LASCIO ANTONIO E PRENDO PEPPINO

LASCIO ANTONIO E PRENDO PEPPINO Ovvero “l’onore” della fiera gente di Calabria

Maria Siciliano e Antonio Santoro sono di Cassano Ionio e sono sposati. Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, Antonio viene richiamato alle armi e mandato in Libia, lasciando Maria ben fornita di olio, legumi, frumento, biancheria e nemmeno il denaro difetta per i mensili sussidi.

Ma mentre Antonio espone in Tobruk la vita per la Patria, la moglie si compiace di contrarre relazioni adulterine con tal Giuseppe, ammogliato e con figli.

Poi accade quello che i due amanti non avrebbero mai voluto che accadesse: il 5 ottobre 1941 Francesco Santoro, il fratello di Antonio, sorprende in flagranza gli adulteri e la moglie di Giuseppe, presa da gelosia, dà luogo ad uno scandalo informandone con clamore tutto il vicinato!

Arrivano anche i Carabinieri e arrestano Maria ma non Giuseppe, che fulmineamente si rende latitante. È un fuoco di paglia perché né la moglie di Giuseppe, la quale si acquieta col solo scandalo, e né Antonio, ignaro della infedeltà della moglie, sporgono querela e Maria viene rimessa in libertà.

Maria, perduto ogni pudore e resa più audace dalle circostanze favorevoli, accoglie nella casa coniugale il ganzo, nel frattempo tornato in paese, mettendogli a disposizione le provviste di casa, il denaro ed anche la biancheria e gl’indumenti, per cui Giuseppe non disdegna di assumere veste e sostanza di mantenuto che, oltre a godere del denaro prodigatogli dall’adultera, fa perfino uso personale delle camicie di Antonio, né rifiuta che l’adultera faccia vestitini per la di lui figlia con l’abito da sposa.

Nel frattempo arriva a Cassano in breve licenza Salvatore Santoro, l’altro fratello del tradito Antonio, e apprende subito, con dolore, quello che sta combinando Maria. Va dal Procuratore del re a Castrovillari, sperando che questi possa impedire il perdurare della vergogna, ma il Magistrato gli spiega che non può prendere alcun provvedimento a carico degli adulteri senza una formale querela. Allora Salvatore, mal soffrendo che l’onta arrecata al fratello ed al cognome di famiglia rimanga impunita, denuncia Giuseppe, milite della M.V.S.N., al federale fascista di Cosenza, il quale gli promette che si interesserà della faccenda. E se ne interessa davvero, radiando Giuseppe dal partito con la seguente motivazione: “ignorando le leggi della moralità della famiglia, dimostrava assoluta, pertinace mancanza di senso morale, rendendosi immeritevole di militare nei ranghi del partito” (ovviamente le regole valgono solo per i poveri cristi, visto che anche il duce è un adultero conclamato, ma nessuno si sognerebbe mai di espellerlo dal partito!).

Finita la breve licenza, Salvatore se ne torna al corpo di appartenenza, ma ci resta appena dieci giorni perché ottiene una licenza agricola e rientra a Cassano, sperando in cuor suo che il provvedimento del federale sia servito a far ragionare Giuseppe. La realtà, però, è un’altra: la tresca è divenuta più sfacciata! A questa notizia Salvatore non si dà pace e, nella sua interiore rivolta, chiede accoratamente al fratello Francesco come mai sia possibile tollerare lo sconcio… e come mai sia lecito a Giuseppe avere due mogli?!

Il 6 novembre 1941 Francesco e Salvatore Santoro vanno in un loro fondo a seminare il grano. Ad appena 500 metri da loro c’è Maria che sta raccogliendo olive con altre donne. Salvatore inizia a maledirla, struggendosi nel suo odio contro di lei, mentre Maria, sfrontata e provocatrice, si mette a canticchiare strofette allusive:

ho mangiato lupino, lascio Antonio e prendo Peppino…

ho nell’abitino il ritratto del mio Peppino…

ho mangiato lupini, faccio le corna agli Iripini (i Santoro hanno l’agnome di Iripini).

Intanto è arrivata la sera e, terminato il lavoro, Maria prende la via del ritorno con le sue compagne. Manca poco più di mezzo chilometro per arrivare a casa quando Maria risponde alle domande di due paesani incontrati sulla via. La sua voce viene udita dai suoi cognati che, anche loro, stanno tornando a casa e sono pochi metri più indietro. All’udirla, Salvatore ha il rigurgito della mal contenuta onta, ch’ella gli avea fatto, ingoiata amaramente per tutto il giorno ed in un improvviso accesso d’ira, armato di zappa così come si trova, si dà a corsa sfrenata nell’intento di raggiungerla. Anche Francesco corre dietro suo fratello nel tentativo di bloccarlo, ma si scontra con una delle donne che erano con Maria e cade rovinosamente a terra.

Maria se ne accorge e scappa gridando:

Focu miu!

Ma Salvatore è più veloce e dopo una cinquantina di metri la raggiunge e le tira un tremendo colpo di zappa alla nuca, dal basso in alto e da sinistra a destra, fratturandole la base del cranio e proprio in questo momento sopraggiunge Francesco, che non è riuscito a fermalo.

Maria muore sul colpo e Salvatore torna a casa dove, dismessi gli abiti civili, indossa la divisa da militare ed inosservato parte alla volta di Caserta per rientrare al corpo di appartenenza. Qui confessa il delitto ai suoi superiori.

In attesa di rintracciare l’assassino, i Carabinieri arrestano Francesco Santoro per correità in omicidio. Ma c’è un problema: Cassano Ionio dipende territorialmente dal Tribunale di Castrovillari e tutta la giurisdizione è già stata dichiarata zona di guerra ed essendo Salvatore Santoro un militare, non può essere perseguito da un Tribunale ordinario, quindi gli atti devono essere trasmessi al Tribunale Militare di Napoli, che, stranamente, si dichiara incompetente e rimanda il fascicoloi al Tribunale di Castrovillari. È il 16 dicembre 1941 e adesso si può procedere con l’istruzione del processo per omicidio premeditato in concorso. Le indagini dimostrano subito che Francesco Santoro non c’entra niente ed il 17 maggio 1942 viene prosciolto per non aver commesso il fatto, mentre Salvatore, eliminata l’aggravante della premeditazione, viene rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza per rispondere di omicidio semplice.

Il dibattimento si svolge in una sola udienza, quella del 27 luglio 1942, e la Corte, letti gli atti, ascoltati i testimoni e le richieste delle parti, osserva: non può dubitarsi che la zappa era arma micidiale ed assolutamente idonea per la consumazione dell’omicidio, ma in concreto l’unicità del colpo e la inconsueta direzione di esso – dal basso in alto e da sinistra a destra, più che a percuotere si volesse soltanto far strisciare la zappa sulla regione aggredita – fanno assai dubitare che la volontà del prevenuto fosse diretta a conseguire la strage della donna impudica e far pensare, piuttosto, ch’egli volesse farle passare la voglia di insistere nell’adulterio e di irridere gli “Iripini”. Di certo, se egli avesse decisamente mirato ad ucciderla, avrebbe dato il colpo dall’alto in basso col proposito di spaccarle il capo in due. Egli, contadino di mestiere, ben sapeva come si usa la zappa quando si debbono vincere prevedibili resistenze, così come l’ha sempre usata quando ha dovuto rompere terreno duro e restio. È però da inferire che se contro la cognata non fece tale uso della zappa, egli non dovette avere di mira di ucciderla, ma semplicemente di ferirla. L’evento andò oltre l’intenzione, per cui devesi accogliere la richiesta del Pubblico Ministero e degradare l’imputazione in omicidio preterintenzionale. Devesi pure accogliere l’altra richiesta relativa alla concessione delle attenuanti del particolare valore morale e dello stato d’ira. Nella fattispecie è manifesto che il prevenuto fu trascinato a delinquere da due motivi diversi, aventi la loro relazione in tempi diversi e su cause ben distanti: il primo è l’irrefrenabile impulso di lavare, con un atto cruento, dalla fronte del fratello tradito e da quella di tutti i familiari – sé compreso – il fango che l’adultera con la sua condotta vi aveva buttato; impulso che spinge la fiera gente di Calabria, dalla quale l’onore è profondamente sentito, fatalmente a reagire contro chiunque all’onore attenti; per detta gente la reazione non è un pregiudizio o un adattamento, ma un prepotente bisogno, di guisa che non sarebbe giustizia se non si riconoscesse che a motore del gesto del prevenuto non ci sia stato un motivo di particolare valore morale. Il secondo è lo stato d’ira determinato dalla sguaiata allegria della donna che, cantando a squarciagola volgari ritornelli coi quali innalzava un inno al suo turpe amore, sfidava la collera dei suoi cognati.

Detto ciò si può passare a determinare la pena da infliggere a Salvatore Santoro: partendo dal minimo di anni dieci e concesse le due attenuanti, la pena iniziale va ridotta ad anni 4, mesi 5 e giorni 10 di reclusione, oltre alle spese giudiziarie e quelle del suo mantenimento in carcere durante la custodia preventiva. Nessun risarcimento è dovuto alla figlia minore di Maria, per conto della quale il Pubblico Ministero si era costituito parte civile.[1]

È il 27 luglio 1942 e proprio oggi termina la prima battaglia di El Alamein, costata la vita a 17.000 soldati italiani.

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.