LE NOZZE, UNICO RIMEDIO POSSIBILE

È il 13 luglio 1925, poco prima di mezzogiorno. Una donna, Filomena Li Marzi, è seduta di fronte al Procuratore del re di Cosenza; nelle mani tormenta un fazzoletto e, prima di mettersi a parlare, guarda sulla sua destra dove è seduta la figlia Maria, che non le ricambia lo sguardo perché tiene gli occhi bassi. Filomena comincia il suo racconto con voce incerta per l’emozione:

Giuseppe De Francesco, cocchiere da Cosenza, invaghitosi di mia figlia Maria, minore degli anni 15, prese a frequentare la mia casa da fidanzato, mostrando le più serie intenzioni. Un giorno dello scorso mese di marzo, profittando di una mia momentanea assenza, abusò della ragazza, deflorandola. Dapprima le insinuò che “fra poco saremmo stati marito e moglie e quindi non c’è nulla di strano”, poi le intimò: “se non acconsenti non ti sposerò più”. Poiché la malcapitata, tremante, opponeva le più recise ripulse, il bruto, imbandito un coltello, la rovesciò sul letto e, chiudendole la bocca con una mano per non farla gridare, con la minaccia di ucciderla raggiunse il suo turpe intento. Indi, la inesperta fanciulla, mi confessò tutto ed io, superata la crisi del primo tormentoso sdegno, mi rivolsi ad amici per consigli. Così vennero avviate le pratiche per affrettare le nozze, unico rimedio plausibile

Il Procuratore con un gesto della mano ferma il racconto della madre, guarda la ragazzina, che ha sempre lo sguardo rivolto a terra, e le dice:

Picceré, è cosi?

Maria, senza alzare gli occhi fa un cenno di assenso e il Procuratore dice alla madre di continuare:

Durante le pratiche, De Francesco, buttata la maschera, dopo avere perfino rubato da un libretto la somma di quattrocento lire, raggranellata con lunghi e sudati risparmi destinati al corredo della sposa, si dileguò, abbandonando la mia povera figlia, restando sordo a tutte le preghiere e a tutte le voci di ragionevole persuasione per scuotere la coscienza di lui all’adempimento del suo dovere… la mia è una famiglia pacifica, che non vuole ricorrere ai soliti mezzi criminosi per farsi giustizia da sé in riparazione dell’onore perduto e perciò sporgo querela contro Giuseppe De Francesco, abitante in Via Rivocati

Ovviamente Maria deve essere sottoposta a visita ginecologica per stabilire se il racconto corrisponde grosso modo a verità perché gli eventuali segni della violenza subita non sono più accertabili dopo circa 4 mesi dalla data indicata e la perizia sostanzialmente conferma: l’imene si presenta lacerata profondamente fino al suo margine d’inserzione da due lacerazioni. Dai caratteri obiettivi di tali lacerazioni, queste sono state determinate da introduzione di corpo rigido nella vagina, avvenuta da circa cinque o sei mesi.

Ma secondo Giuseppe De Francesco le cose sono andate in modo completamente diverso:

Nello scorso anno cominciai ad amoreggiare con la giovinetta Maria Li Marzi all’onesto scopo di sposarla ed il giorno primo novembre 1924 cominciai a frequentare la casa di lei. La madre cominciò subito a lasciarci soli ed anche a farmi dormire presso di loro, di modo che io, dopo appena dieci giorni, agevolato dalla condotta della madre, possedetti la giovinetta col pieno consenso di lei e continuai a possederla fino a tutto giugno. Senonché, fin dai primi del corrente anno, ebbi a notare che Maria conservava un contegno poco serio e che rispondeva in malo modo ai miei avvertimenti ed ai miei giusti lamenti, istigata in ciò anche dalla madre. Questa, un giorno disse a certo Salvatore Piro che la figlia mi avrebbe sposato senza piacere e che mi avrebbe fatto subito le corna e lo stesso disse al cocchiere Giovanni Cupelli. Maria disse un giorno ai cocchieri Pasquale Pranno e Vincenzo Mosciaro ch’ella non voleva più saperne di me. Poi si mise a fare l’amore con certo Luigi Cervino che, nonostante le mie proibizioni, ha sempre frequentato la sua casa. Fu in seguito a tutte queste ingratitudini che io non volli più saperne di Maria!

Fermo restando che “possedere” una poco più che quattordicenne è reato anche se con il suo consenso (che non serve a niente perché legalmente incapace), il caso adesso si allarga perché entra in ballo anche la rottura degli accordi matrimoniali ed i testimoni da interrogare aumentano a dismisura. È per questo che la madre di Maria chiama a testimoniare il dottor Alessandro Adriano, al quale richiese dei certificati medici, necessari ad ottenere la dispensa  per la celebrazione delle nozze, vista l’età della ragazzina:

Nell’aprile 1925 venne da me Maria Li Marzi assieme alla madre e mi richiesero un certificato attestante che la ragazza era di buona costituzione e quindi poteva contrarre matrimonio, quantunque non avesse raggiunta l’età prescritta. Io osservai le condizioni generali della ragazza, ma non ebbi cura, non occorrendo ai fini del certificato da rilasciare, di accertare le sue condizioni d’integrità fisica. Dopo un paio di mesi circa, tornò la madre, la quale mi raccontò che la figliuola aveva avuto rapporti intimi col suo fidanzato e mi richiese un altro certificato attestante l’avvenuta deflorazione. Io, naturalmente, volli prima visitare Maria e constatai che presentava deverginamento, con l’imene profondamente lacerato a raggi in vari punti, onde conclusi che la deflorazione fosse avvenuta da un tre mesi circa e poiché il canale vaginale si presentava abbastanza dilatato ed estensibile, conclusi pure che l’atto del coito dovesse essere stato ripetuto varie volte. Né in tale occasione, né prima la madre o la figlia ebbero ad accennarmi che la ragazza fosse stata violentata, ma mi dissero semplicemente che Maria aveva avuto rapporti col fidanzato. La madre desiderava da me il certificato per ottenere che alla figliuola fosse consentito di sposare prima dell’età prescritta ed io lo rilasciai a tale effetto.

Con questo, la verità potrebbe stare nel mezzo delle due versioni, ma altre deposizioni potrebbero far pendere la bilancia da una parte o dall’altra. Vediamo.

Il cocchiere Pasquale Pranno, citato da De Francesco, racconta:

Dovevo fare da compare al matrimonio tra Maria Li Marzi e Giuseppe De Francesco e da quest’ultimo seppi che egli aveva già posseduto la ragazza, ma col consenso di lei. Allora m’interposi perché il matrimonio venisse affrettato e a dire il vero De Francesco si mostrava perfettamente disposto, ma per quanto lui ebbe a riferirmi, le trattative si ruppero perché Maria lo trattava male e mostrava di non volerlo più per marito.

– Ma Maria è una civetta o una brava ragazza?

A quanto mi consta è una ragazza per bene e di ottima moralità.

Dello stesso tenore sono anche le altre deposizioni dei testi citati dall’imputato e se ne può ricavare che nessuno riferisce circostanze conosciute direttamente, ma tutti si limitano a ripetere che è stato Giuseppe De Francesco ad aver fatto le affermazioni che riportano, quindi nessuna vera conferma.

L’unico a dire qualcosa di diverso è il cocchiere Luigi D’Elia:

Filomena Li Marzi, dieci o dodici giorni fa, mi disse che la figlia Maria era stata posseduta dal proprio fidanzato Giuseppe De Francesco, ma non mi parlò affatto di violenza o minacce usate da De Francesco.

Si può dire quello che si vuole, si può anche ammettere che Maria abbia volontariamente fatto l’amore con Giuseppe, ma c’è sempre il macigno della legge che ritiene l’eventuale consenso nullo per l’età della ragazzina, tanto è vero che per poter celebrare il matrimonio è necessaria un’autorizzazione speciale del Tribunale Civile, corredata da una serie di certificati tra cui quello di sana e robusta costituzione di cui ha parlato il dottor Alessandro Adriano.

Il rinvio a giudizio è automatico e la causa si discute il 6 novembre 1925 alle ore 10,00 a porte chiuse poiché il motivo della causa è offensivo della morale.

Il Pubblico Ministero, senza perdersi in fronzoli, chiede la condanna dell’imputato ad un anno di reclusione e 800 lire di multa.

La difesa chiede l’assoluzione perché il fatto non costituisce reato; in subordine chiede l’assoluzione per insufficienza di prove.

La folla di curiosi viene fatta entrare poco prima che il Presidente del Tribunale emetta la sentenza. Nell’aula il silenzio è assoluto quando il Cavalier Francesco Massimilla prende la parola:

Condanna l’imputato De Francesco Giuseppe di anni ventidue alla pena della reclusione per anni 1 e mesi 6 e lire 1.000 di multa.

Più della richiesta del Pubblico Ministero.

Il 22 marzo 1927 la Corte d’Appello di Catanzaro, in parziale riforma della sentenza del tribunale di Cosenza, riduce la condanna inflitta a Giuseppe De Francesco a mesi 5 di reclusione e lire 200 di multa.[1]

[1] ASCS, Processi Penali.