LA BRUTALITÀ IN PERSONA

È quasi buio quando, il 15 marzo 1951, Pasqualina Argondizzo di Mongrassano bussa alla porta di Palmina Mosciaro in via Serra di Leo. Ha con sé i suoi figli ed è disperata, ha bisogno di aiuto, se ne è andata di casa per l’ennesima volta perché né lei, né i suoi figli sopportano più i maltrattamenti e le botte di suo marito, Pasquale Petrone, e si è fatta convincere da suo figlio Carlo a denunciare il marito. Ha un occhio pesto e Palmina, che l’ha già ospitata in passato per qualche giorno, ma poi Pasqualina ha sempre ceduto alle promesse del marito ed è rientrata a casa, capisce subito, facendoli entrare.

– Che è successo stavolta?

– Voleva prelevare le tremila e cinquecento lire che sono sul libretto di Maria… io mi sono opposta al prelevamento perché non ce ne è bisogno e gli ho detto che i soldi bisogna tenerseli in serbo per il caso che fossero stati necessari e… – non c’è bisogno di entrare nel dettaglio, l’occhio pesto dice tutto.

Ciò che, invece, bisogna spiegare è che Pasquale Petrone è un uomo assetato di soldi da spendere nelle cantine per spegnere la sete di vino. E questo lo fa alle spalle di Pasqualina e dei figli, che fa lavorare fin da piccolissimi, andando a riscuotere personalmente tutte le misere paghe dei bambini. Come ci sono finite le 3.500 lire su un libretto postale? Semplice: Maria, 13 anni – ma lavora almeno da quando ne aveva 7 –, era  stata a servizio in casa del Brigadiere Giacomo Incorvaia, comandante della stazione dei Carabinieri di Mongrassano, il quale, conoscendo la pessima abitudine del padre di Maria, aveva imposto la condizione che la paga fosse versata su un libretto postale che Incorvaia avrebbe trattenuto presso di sé fino a quando Maria avesse lavorato in casa sua. In realtà Maria il 15 marzo 1951 dal Brigadiere non lavora più da un mese perché suo padre, non tenendo conto che Incorvaia e sua moglie avevano comprato dei vestiti a Maria e altri seminuovi glieli avevano regalati, pretendeva che le fossero comprati sei vestiti nuovi altrimenti non avrebbe più mandato sua figlia in quella casa. Incorvaia, per tutta risposta, licenziò Maria e trattenne il libretto, che poi consegnò a Pasqualina pochi giorni prima del 15 marzo. E potremmo raccontare anche di tutte le volte che Pasquale andò a riprendersi con la forza i figli che la madre aveva portato con sé, ovviamente non per affetto ma sempre per poterne riscuotere le paghe, o di quando picchiò selvaggiamente Carlo perché si era rifiutato di andare a rubare nell’orto di un vicino.

Ormai è ora di cena, Palmina apparecchia la tavola con quello che ha e tutti cominciano a mettere qualcosa sotto i denti, quando improvvisamente la porta di casa si spalanca ed entra Pasquale Petrone, visibilmente alterato. Cerca con lo sguardo suo figlio Carlo, di 18 anni, e quando lo vede, lo afferra per un braccio e gli dice:

Io andavo in cerca di te perché debbo vederti! – volendo dire che intende perquisirlo perché gli hanno detto che Carlo va in giro armato di rivoltella.

Mio figlio non ha nulla! – urla Pasqualina, correndo in difesa del figlio, ma Pasquale  trascina lei e Carlo verso la strada.

– In casa mia non devi permetterti di fare queste cose, lascialo se no vado dai Carabinieri! – interviene Palmina.

Pasquale nemmeno le risponde e allora esce di corsa per chiedere aiuto ai militari, ma si ferma un attimo davanti casa di Raffaele Staffa, da cui stanno uscendo Angelo Argondizzo, il fratello di Pasqualina, e le sue due figlie, per avvertirlo:

Accorrete che Pasquale Petrone sta ammazzando la moglie e i figli! – Palmina è così terrorizzata da raccontare un’azione che non ha visto e che teme stia per avvenire, ma ottiene l’effetto sperato di far accorrere gente.

Intanto Pasquale è riuscito a trascinare giù per la scaletta esterna della casa di Palmina sia Carlo che Pasqualina, che tiene stretto suo figlio per un braccio:

Pure tu mi vieni appresso? – le urla suo marito che, mentre tiene Carlo stretto per il petto, estrae dalla tasca un coltello e le vibra un colpo sul braccio destro. Pasqualina si accascia sull’ultimo gradino della scala senza un lamento. Proprio in questo momento arrivano Angelo Argondizzo e le figlie, vedono Pasquale e Carlo uno di fronte all’altro e Pasqualina seduta sulla scala, ma non sanno ancora della coltellata. Angelo dice:

Non vi vergognate di fare sempre lite e di fare ridere la gente?

Pasquale gli si avvicina, il coltello è nascosto, e come un fulmine lo colpisce sul labbro, spaccandoglielo in due, poi si lancia su Pasqualina per colpirla di nuovo; Angelo, incurante del sangue e del dolore, si interpone e si becca un’altra coltellata, in un fianco stavolta, ma non si ferma  e lo afferra da dietro per le spalle e i due cominciano una specie di balletto nello spiazzo davanti la casa. Temendo per la vita di suo padre, Caterina Argondizzo si getta nella mischia e cerca di trascinarlo via; questo consente a Pasquale Petrone di liberarsi della stretta e di accoltellarla ad una spalla e poi di allontanarsi nel buio. Nonostante le ferite, Angelo e sua figlia si preoccupano di andare a chiedere a Pasqualina se sta bene, perché sembra come intontita, immobile e in silenzio. Qualcuno fa un po’ di luce e solo adesso tutti si accorgono dell’enorme pozza di sangue ai piedi della donna che, appena qualcuno la scuote, si affloscia a terra come un sacco vuoto. Dalla ferita sta zampillando il sangue, senza che nessuno finora se ne sia accorto. Pasqualina viene portata a casa e adagiata a terra su una coperta in attesa che arrivi il dottor Domenico Mangia.

Il polso è assente, il cuore presenta toni frequenti e piccoli, classici nei casi di forte perdita di sangue, appunto perché il cuore è costretto a pompare a vuoto. Il medico le inietta subito  due dosi di canfora e sutura con graffette la ferita, dalla quale tuttavia non esce più sangue.

– Andate a comprare subito delle soluzioni fisiologiche glucosate – ordina ai presenti. Il problema è che a Mongrassano non ci sono farmacie e bisogna andare a San Marco Argentano e, correndo come pazzi con una macchina ci vuole più di mezzora per poter iniziare a praticare due ipodermoclisi. Poi il dottor Mangia crede, opportunamente, di far portare Pasqualina in ospedale a Cosenza, così da poter ricucire l’arteria omerale recisa dalla coltellata e causa della imponente emorragia. Una volta caricata Pasqualina in una automobile e partita per l’ospedale, Mangia si occupa degli altri due feriti che per fortuna non sono gravi.

Pasqualina in ospedale non arriverà mai perché dopo aver percorso una decina di chilometri, muore e viene riportata in paese.

Il Brigadiere Incorvaia non perde tempo ed interroga figli, parenti e vicini della povera Pasqualina e del suo assassino. Viene fuori uno spaccato di violenze quotidiane protrattesi per anni, senza che nessuno avesse tentato di porvi fine con una denuncia. Nemmeno Incorvaia e chi lo precedette.

Mio cognato ha sempre maltrattato la moglie per i più futili motivi. È stato sempre un fannullone ed invece di lavorare sfruttava il lavoro delle figliuole, che facevano le domestiche. Prima che scadesse il mese, egli usava recarsi dalle persone ove le figlie prestavano servizio e si faceva consegnare il denaro loro spettante, denaro che poi spendeva nelle cantine. La domenica delle Palme mia sorella, verso le 23,00, venne a casa mia e mi disse che era stata costretta ad andarsene dalla campagna perché il marito l’aveva picchiata e infatti notai che aveva un occhio pesto. Poi mi pregò di intervenire presso il marito perché voleva riportare in campagna i figli, che se ne erano andati da casa con lei. Mi parlò del fatto che il marito voleva prelevare il denaro dal libretto e disse che si era opposta e per questo l’aveva picchiata, quindi mi consegnò il libretto. Io poi intervenni e riuscii a calmare Pasquale.

Fin da bambino sono stato sempre mandato a fare il guardiano di maiali e mio padre riscuoteva il mio salario per andarlo a spendere nelle cantine. I giorni che restavo a casa ho dovuto sempre assistere alle continue liti che faceva mio padre che, quasi ogni giorno, picchiava mia madre. Fui io a suggerire a mia madre, dopo gli ultimi fatti, di dividersi da mio padre e di denunziarlo ai Carabinieri perché una simile vita non poteva più continuare. Mio padre picchiava spesso anche me perché mi ordinava di andare a rubare nei fondi vicini ed io non volevo ubbidire a tali suoi ordini.

Mio padre per un nonnulla picchiava mia madre e noialtri. Mio padre era solito dire che doveva ucciderci e spesso ci minacciava mettendoci il coltello alla gola. Ricordo che una volta, alcuni anni fa, mio padre stese mamma su una cassa e le puntò contro una rivoltella dicendo: “O mi ammazzi o ti ammazzo”. Quella sera mio padre mi disse che avrebbe dovuto uccidere mia madre e i miei fratelli.

Mio padre è stato sempre un ubriacone. A noi ci lasciava in casa o nei campi a lavorare ed egli andava in giro per le cantine… Mia madre voleva che io mettessi da parte il mio guadagno, in modo da trovarmi un gruzzoletto per quando ne avessi bisogno, ma mio padre si è sepre opposto. Mio padre picchiava spesso mamma per i più futili motivi e non risparmiava le busse a noi figli. Mia madre e mio padre si divisero diverse volte, appunto per i continui maltrattamenti che doveva subire e se ne veniva in paese ma poi dopo dieci o quindici giorni ritornava da mio padre, credendo alle di lui insistenze. A me ed a mio fratello Carlo, mio padre ha spesso detto di andare a rubare nei fondi dei vicini. Noi non lo ubbidivamo ed egli ci picchiava. Ricordo che a Carlo, per questo motivo, ruppe sulle spalle un manico di tridente. La mattina dopo la morte di mamma, Zu Franciscu venne a portarci un po’ di caffè e raccontò che il giorno precedente mio padre l’aveva invitato a venire a Mograssano per convincere mamma a prelevare i soldi dal libretto e che al suo rifiuto gli aveva detto: “Allora ci vado io solo e faccio la festa completa!”. L’estate scorsa sono stata circa un mese in campagna, dato che avevo dovuto lasciare il servizio avendo subito un intervento chirurgico di appendicite. Io non sapevo legare i mazzi di grano perché non l’avevo mai fatto, ma mio padre non volle sentire ragione, mi picchiò e mi legò per i capelli ad un salice. Dopo un quarto d’ora venne a liberarmi mio fratello Carlo

Sono la madre di Pasquale Petrone e sono qui per deporre a carico di mio figlio. Per illustrare la figura morale di mio figlio, dichiaro che fin dall’infanzia è stato sempre un pessimo soggetto, poco amante del lavoro e snaturato anche verso i genitori. Mio figlio mi ha più volte picchiato trascinandomi come un cane per le campagne. Anche mio marito, ora deceduto, ha dovuto subire delle percosse ed ingiurie. È un individuo dedito al vino, ozioso e vagabondo, un assiduo frequentatore di cantine ed in conseguenza di ciò, quando si ritirava a casa per futili motivi percuoteva la moglie, ora uccisa. Voglio augurarmi che la giustizia saprà dare la punizione che mio figlio merita per il delitto consumato.

Pasquale Petrone si costituisce in carcere il 27 marzo e dopo qualche giorno viene interrogato dal Giudice Istruttore. Nega di essere dedito al vino, di aver mai maltrattato e picchiato moglie e figli, e dice che con Pasqualina ha solo litigato qualche volta per futili motivi e che per questo se ne andava da casa, per poi tornare dopo qualche giorno. Poi racconta le circostanze, del tutto banali, che avrebbero scatenato la lite fatale:

Siccome mio figlio Carlo da alcuni giorni non si era ritirato a casa ed io temevo che egli, il quale era in possesso di una rivoltella, potesse fare male a qualcuno La sera del 22 marzo, dopo averlo cercato inutilmente in paese, mi recai nella casa di Palmina Mosciaro, dove sapevo che si trovava ospite mia moglie con i figli. Infatti, appena giunsi in detta casa, li trovai accanto al fuoco a consumare la cena. Salutai e mi diressi verso Carlo allo scopo di togliergliela. Lo afferrai per la giacca dal di dietro e lo frugai in tasca, ma il ragazzo mi sfuggì dalle mani correndo nell’altra stanza. Mia moglie e gli altri figli mi saltarono addosso; mia moglie mi afferrò per i capelli, Palmina si mise a gridare dicendo di uscir fuori perché le avevo portato lo scompiglio in casa. Carlo, fermo sulla soglia dell’altra stanza, mi puntò contro la rivoltella facendo scattare quattro o cinque volte il grilletto, senza che si verificasse, per fortuna, alcuna esplosione di colpi. Vedendo ciò dissi: “Calma, calma che non è successo nulla! Vai a chiamare tuo fratello che con lui potremo ragionar meglio!”. Dissi così perché avevo visto entrare Angelo Argondizzo nella casa del vicino Raffaele Staffa. Per ragioni di prudenza uscii fuori e Palmina chiamò Angelo, che sopraggiunse, subito seguito dalla figlia Caterina. Angelo, non appena si avvicinò a me, incominciò ad assestarmi schiaffi e contemporaneamente tutti gli altri, meno Palmina che si allontanò per chiamare i Carabinieri, mi furono addosso. Io fui costretto, per difendermi, ad inginocchiarmi e quando mi vidi, come suol dirsi in dialetto, “accappottato” estrassi dalla tasca un piccolo temperino e cominciai ad agitare il braccio destro per svincolarmi e non so chi colpii

– Avete subito delle lesioni?

Non riportai lesioni perché nessuno degli aggressori era armato, tranne mio figlio Carlo il quale teneva sempre la pistola in mano e faceva tentativi per farla esplodere senza però riuscirci. Appena potetti me la diedi a gambe e rimasi latitante

– I vostri figli e tutti i testimoni affermano esattamente il contrario.

La verità è quella che ho detto io. I miei familiari sono tutti contro di me e han dato una versione del tutto differente dei fatti.

– Ma se non avete trovato addosso a vostro figlio la rivoltella, nemmeno noi gli abbiamo trovato armi, come è possibile che tentò di spararvi?

– Non ebbi modo di frugargli nelle tasche perché mia moglie mi spinse via, ma sapevo che era in possesso di una pistola per averlo saputo da Vittorio Puzzo, fratello del datore di lavoro di Carlo, il quale mi disse che mio figlio, sparando dei colpi a Cervicati, stava uccidendo un ragazzo.

Ma Ferdinando Puzzo, il datore di lavoro di Carlo, lo smentisce categoricamente:

Escludo che mio fratello Vittorio abbia potuto riferire a Pasquale Petrone che il figlio Carlo aveva una pistola e con questa stava per uccidere un ragazzo perché mio fratello è stato colpito anni fa da encefalite letargica e perciò non esce mai di casa sua, non essendo in grado di muoversi. Inoltre non connette bene e non si esprime molto bene. Carlo si può dire che sia cresciuto in casa mia ed io lo conosco per un bravo ragazzo.

D’altra parte, che sia un violento lo attesta anche il suo certificato penale, dove gli inquirenti trovano annotate condanne per furto, lesione personale con arma, lesioni in persona degli ascendenti, porto abusivo di coltello e rivoltella, ubriachezza.

I reati che gli vengono contestati e per i quali il 27 giugno 1951 ne viene chiesto il rinvio a giudizio, sono pesantissimi: maltrattamenti in famiglia, lesioni continuate aggravate, porto abusivo di coltello di genere vietato, omicidio aggravato.

Ma il Giudice Istruttore dubita sulla reale volontà omicida di Pasquale Petrone e, ferme le altre imputazioni, modifica il reato di omicidio aggravato in omicidio preterintenzionale aggravato ed il 13 luglio 1951 lo rinvia al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza.

Il dibattimento comincia il 3 dicembre 1951 e dopo due giorni la Corte emette la sentenza: colpevole dei delitti di maltrattamenti, di omicidio preterintenzionale aggravato per il rapporto di parentela e di lesioni volontarie semplici in pregiudizio di Angelo Argondizzo ed esclusa l’aggravante dell’arma per i reati di omicidio preterintenzionale e lesioni, con le attenuanti generiche per questi ultimi due delitti e con l’aggravante per tutti i reati della recidiva specifica reiterata, la Corte lo condanna alla pena di anni 17 di reclusione, oltre alle pene accessorie, spese e danni. La Corte dichiara non doversi procedere contro lo stesso Pasquale Petrone per i delitti di lesioni semplici, esclusa l’aggravante dell’arma, in persona di Caterina Argondizzo poiché l’azione penale non poteva essere proseguita per mancanza di querela e lo assolve dalla contravvenzione di porto abusivo di coltello per insufficienza di prove.

Il 4 dicembre 1953, la Corte d’Appello di Catanzaro dichiara le attenuanti generiche concesse prevalenti sull’aggravante del rapporto di coniugio e riduce la condanna ad anni 12 di reclusione.

Pasquale Petrone ricorre per Cassazione, ma il 16 marzo 1954, non avendo presentato i motivi a sostegno del gravame, la condanna diviene definitiva.[1]

[1] ASCS, Processi Penali.