L’AFFONDAMENTO DEL “CAGLIARI”

È la mezzanotte del 5 maggio 1941. Nel porto di Palermo, dopo aver caricato 962 tonnellate di agrumi contenuti in 24.044 cassette, il piroscafo Cagliari, di proprietà della Società Anonima di Navigazione “Tirrenia”, ha appena mollato gli ormeggi diretto al porto di Torre Annunziata, sotto una bellissima, gibbosa luna crescente. Naviga senza scorta, nonostante il Mediterraneo sia infestato da sommergibili britannici alla ricerca di prede nemiche, ma è discretamente armato con mitragliatrici pesanti e un cannoncino a poppa a cui sono adibiti 12 militari della Regia Marina in aggiunta al personale di bordo, 40 in tutto compresi i 3 Ufficiali di Bordo, i 3 Ufficiali di Macchina e 1 Ufficiale Marconista.

La navigazione procede regolarmente seguendo le istruzioni ricevute, agli ordini del Capitano di Lungo Corso Vincenzo Piraino, 40 anni di servizio alle spalle ed una decorazione al Valor Militare ricevuta nella Prima Guerra Mondiale per aver salvato la nave di cui era Secondo Ufficiale dall’affondamento a causa dell’attacco di un sommergibile austriaco.

Poi, nel pomeriggio del 6 maggio, superato il Golfo di Gioia il tempo si fa instabile, il vento gira da da Nord-Ovest e diviene teso, il mare è mosso da onde lunghe.

Ore 18,40, il Cagliari è al traverso di Marina di Fuscaldo, a circa 4 miglia dalla costa. Antonino Messina, Ufficiale di Guardia dalle ore 16,00 alle 20,00, è sul Ponte di Comando e, dopo aver fatto l’accostata sul rilevamento di Paola secondo le rotte prescritte, coadiuvato da tutto il personale di guardia, sia civile che militare, presta la sua attenzione alla strumentazione di bordo.

– Stiamo mantenendo la velocità di 10 nodi? – chiede il Capo Macchinista Giovanni Follari appena entrato nel Ponte di Comando.

– Si, tutto regolare.

– Bene, allora verso mezzanotte saremo al traverso di Capo Palinuro… – osserva soddisfatto, poi esce e si dirige verso la sua cabina dalla parte di sottovento, lato dritta.

Messina e gli altri continuano il proprio servizio, ma qualcosa che sembra un urto presso il boccaporto N.2 li fa sobbalzare; non hanno nemmeno il tempo di guardarsi l’un l’altro che una tremenda esplosione, seguita da una imponente colonna d’acqua colma di rottami li investe. Cercano di rialzarsi, ma una seconda esplosione a poppa, ancora più potente della prima, li fa cadere di nuovo. Poi un’altra colonna d’acqua, altri rottami e una nuvola di vapore bollente che oscura completamente la vista. Data l’impossibilità di vedere, Messina si avvia quasi automaticamente verso la “passeggiata” (il ponte lancia) e soltanto presso la lancia di poppavia, lato dritto, vede il marinaio Mariano Maragliolo col quale, avendo scorto nella nebbia i paranchi della lancia, cercano di metterla a mare ma, constatata l’impossibilità dell’operazione ed il rapido affondamento della nave poiché il livello dell’acqua ha già oltrepassato gli oblò, Messina ordina al marinaio di buttarsi in mare, mentre lui passa ancora qualche secondo cercando di arrivare verso la poppa per trovare un altro mezzo di salvataggio. Niente da fare, meglio buttarsi in acqua prima di essere risucchiato negli abissi dal piroscafo ormai quasi a picco.

In quegli stessi momenti Follari si trova all’altezza della cabina delle trasmissioni radio telegrafiche e viene investito dalla colonna d’acqua che lo fa cadere e gli sbattere violentemente il capo contro la paratia; è ancora stordito quando arriva la seconda, più terribile esplosione, seguita dalla colonna d’acqua e dalla nuvola di vapore bollente. Riesce ad aggrapparsi al passamano e cerca di raggiungere le scale di poppavia, ma non gli riesce per le condizioni in cui si trova, ormai, la coperta e allora afferra un salvagente, lo indossa e vaga tra i rottami senza sapere bene cosa fare, quando incontra il Capitano Piraino:

Salvati perché la nave affonda! – gli urla e Follari ubbidisce buttandosi a mare.

Armando Ciauri è l’Ufficiale Marconista ed alla prima esplosione cerca subito di trasmettere un messaggio di soccorso, ma l’impianto principale non funziona più, quindi mette rapidamente in moto il motorino dell’apparato ausiliario, proprio mentre arriva la seconda esplosione. L’apparato funziona irrazionalmente e Ciauri intuisce che manca il collettore d’onde. Esce dalla cabina e constata che l’antenna è crollata. In questo momento sopraggiunge il Capitano Piraino che gli ordina di mettersi in salvo. Afferrato e indossato un salvagente, Ciauri si butta a mare senza avere avuto la possibilità di lanciare l’allarme via radio.

Carmelo Picciotto è il Secondo Ufficiale e alle 18,20 sta riposando nella sala musica sul ponte lancia. È qui che lo sorprendono le due esplosioni e le masse d’acqua che lo trascinano in prossimità della lancia di servizio, posta in prossimità del Ponte di Comando, che i timonieri Michele Loiacono e Umberto Marsiglia stanno già calando in acqua, ma nell’ansia di fare in fretta rischiano di farla schiantare in acqua. Picciotto prende il comando delle operazioni e la lancia arriva docilmente sul mare, ormai arrivato a forza 4. I tre salgono a bordo e raccolgono anche Ciauri, Follari ed il Giovanotto di 2° Vincenzo Scognamiglio, mentre la lancia comincia ad imbarcare acqua sia per il mare mosso, che per il cattivo stato di manutenzione ma, a parte un paio di zattere di salvataggio, è l’unica imbarcazione che l’equipaggio riesce a calare in acqua perché tutte le altre sono state distrutte dalle esplosioni.

Giovanni Leone è il Secondo Ufficiale di Macchina e, terminato il suo turno di servizio alle 18,00, va nella saletta vicino al boccaporto della stiva N. 3 per consumare un pasto. Alla prima esplosione si alza e va verso l’uscita della sala ma viene investito dalla seconda esplosione, dalla colonna d’acqua e dalla nuvola di vapore bollente. Il pavimento della saletta crolla e Leone resta impigliato fra il rottame delle travi. Fortunatamente riesce a liberarsi e, seppure ferito, si mette in salvo lanciandosi in mare, dove si aggrappa ad una gabbia raccogli cavi e comincia a fare segni e lanciare urla disperate agli uomini a bordo della lancia, i quali non lo sentono, né lo vedono, distanti una sessantina di metri.

Alle 18,20 i militari della Regia Marina sono ai loro posti ed alla prima esplosione cercano di caricare le armi per rispondere al fuoco di eventuali nemici, ma la seconda esplosione li sbalza dai posti assegnati e così decidono di mettersi in salvo lanciandosi in mare, dove trovano una zattera di salvataggio e riescono a salirci sopra.

Alle 18,20 il Marò S.M. Marino Varagnolo è di guardia alla mitraglia e scruta il mare col cannocchiale in direzione della rotta della nave, senza notare nulla di anormale. Alla prima esplosione si leva la cappotta e corre verso la lancia, dove trova il Secondo Ufficiale Picciotto che gli ordina di buttarsi in acqua. Il Marò esegue l’ordine e riesce a raggiungere una zattera, mettendosi in salvo.

Al momento della prima esplosione il Cameriere Pietro Sampino si trova nella saletta Ufficiali e corre verso l’uscita, ma la seconda esplosione, seguita dalla nuvola di vapore bollente gli impedisce di trovare la porta. Quando, finalmente, ci riesce, corre a poppa e si butta in acqua, ma non riesce a raggiungere la zattera più vicina e allora nuota, tra le onde sempre più alte e con la speranza di non essere risucchiato negli abissi della nave che sta per affondare, verso un’altra zattera più lontana, riesce a raggiungerla e a salirci sopra.

Alle 18,20 il Capitano Piraino è in Sala Nautica ed alla prima esplosione vede schiantarsi la bussola di rotta e la controplancia. Alla seconda esplosione a poppa capisce subito che il locale macchine è stato distrutto perché alla nave è impedita qualsiasi manovra ed è immobile, avvolta in una densa nube di vapore che impedisce la visibilità. Esce dalla sala e comincia a girare per la nave ed ordinare al personale di mettersi in salvo perché la nave ha cominciato ad affondare rapidamente. Quando non vede più nessuno a bordo, capisce che è il momento di cercare di mettersi in salvo e si butta in acqua. Qui viene raccolto dalla lancia di servizio, già a pieno carico, ma il Capitano ordina di cercare qualcuna altro da far salire a bordo e così vengono presi a bordo i fuochisti Francesco Aiello, gravemente ustionato, e Domenico Frulio, anch’esso ferito. Poi scorge il Mastro di Casa Francesco Dragotto, abbrancato ad un remo senza dare segni di vita, e gli lancia un salvagente, urlandogli:

– Prendi! Arriviamo subito!

In questo frattempo arriva stremato accanto alla lancia Antonino Messina, che viene issato a bordo, poi Piraino guarda in direzione di Dragotto per girare la lancia ed andarlo a prendere, ma questi, forse colpito da improvviso malore, si inabissa mentre sta per afferrare il salvagente.

La stessa scena straziante si sta svolgendo accanto ad uno zatterone, dal quale hanno lanciato una fune al Nostromo Stefano Ruggero il quale, mentre sta per afferrare la cima, abbassa la testa e scompare tra le onde.

In questi momenti tragicamente concitati, Piraino ha la lucidità per riuscire a fare un rapido, seppure approssimativo, calcolo e stabilire che tra il personale a bordo della lancia e quello sui due zatteroni dovrebbero essere tutti in salvo, ma sa perfettamente che non può essere così perché la seconda esplosione ha distrutto la sala macchine ed è praticamente impossibile che chi si trovava lì dentro può essere rimasto vivo e allora ordina di allontanarsi dalla nave che sta scomparendo tra i flutti, dato che c’è il rischio di essere risucchiati nel vortice che si sta creando. Dalla prima esplosione sembra essere trascorsa un’eternità, ma sono passati appena quattro minuti.

Affondata la nave e risaliti in superficie molti rottami e casse di agrumi, Piraino ordina di tornare sul posto per verificare che non ci sia più nessuno da recuperare e quindi, con il buio che incombe, fa mettere la prua verso la spiaggia di Fuscaldo, sperando che la corrente porti in salvo lui e gli altri 12 occupanti della lancia che imbarca acqua e rischia di affondare, quella lancia che potrebbe contenere al massimo cinque persone, senza farli schiantare sugli scogli.

Al momento delle esplosioni, Giuseppe Pollola, capo barca di Fuscaldo, è sulla spiaggia e vede la nave. Vede anche le colonne d’acqua che si innalzano e dopo qualche secondo il rumore lontano delle esplosioni. Corre a casa, è a poche decine di metri, prende il binocolo e lo punta in direzione della nave, assistendo impotente alla scena dell’inabissamento. Vede anche due piccole imbarcazioni alla deriva e capisce che si tratta di un naufragio. Corre a chiamare i suoi uomini ed in fretta e furia forma una squadra di soccorso e, nonostante il mare agitatissimo perché spira vento di ponente – libeccio che è quello che ostacola fortemente l’approdo alla terra ferma, mette in mare la sua barca e parte verso il mare aperto. Poco dopo, sfidando il mare, partono altre due barche di soccorso.

Le tre barche impiegano circa due ore prima di imbattersi nella lancia dei naufraghi, stremati, infreddoliti, feriti. Pollola invita a salire nella sua barca il Capitano Piraino, ma questi rifiuta, ordinando che prima di lui debbano salire i feriti più gravi, poi man mano tutti gli altri, lui per ultimo. Pollola gli da i suoi vestiti ed il Capitano ordina alle altre due barche di andare a soccorrere il resto dell’equipaggio alla deriva sulle zattere, indicando anche la direzione da prendere, ma i pescatori lo rassicurano dicendogli che quello è il loro mare e sanno perfettamente dove andare a cercare le zattere. A questo punto le tre barche di soccorso si dividono: quella di Pollola torna a terra con i naufraghi, le altre due vanno alla ricerca degli altri superstiti.

È ormai notte fonda quando rientrano le altre due barche con a bordo altri 28 naufraghi, tanti quanti erano sulle zattere che, sommati ai primi 13 fanno 41. I conti non tornano, a bordo del Cagliari c’erano, tra personale di bordo e militari, 52 uomini, dove sono finiti gli altri 11?

2 sono sicuramente annegati, più o meno tutti i superstiti hanno visti con i loro occhi il Mastro di Casa Francesco Dragotto ed il Nostromo Stefano Ruggero sparire tra i flutti, quindi all’appello ne mancano 9. Bisogna ripartire per andarli a ripescare vivi o morti. Ed è mattina quando le barche trovano il Secondo Ufficiale di Macchina Giovanni Leone, ferito e aggrappato alla gabbia reggi cavi ed il Cameriere Pietro Sampino, stremato sopra una zattera. Viene ripescato anche il cadavere del Marinaio Pasquale Dentice, poi nessun altro. Intanto dal vicino comune di Acquappesa arriva la notizia che a poca distanza dalla spiaggia è stato rinvenuto il cadavere del Primo Ufficiale di Macchina Antonino Sanfilippo. E gli altri 6? Nessuna notizia, il mare ed il Piroscafo Cagliari non restituiranno mai i corpi di Francesco Dragotto, Mastro di Casa; Francesco Bellezza Borriello, Elettricista; Giuseppe Lambro, Fuochista; Giacomo Lombardo, Fuochista; Rosario Benenati, Carbonaio; Antonio Cama, Marinaio.

A Fuscaldo tutti i naufraghi vengono amorevolmente assistiti dalla popolazione, ma tra loro ci sono 12 feriti, dei quali 2 hanno riportato solo lievi lesioni che richiedono una semplice medicazione, mentre gli altri 10 vengono portati all’Ospedale di Cosenza a bordo di un treno speciale. Qui le condizioni del Fuochista Francesco Aiello e del Carbonaio Antonio Costanzo appaiono subito drammatiche per le gravissime ustioni riportate e possiamo solo lontanamente immaginare le loro inumane sofferenze patite anche per la lunga permanenza nell’acqua salata. Purtroppo Costanzo muore dopo appena due ore dal ricovero ed Aiello l’8 maggio. Gli altri se la cavano in un mese al massimo.

Il bilancio definitivo dell’affondamento del Piroscafo Cagliari, colpito da due siluri lanciati da un sommergibile inglese, è di 5 morti accertati, sei dispersi e 10 feriti.

La storia potrebbe terminare qui, ma lo stupido e ignorante zelo dei militari fascisti ci costringe a continuare perché il 28 novembre 1941, nei locali della Direzione Marittima di Reggio Calabria si riunisce la Commissione d’inchiesta per i sinistri marittimi, costituita a norma del R.D. 17 settembre 1925 n. 1819 e successive modificazioni, che è chiamata ad esaminare il siluramento del Piroscafo Cagliari e che all’unanimità, attraverso le dichiarazioni dei superstiti, arriva alla conclusione che il Comandante del Piroscafo “Cagliari”, Capitano di Lungo Corso Piraino Vincenzo, non abbia, dopo il siluramento, assolto in pieno i suoi doveri di Comandante per avere omesso, pur avendone avuta la possibilità, di dirigere le ricerche per rintracciare e raccogliere tutti i naufraghi che erano rimasti a mare in evidente pericolo. Tecnicamente si tratterebbe di abbandono di persone incapaci (art. 591 C.P.) per avere, presso la spiaggia di Fuscaldo il 6 maggio 1941, quale Capitano del piroscafo italiano Cagliari, in occasione dell’affondamento per siluramento dello stesso, abbandonato le operazioni di ricerca dei naufraghi da lui lasciati in mare nella impossibilità di provvedere da soli alla salvezza in condizioni di pericolo, mentre aveva tassativo dovere di eseguire tali ricerche, trattandosi di persone dell’equipaggio affidate al suo comando e alla sua cura, delle quali alcune di esse furono tratte in salvo il giorno dopo e di altre si recuperarono i cadaveri nei giorni seguenti. Più o meno la stessa accusa mossa al Generale Umberto Nobile in occasione della caduta del dirigibile Italia vicino al polo Nord.

Gli atti della Commissione vengono inviati alla Procura del re di Cosenza, ma l’attività investigativa viene sospesa per la recrudescenza della guerra, è il 19 aprile 1943, e riprendono solo a guerra finita, il 7 agosto 1946, quando arriva in Procura un memoriale del Capitano Piraino, col quale contesta punto per punto la relazione della Commissione. Così scopriamo che, a prescindere dalle condizioni fisiche in cui si trovava Piraino al momento del suo trasbordo sulla barca dei pescatori fuscaldesi, che gli impedivano di tornare indietro per dirigere le ricerche degli altri naufraghi, i Commissari ignoravano completamente le regole del Codice di Navigazione: nessun obbligo sussiste per il Comandante della nave inabissata di soccorrere i naufraghi della stessa nave! L’obbligo esiste solo per il Comandante della nave soccorritrice, che ha l’obbligo di prestare assistenza e soccorso, come prescritto dagli articoli 489 e 490 del Codice di Navigazione ed il soccorso deve essere prestato senza grave rischio per la nave soccorritrice, del suo equipaggio e dei suoi passeggeri.

Affondata la nave dopo che ne avevo disposto l’abbandono, cessarono i miei obblighi di assistenza e salvataggio sanciti dal Codice di Navigazione ed io divenni un naufrago, avente parità di diritti e di doveri con tutti coloro che cercavano di trarsi in salvo dal disastro. La mia opera di soccorso è stata compiuta soltanto in adempimento di una obbligazione morale di umana solidarietà, ma non di una obbligazione giuridica e non può, quindi, essere soggetta a sindacato di sorta e tanto meno farmi ritenere colpevole di un inesistente reato per l’omissione di atti che non avevo alcun dovere di compiere. Escluso che nella mia qualità e per le mie funzioni di Comandante del piroscafo Cagliari possa trovare applicazione nei miei confronti l’articolo 591 C.P., resta da esaminare se come persona i fatti che mi si intenderebbe attribuire rientrino nelle disposizioni contenute nell’articolo suddetto. Anche tale ipotesi è da scartare. L’articolo 591 C.P. punisce “chiunque abbandoni una persona minore di anni 14, ovvero una persona incapace per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia o per altra causa, di provvedere a sé stessa e della quale abbia la custodia”. Ma l’articolo 343 N.1 del Codice di Navigazione stabilisce che il contratto di arruolamento si risolve di diritto in caso di perdita totale della nave determinata da naufragio o di altro sinistro della navigazione, il che esclude, per evidenti ragioni di logica, che il Comandante possa avere degli obblighi di cura e di custodia dell’equipaggio in virtù di un contratto che più non esiste. Non posso esimermi dal rilevare, con profonda amarezza, quanto sia diversa la visione dei fatti e il giudizio su di essi, a seconda che si esaminino a distanza di tempo tra le comode mura di una stanza, ovvero a contatto diretto ed immediato con la dura realtà, quando in pochi secondi debbono essere prese decisioni supreme per la vita propria e degli altri.

Ineccepibile!

Ormai l’Italia è diventata una Repubblica ed il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Cosenza, esaminati tutti gli atti, chiede al Giudice Istruttore di chiudere l’istruttoria e dichiarare non doversi procedere contro Piraino Vincenzo in ordine al reato di abbandono di persone incapaci ascrittogli, trattandosi di persona non punibile perché il fatto non costituisce reato. È il 20 novembre 1947.

Il 12 gennaio 1948 il Giudice Istruttore accoglie la richiesta della Procura e mette la parola fine a questa vicenda.[1]

Ah! Dimenticavo: due settimane dopo il siluramento e l’affondamento del piroscafo Cagliari, a circa 2 chilometri dalla spiaggia di Cetraro, vengono ripescati due cadaveri, solo uno dei quali identificato per quello del Motorista Raffaele Borriello, imbarcato sul piroscafo Sturla, silurato e affondato l’8 giugno (due giorni dopo il Cagliari) nelle acque di Maratea.[2]

[1] ASCS, Processi Penali.

[2] ASCS, Processi definiti in Istruttoria.