IL CORPICINO

La mezzanotte del 2 giugno 1922 è passata da un paio di ore, quando Aspasia Maturi, cinquantaduenne gentildonna napoletana trapiantata a Tortora, viene svegliata dalle urla della sua domestica Maria Manzi, che dorme nella stanza accanto. Preoccupata, donna Aspasia si alza e va a vedere:

– Che c’è, che hai?

– Mi sento male… una indigestione…

– Un po’ di caffè ti farà bene, alzati che ti aiuto a prepararlo… – dopo un po’, però, donna Aspasia vede che le sofferenze di Maria non cessano e comincia ad avere dei sospetti sulla reale causa dei dolori, così continua – è meglio se te ne vai a casa di tua madre.

– No… non voglio, è notte…

– Qui non puoi stare in queste condizioni, vestiti che ti accompagno io.

– No! voi non dovete accompagnarmi, vado da sola!

Sono ormai le tre quando Maria esce dalla casa di donna Aspasia e si incammina verso quella di sua madre. Non vista, però, la padrona la segue nel buio insieme ad un suo nipote per assicurarsi che non vada da qualcun altro. E quando sente la voce di Maria che parla con altre persone di famiglia, tranquillizzata, torna a casa a dormire.

Verso mezzogiorno la madre di Maria bussa alla porta di donna Aspasia.

– È qui mia figlia?

– Cosa? Stanotte è tornata a casa tua, io stessa l’ho sentita parlare con voi familiari, qui non c’è!

– A casa mia? A casa mia non è venuta, comunque io non voglio sapere niente di cosa fa, di dove va e di quanto le può accadere! – termina stizzita, poi gira i tacchi e se ne va.

Donna Aspasia è molto irritata e manda a chiamare il Sindaco del paese per raccontargli questa strana storia e per scaricarsi di ogni eventuale responsabilità, visto che responsabilità non ne vuole nemmeno la madre di Maria.

Intanto è opportuno dire che, avendo quasi trent’anni, Maria non deve dare conto a nessuno, ma è altrettanto opportuno dire che negli ultimi tempi a Tortora si sono sparse strane voci sulla sua moralità perché pare che abbia cominciato a concedere i propri favori a chi più le piace, ma sono certamente solo voci, si sa come vanno queste cose.

Va bene tutto questo, ma Maria che fine ha fatto? Dopo un paio di ore trascorse a casa della madre, se ne va dicendo che andava a raccogliere delle frasche per accendere il forno e si incammina da sola verso la contrada Pietracuzza, dove la assalgono di nuovo gli stessi dolori lancinanti della notte. Maria lo sa cosa sono quei dolori, lo sa perché è incinta e sta per partorire, così cerca un ricovero. Sa che lì vicino c’è un ovile abbandonato e semidiroccato. Ci va, entra e si stende a terra con le gambe larghe. Dopo qualche ora di attesa con i dolori che sono sempre più frequenti e più forti, mette alla luce un bambino. Poi deve accadere qualcosa nella sua mente, un momento di emozione e di abbattimento per la sua condizione ed il suo onore ormai compromessi. Solleva quel corpicino da terra, esce dall’ovile e vede un grosso albero di ulivo a pochi metri. Ci va. A poca distanza c’è un muro a secco, posa il bambino e si mette a scavare una buca a mani nude, poi prende il figlio della colpa, lo mette nella buca, lo seppellisce e se ne va quando è ormai pomeriggio. Era vivo? Era morto? Ormai non ha importanza per Maria, la scelta l’ha fatta e l’ha messa in pratica.

Mentre torna verso il paese si accorge di avere la gonna, le gambe ed i piedi sporchi di sangue. Vede sulla strada sua sorella con una paesana e le ferma:

– Ohi… guardate qua – dice indicando il sangue che la imbratta – proprio ora mi dovevano venire le cose… vammi a prendere una brocca di acqua che mi lavo, io mi vergogno… – sua sorella, che non sospetta niente, va in una casa vicina e le porta l’acqua. Maria si sciacqua le gambe e i piedi, ma ora c’è il problema della gonna e sua sorella è costretta a togliersi il sottanino che Maria mette al posto della gonna, poi convince l’altra donna a darle il grembiule, che sostituisce col suo, anche sporco. Quindi tutte e tre tornano in paese e Maria va a casa di donna Aspasia per riprendere il servizio, ma la padrona non vuole nemmeno riceverla, anzi manda subito a chiamare il Sindaco, che arriva subito e la porta al Municipio per sapere che cosa le è successo. E Maria, dopo qualche resistenza, confessa. Confessa anche al Brigadiere Domenico Russo la mattina seguente, ma ci sono molti punti oscuri quando lui, il Pretore di Scalea ed il medico chiamato a constatare le condizioni del bambino arrivano sul posto.

Nella parte circostante le radici dell’ulivo vedesi il terreno di fresco rimosso e dissodandolo per una profondità di circa 5 centimetri con ogni cautela e precauzione, appare il corpicino di un neonato poggiato sul fianco sinistro, con la faccia dispiegata sul petto, le braccia congiunte verso il capo  e le gambe ripiegate verso l’addome. Dissodato ancora il terreno intorno al cadaverino abbiamo constatato che tutto il corpo si presenta esternamente a guisa di spugna per la forte pressione del terreno. Il naso è schiacciato ed alle narici si osserva un liquido sanguinolento ammassato al terreno. Le dita delle mani sono flesse verso il palmo e dall’addome pende il cordone ombelicale strappato e non legato, la cui estremità porta del sangue misto a terriccio. Il cordone ombelicale non legato potrebbe voler dire che il bambino, se nato vivo, può essere morto per dissanguamento. È importante trovare la placenta, ma nella buca non c’è e quindi i Carabinieri vanno a cercarla nell’ovile, ma non è nemmeno qui. Però nell’ovile ci sono delle tracce molto sospette: nell’angolo in fondo del lato sinistro, le fronde selvatiche ivi cresciute si presentano ripiegate ed in alcuni punti chiazzate di sangue grumito. Nell’angolo delle pareti e fino all’altezza di circa 50 centimetri, altre macchie di sangue e sulla parete di fronte, all’altezza di circa 80 centimetri, un’altra grossa macchia di sangue. Che ci fanno quelle macchie di sangue sui muri? Il mistero viene svelato dall’autopsia, che intanto accerta come il bambino fosse nato vivo e vitale, lungo 48 centimetri e 2,5 chili di peso: la faccia è tumida, ecchimotica con chiazze violacee, specie alla guancia sinistra ed alle palpebre, infossamento della tempia sinistra, frattura alla regione occipito-parietale destra del cranio, che ha prodotto compressione cerebrale endocranica da stravaso. Causa della morte è stata la frattura riscontrata. L’esito letale è stato poi sollecitato dal seppellimento del neonato ancora in vita, che produsse asfissia per occlusione delle cavità aeree. Poi i periti aggiungono che il bambino ha potuto vivere poche ore e che la frattura è data da urto contro corpo resistente. Corpo resistente, cioè un muro.

Come spiegherà Maria queste atrocità?

Io mi partorii mentre ero distesa per terra e non procedetti affatto al taglio dell’ombelico, esso si spezzò quando venne fuori la placenta. Non so spiegarmi in qual modo il neonato abbia riportato la frattura del cranio, che si dice essere stata riscontrata all’autopsia. Certo da me non è stato compiuto alcun atto violento e solo può darsi che il bambino se l’abbia prodotta sulle pietre del luogo ove mi partorii… seppellii il bambino dopo qualche ora e, date le condizioni in cui mi trovavo, non mi accorsi se il bambino era ancora vivo o morto

La cosa sorprendente, a parte ciò che ha combinato Maria, consapevolmente o meno, è che nessuno si sia accorto della gravidanza nonostante si sparlasse di lei, che dichiara di avere avuto rapporti sessuali con un solo uomo, poi emigrato Allamerica, e di avere fatto in modo di nascondere il suo stato.

Le voci sulla moralità di Maria. È dalle parole di donna Aspasia che sappiamo qualcosa:

Ho tenuto come domestica per circa dodici anni Maria ed in verità non ho mai sospettato sulla sua condotta, quantunque nel paese si vociferasse non troppo bene sul suo conto. Anzi, 7 od 8 anni dietro, essendosi accennato a relazioni intime di essa con un giovane, avevo deciso di allontanarla di casa; intervenne però in suo favore l’Arciprete del tempo, ora defunto, e mi pregò di non scacciarla perché tal fatto avrebbe potuto essere la rovina della giovane. Io, sia per sentimenti religiosi che umani, la continuai a tenere in mio servizio ed in verità null’altro ebbi a sentire ripetere sul suo conto. Nel mese di dicembre ultimo, Maria però cominciò ad accusare dei disturbi e poiché ella era sofferente di catarro bronchiale, io la feci visitare dal dottor Zagaria, che le prescrisse delle cure. Da quella epoca solo di tanto in tanto accusava delle sofferenze, io però non mi accorsi mai che ella era incinta, tanto più ritengo ch’ella dovea simulare con qualche mezzo i segni esteriori. Senonché, essendosi sparsa nel paese delle voci sospette, decisi nuovamente di allontanarla, ma vennero da me protestando sia la madre che il cognato, confermandomi  pienamente l’onorabilità di Maria per cui io, prestando loro la massima fiducia, mi convinsi ancora di tenerla presso di me

Può bastare, Maria viene rinviata al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza per avere, il 2 giugno 1922, in Tortora, al fine di uccidere e per salvare il proprio onore, cagionato la morte di un infante da lei nato il giorno stesso e non ancora iscritto nei registri dello stato civile.

Il 5 luglio 1923, Maria Manzi viene condannata ad anni 2 e mesi 6 di reclusione, oltre alle pene accessorie.

Il 15 novembre 1923 la pena diviene definitiva perché l’imputata non ha presentato nei termini i motivi del ricorso in appello.[1]

[1] ASCS, Processi Penali.