ANTONIO SALADINO VITTIMA DELLA MAFIA

Cerda, provincia di Palermo. È la sera del 4 novembre 1900. Nella sede del Monte Frumentario alcuni soci stanno, come al solito, chiacchierando tra loro o giocando a carte. Il fumo dei sigari rende l’aria pesante e per questo una delle porte che si dà sulla via Porta Palazzo è aperta. Anche Antonio Saladino, l’esattore del paese, persona dabbene e molto ben veduta dal popolo è in questa sorta di Circolo e sta spiegando ad un suo amico dove apporre la firma su di una cambiale. Si alza dal posto dove è seduto e gira intorno al tavolo, dando il fianco sinistro alla porta spalancata. Proprio in questo momento il braccio di uno sconosciuto appare dal buio nello spazio aperto della porta, senza che nessuno se ne accorga. Nella mano ha una rivoltella e fa fuoco. Saladino, con un lamento ed una smorfia di dolore si accascia a terra mentre un fiotto di sangue comincia a sgorgare dal suo fianco sinistro. La sorpresa è generale, ma tra urla e fuggi fuggi generale, nessuno capisce bene cosa sia accaduto. Nessuno sente i passi concitati di un paio di persone che si allontanano nel buio della notte. Antonio Saladino morirà qualche ora più tardi per la perforazione dell’intestino tenue e la fuoriuscita di materiale fecale che ha provocato una peritonite fulminante.

All’inizio le indagini condotte dall’Ufficio Istruzione di Termini Imerese individuano come movente una possibile vendetta nell’ambito della riscossione delle imposte, ma non si trova niente di concreto e questa pista viene abbandonata, come viene abbandonata quella di possibili nemici per questioni private. Poi vengono abbandonate tutte le altre causali come infondate e messe in giro allo scopo di sviare le indagini. Così resta in piedi una sola ipotesi, la più fondata e più veritiera, alla base della quale ci sarebbero le inimicizie dei partiti locali, emergendo provato che il defunto Saladino, il quale mal vedeva i soprusi e le prepotenze del partito imperante nell’amministrazione comunale, si fosse messo a capo di un partito popolare con l’intento di risollevare la classe dei contadini e degli operai, emancipandoli dall’oppressione autocratica dei maggiorenti.

E si, perché Antonio Saladino, invece di schierarsi dalla parte della sua classe, si schiera con gli sfruttati e fonda una cooperativa, la società Agricola-Operaia Umberto I°, con più di 500 soci, onde venire in soccorso della loro classe che si trova agli estremi. Ma c’è di più: nel programma della cooperativa sta scritto a caratteri di scatola: fuori i cappeddi, volendo significare che non sono ammesse persone legate agli ambienti degli agrari e dei mafiosi. Così scrive il corrispondente de La Sicilia, che continua: spettatori per lunghi anni delle lotte interessate delle camerille locali, che impropriamente si chiamano partiti, dissanguati dalle tasse e dalla più feroce usura esercitata su larga scala, abbrutiti dalla miseria e stanchi delle vessazioni continue di cui son vittime, i nostri contadini hanno deciso di riunirsi in società, fiduciosi nella forza che loro proverrà dall’unione. A titolo di cronaca vi riferisco che qua il malumore generale contro le tasse comunali piglia proporzioni veramente allarmanti. Pensino le autorità superiori a provvedere onde evitare guai maggiori. Il cronista aveva visto giusto perché questo stato delle cose provocò aspre lotte e da queste gravi minacce nella vita del Saladino, tanto che più volte se ne lamentò con i suoi amici più fidati i quali, in più riprese non mancarono di esprimere il timore che una prossima vendetta si sarebbe compiuta, ove egli non avesse desistito dalla lotta intrapresa.

Ma Saladino non mollò e, puntuali, come prodromi di vendetta si appalesarono le acri ostilità di partito perché, dopo tentato invano di stancare il Saladino ostacolandoglisi la gestione della esattoria, si cercò in tutti i modi e si ottenne il discioglimento della società agricola da lui costituita, col pretesto che i componenti formassero un pericolo per la tranquillità dell’ordine pubblico e Saladino, il 2 novembre 1898, scrisse un telegramma di protesta al re:

ROMA DA CERDA 2-22-2-13-45

SUA MAESTA’ – ROMA

OGGI AUTORITA’ POLITICA INCONSIGLIATAMENTE SCIOLSE QUESTA SOCIETA’ AGRICOLA UMBERTO I/O – FEDELI SUDDITI OSSEGUENTI LEGGI PROTESTANO SPERANDO GIUSTIZIA – SALADINO

La Società fu ricostituita poco dopo sotto altro titolo e Saladino, presentatosi con una sua lista alle elezioni amministrative, sconfisse, dopo molti anni passati al potere, il partito del Sindaco uscente, Calogero Russo il quale, era notorio, nutriva contro Saladino accentuati rancori, aveva sempre provocato ostacoli a quest’ultimo e profferiva minacce gravi contro il medesimo.

Adesso agli inquirenti basta solo fare due più due: è Calogero Russo che ha voluto la morte di Antonio Saladino, ma c’è bisogno di qualcosa di più per incriminarlo con alte probabilità di vederlo condannato.

Ma se la presunzione di onnipotenza e impunità dell’ex Sindaco Calogero Russo ha portato ad una indagine piuttosto breve per ipotizzare sia il movente che il mandante dell’omicidio, probabilmente sarà più complicato arrivare a scoprire chi ha materialmente premuto il grilletto per uccidere Saladino.

Poi qualcuno comincia a dire qualcosa e così gli inquirenti scoprono che durante tutta la giornata del 4 novembre e fino a pochi momenti prima che Saladino fosse ammazzato, uno sconosciuto fu visto aggirarsi per le vie di Cerda prossime al locale ov’è sito il Monte Frumentario ed indi soffermarsi nei pressi di questo sulla via Largo Palazzo, in compagnia del cerdese Francesco Passamonte, persona intima e fidata del Russo. Questo potrebbe davvero rappresentare la svolta nelle indagini, inchiodando definitivamente Calogero Russo e scoprire il sicario che, sicuramente, è lo sconosciuto visto darsi alla fuga precipitosamente.

Dovrebbe essere facile scoprire l’identità dello sconosciuto, basterebbe mettere sotto torchio Passamonte. Il problema è che Passamonte è sparito. Allora si torchiano i testimoni e viene fuori una cosa interessante: dalla foggia del vestito, lo sconosciuto si appalesava come campiere di Bagheria. È questa la svolta nelle indagini: Calogero Russo ha alle sue dipendenze parecchi  campieri e favorisce più di ogni altro il pericoloso latitante Salvatore Galioto da Bagheria, imputato e condannato per una serie di gravi delitti, ritenuto tiratore di precisione e che ha trovato asilo sicuro negli ex feudi tenuti in gabella dal Russo.

Appunto, un rifugio sicuro. Galioto è uccel di bosco e tutti gli sforzi per catturarlo sono vani.

Per la Sezione d’Accusa non ci sono dubbi: Salvatore Galioto è l’esecutore materiale dell’omicidio aggravato dalla premeditazione, dimostrata dal preordinato concerto di eseguire la strage per mandato e di avere, il Galioto, aspettato il momento più opportuno, frigido pacatoque animo, perché la intenzione criminosa venisse effettuata con esito certo, e per questo viene rinviato a giudizio in contumacia.

Ma anche a volerlo giudicare in contumacia ci sono seri problemi per gli ostacoli che vengono messi all’iter burocratico, finché non si è costretti a chiedere di spostare il dibattimento per legittima suspicione. È l’unica strada possibile, il processo si terrà presso la Corte di Assise di Catanzaro, ma senza l’intervento di giurati, visto che si tratta del rito contumaciale.

I Giudici di Catanzaro dichiarano il ventinovenne Salvatore Galioto, campiere di Bagheria, responsabile del delitto ascrittogli e lo condanna alla pena dell’ergastolo, con aumento del periodo della segregazione cellulare continua, più pene accessorie. In più ordina che la sentenza venga stampata per estratto ed affissa nei luoghi prescritti dalla legge.

È il 13 luglio 1907.

Passano 30 anni dall’omicidio e il 14 maggio 1930 la Corte d’Appello di Catanzaro è costretta a dichiarare estinta l’azione penale per prescrizione e revoca il mandato di cattura nei confronti di Salvatore Galioto. [1]

30 anni di latitanza, ma dove? Probabilmente al sicuro Allamerica.

 

Quelli, però, tra i contadini, che si elevano al grado di campiere o di soprastante e che hanno l’ufficio di garantire gl’interessi del grande proprietario nel latifondo divengono di ordinario la quintessenza dei mafiosi pel loro coraggio, per la rigorosa osservanza del codice dell’omertà, per l’assenza completa di scrupoli nel prestar mano a briganti e malandrini, nel farla da manutengoli, nel tirare una schiopettata ad un nemico, ad un disgraziato, che ne ha offesa la suscettibilità morbosa. Insomma campieri e soprastanti spesso sono una edizione riveduta e peggiorata degli antichi bravi. Non fecero mai parte dei Fasci anzi rimasero sempre ai servizî dei loro più accaniti nemici, i quali scandalizzati, denunziavano i Fasci, come covi di malfattori perché avevano accettato come socio qualche ammonito, più vittima dell’ambiente sociale, che vero delinquente come la massima parte dei più pregiati tra i loro fidi! (N. Colajanni, Gli avvenimenti di Sicilia e le loro cause, p. 55)

 

«Il Signore ha i suoi campieri, ma non può tenerne una grossa squadra, e molte volte, perché siano uomini di stocco, da servirlo come vuol lui, è costretto a chiudere un occhio, e magari anche tutti e due nello sceglierli, e prenderli della stessa pasta di cui si fanno i briganti». Così scrive il generale Corsi. (Sicilia p. 303).

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Catanzaro.

Ringrazio Pierluigi Saladino per avermi fornito la foto del bisnonno Antonio, le foto degli articoli di giornale e la foto del telegramma, da lui gelosamente custodite.