto a mio marito fin dal giorno che la sorella partorì, pure si tratteneva a discorrere con me e non mi parlò mai dell’accusa che si faceva a mio marito. Però notai che nei giorni che precedettero il delitto, Verduci non mi salutava più…
– Avete mai visto questa scure?
– È quella che questa mattina mio marito portò con sé…
Ahi! Se la scure è quella della vittima le cose potrebbero cambiare perché se l’ascia usata per uccidere era di Candito la premeditazione sarebbe quanto meno dubbia, ma le cose non cambiano e non cade nemmeno l’imputazione di porto abusivo di scure.
C’è un altro elemento che non quadra nelle indagini: quando Maria Santoro, la figlia della povera Domenica, viene interrogata dal Pretore, oltre a raccontare la dinamica dell’omicidio di sua madre, dice:
– Io dissi ai Carabinieri che mio zio era ferito alla fronte e non so perché essi non l’abbiano scritto in verbale! – una svista? Un’omissione? Niente di ciò perché il Maresciallo Calabrò, interrogato in proposito, conferma punto per punto il suo verbale. Poi Maria continua raccontando i rapporti tra suo zio e sua madre – Mio zio veniva in casa nostra prima che mia madre partorisse, dopo non venne più ed io non ebbi occasione di vederlo…
– E come spieghi che ai Carabinieri hai detto che tuo zio aveva più volte espresso la volontà di vendicarsi?
– Non è vero che io abbia detto ai Carabinieri che mio zio avesse detto che aveva promesso di vendicare il nostro onore!
– Quindi cosa intendi fare? Qui c’è la querela pronta contro tuo zio…
– Non ho istanze da fare alla Giustizia perché mia madre si comportò male e meritava di fare quella fine! – termina con freddezza.
In questo frattempo arrivano i risultati delle autopsie svolte sui due cadaveri ed è evidente che Carmelo ha infierito su entrambe le vittime. Sul cadavere di Bruno Candito i periti riscontrano quattordici ferite, distribuite tra la testa e il collo (quattro lesioni), il torace (nove lesioni) e il dorso (una lesione), tutte mortali. Sul cadavere di Domenica Verduci riscontrano cinque lesioni: una alla regione mammaria sinistra che ha trapassato il cuore; una allo sterno; una interessante la regione cervicale; una alla regione scapolare destra; una alla regione sopra clavicolare destra. Dal numero dei colpi e dalla violenza con la quale sono stati inferti non c’è dubbio che Carmelo Verduci ha voluto uccidere le sue vittime, ma ciò che sconcerta è proprio l’estrema violenza usata per raggiungere lo scopo. Forse c’è sotto dell’altro, ma pare che gli inquirenti non abbiano intenzione di approfondire la vera causa di questa violenza.
Dalle deposizioni di molti testimoni emerge chiaramente come Domenica, prima del parto, fosse trattata bene dai suoi genitori, che avevano acquistato per lei del grano e delle fave, ma dopo il parto tutti di sua famiglia si tennero lontani da lei.
Ma emerge anche la personalità di Bruno Candito, peraltro già raccontata da Caterina Iaria nella ricostruzione degli attimi immediatamente precedenti all’omicidio. Giovanna Fosso racconta qualcosa avvenuta dopo il parto di Domenica Verduci:
– Domenica mi pregò di dire al Candito che si era sgravata di un bambino che rassomigliava alla figlia di esso, che pensasse per il bambino stesso, altrimenti badasse alla sua vita; mi pregò ancora di dire a Candito di darle 250 lire che gli aveva dato all’imprestito. Candito mi disse che aveva pronte le 250 lire e le avrebbe mandate subito a Domenica; che del bambino non sapeva che farne e in quanto alla minaccia mi disse: “Ho due mani come gli altri, i suoi fratelli come sono cornuti, cornuti rimangono… ne ho fatte tante e tutte sono riuscite bene!”.
Angelo Curatola racconta:
– Alcuni giorni dopo che Domenica Verduci si sgravò da un bambino frutto di illeciti amori, vidi passare la moglie di Candito, che si trattenne con me a discorrere e mi disse che era disturbata ed aveva intenzione di abbandonare il marito perché costui, dopo di avere ingannata la cognata, ora aveva resa incinta Domenica. Mi disse anche che il marito stesso ammetteva di aver commesso il fallo. Preciso che per cognata intendo la sorella della moglie; ella partorì quattro o cinque mesi dopo di essere passata a matrimonio, ne nacque uno scandalo e fu prodotta querela contro il Candito, il quale però fu assolto per mancanze di prove…
Poi Lorenzo Angelone:
– Alcuni giorni dopo che Domenica Verduci partorì, mi trovai in casa di Bruno Candito e discorrendo con la moglie del fatto che si addebitava al marito di avere ingravidato la Verduci, la moglie stessa mi disse che il marito ammetteva il fatto. Bruno era presente e non diceva nulla, ma poi uscì in questa esclamazione: “Io non ho paura e se mi ammazzano di sorpresa va bene, altrimenti come gli ho fatto le corna, gliele rompo!”. Debbo aggiungere che la moglie, sempre in presenza del marito, mi disse che aveva ingannato anche la sorella di lei. Bruno col silenzio ammetteva anche questo fatto.
– La vedova di Candito ha affermato che qualche giorno prima dell’omicidio avevate messo in guardia il marito…
– Non è vero!
Intanto sono passati quasi due mesi dai fatti e finalmente Carmelo Verduci si costituisce. Interrogato, cerca di spiegare i fatti, ma non li racconta come realmente accaddero e certamente questo non gli giova:
– Ammetto di avere ucciso Bruno Candito e mia sorella Domenica. Costei rimase vedova diversi anni addietro e nel febbraio ultimo partorì ed io non mi ero accorto che era gravida perché per avere avuto diversi figliuoli aveva l’addome ingrossato. Quando partorì seppi che aveva dichiarato di avere avuto relazioni con Bruno Candito. Il fatto mi addolorò, ma non avevo intenzioni di vendetta né contro di lei, né contro Candito; però non frequentai più la casa di mia sorella, né mantenni amicizia con Candito. Il 28 aprile, mentre mi recavo in un fondo del dottor Abenavoli in contrada Cappelli, feci incontro alla Croce col Candito il quale, quando mi fu vicino, saltò dall’asino ed imbandì la scure. Questo atto di Candito, che dopo avere offeso l’onore della mia famiglia teneva pure un contegno minaccioso, m’irritò. Lo rimproverai e gli dissi: “vigliacco!”. Ma a questa mia parola Candito mi disse che se volevo parlargli andassi con lui sotto la strada e alzò la scure vibrandomi un colpo alla fronte ed un altro alla scapola; indi mi gettò in terra e mi diede due colpi di sasso all’occipite. Allora estrassi il pugnale, che ero solito portare, e con quell’arma e con la stessa scure che Candito aveva con sé, gli detti diversi colpi. Avevo perduto il lume della ragione e dopo di avere ucciso Candito mi recai a casa di mia sorella e l’uccisi. Non premeditai il fatto, che non avrei commesso se Candito non avesse tenuto quel contegno verso di me.
– Pare che tu avessi premeditato di ucciderli per vendetta…
– Non premeditai i delitti e non è vero che io abbia detto di voler vendicare l’onore della mia famiglia. Caterina Iaria vide Candito saltare dall’asino e imbrandire la scure, ma non so se lo abbia anche visto colpirmi perché, come dissi, ci allontanammo dalla mulattiera…
Interrogata, Caterina Iaria racconta per filo e per segno ciò che ha visto, meno ovviamente le fasi vere e proprie dell’omicidio.
– Oltre alle parole che avete riferito, Candito profferì qualche altra parola?
– Sissignore, gli disse anche “cornuto”.
A questo punto dovrebbe essere chiaro che Candito, quanto meno, provocò Carmelo Verduci, se non si è trattato addirittura di legittima difesa, ipotesi avanzata con forza dall’avvocato Antonio Zuccalà: Carmelo Verduci, pur travolto nelle spire di un tormento indicibile per il disonore caduto sulla sua casa, non osa vendetta contro alcuno dei suoi oltraggiatori, la sorella e Bruno Candito. È un giovane che indica a tutto il mondo l’amarezza da cui è travagliata l’anima sua non frequentando la casa della sorella, sottraendo a costei quelle risorse finanziarie che il padre le aveva destinato perché ella meglio vivesse. È un giovane che sente pesare sulle sue spalle tutta la immoralità della sorella e del giudo di lei. Eppure soffre e tace, comprime lo sdegno e non si vendica; subisce il disonore e non uccide. Tutto culmina nell’episodio finale in cui la prepotenza del Candito si manifesta ancora una volta. Nulla può fargli l’imberbe Carmelo Verduci, che egli chiama Muccosello, perché, ormai è chiaro, egli ha paura di Candito, cerca di evitare la discussione e continua a camminare convinto della prepotenza dell’altro, della sicura superiorità di costui e del sicuro pericolo che avrebbe corso. Dov’è dunque la premeditazione di Carmelo Verduci? Non solo il processo non ne dà segno, ma vi è prova del contrario. Vi è un’offeso che non sa, che non può, che non osa pensare al delitto contro gli oltraggiatori del suo onore. Candito insegue Verduci con la scure in mano, lancia il braccio e ferisce Verduci producendogli varie lesioni, lesioni prodotte da scure. È in questo momento che Carmelo Verduci s’intende travolto dal suo avversario, tutto misura il pericolo che lo assale e nella esasperazione e disperazione chiede a sé stesso la necessaria reazione ed in un supremo sforzo, che gli indica la vita o la morte, riesce fortunatamente a brandire l’arma dell’avversario con la quale colpì ed uccise. Quale caso più tipico di legittima difesa? Cogli occhi stralunati, col cuore trafitto, con la tragica visione è trascinato dalla bufera che il primo delitto scatenò e si trasse in paese, entrò nella casa della propria sorella e, privo di ogni potere inibitorio, ripetutamente la colpì e l’uccise. Le lesioni al capo sconvolsero ogni criterio di resistenza morale scombuiando le sue facoltà mentali. Carmelo Verduci è vittima di un improvviso stravolgimento di tutta la sua mente la quale ha, in quell’attimo, spente tutte le facoltà.
Quindi Carmelo uccise Candito per legittima difesa e la sorella in uno stato di alterazione mentale. La Procura, però, non accetta la ricostruzione dei fatti proposta dalla difesa e insiste per la premeditazione dei delitti e per questo motivo chiede il rinvio a giudizio di Carmelo Verduci. La Sezione d’Accusa accoglie la richiesta e ad occuparsi del caso sarà, il 28 maggio 1926, la Corte d’Assise di Reggio Calabria.
Letti gli atti ed ascoltati i testimoni, il primo giugno successivo la Corte crede alla tesi della difesa: Carmelo Verduci ha ucciso Bruno Candito per legittima difesa e sua sorella in uno stato di infermità mentale tale da togliergli temporaneamente la facoltà di intendere e volere e dichiara assolto l’imputato.[1]
[1] ASRC, Corte d’Assise di Reggio Calabria.