PREPOTENTE, CINICO E MALVAGIO

Durante il 1937, per ragioni di impiego, la famiglia di Luigi Carbone, capotreno della ferrovia Calabro-Lucana, e quella di Nicola Aulicino, la cui moglie Francesca Decristofaro è capo fermata ferroviaria della stessa compagnia, si trasferiscono a Figline Vegliaturo. Tra le due famiglie si stabiliscono subito rapporti amichevoli, tanto amichevoli che, nel 1939, tra la tredicenne Maria, figlia del capotreno, e il diciassettenne studente delle scuole Magistrali Federico, figlio di Nicola, sboccia un segreto amoreggiamento. Ma l’amore tra i due adolescenti ben presto si complica perché una notte della primavera 1939 Federico, scavalcato il balcone della stanza da letto di Maria e fattosi aprire, riesce a sedurla promettendole che l’avrebbe sposata.

Dopo questa volta Federico continua saltuariamente ad andare a trovare Maria e i due ogni volta fanno l’amore con la foga tipica della loro età, ma costringendosi al silenzio che la delicatezza della situazione richiede. Poi accade quello che nessuno avrebbe voluto: Maria resta incinta e pretenderebbe che Federico la sposi subito ma lui, già sazio, dopo averla invano sollecitata ad abortire, la abbandona rimanendo tetragono alle esortazioni di comuni amici e negando perfino di aver mai avuto rapporti con la ragazzina e, inevitabilmente, Maria è costretta a dire tutto ai genitori. Così il padre, il 30 giugno 1939, sporge regolare querela, sia in nome proprio, che nell’interesse della figlia minore, per violazione di domicilio e congiunzione carnale presunta violenta, specificando che il primo accoppiamento avvenne il 10 giugno 1939, precisamente quando Maria non avea ancora compiuto gli anni 14.

In realtà i rapporti sessuali tra Federico e Maria risalgono almeno ai primi del 1939 perché, sottoposta a visita ginecologica il 14 luglio, la ragazzina viene riconosciuta incinta al settimo mese e per Federico sono guai seri, tant’è che viene spiccato un mandato di cattura nei suoi confronti, ma quando viene preso e interrogato nega tutto, anzi ribalta la situazione e rilancia:

– Non l’ho mai toccata, semmai lei è stata ingravidata da altri perché ha amoreggiato con due giovanotti

Ma i due giovanotti, di cui Federico fa i nomi, lo smentiscono energicamente e lo accusano, come lo accusano molti testimoni, di essere stato lui a mettere incinta Maria, che intanto è diventata madre di una bella bambina.

Terminate le indagini, il Giudice Istruttore, su conforme richiesta del Pubblico Ministero, preso dal dubbio che la congiunzione carnale fosse avvenuta dopo che Maria aveva compiuto i 14 anni, rinvia Federico al giudizio del Tribunale di Cosenza per rispondere di corruzione continuata di minorenne e di violazione continuata di domicilio, concedendogli il beneficio della libertà provvisoria.

Preso dal dubbio? Ma come è possibile essere preso dal dubbio  che la congiunzione carnale fosse avvenuta dopo che Maria aveva compiuto i 14 anni, quando Maria ha compiuto 14 anni il 10 giugno 1939 ed un mese dopo era già incinta di sette mesi? Sembra una barzelletta, ma è messo nero su bianco sia sulla carta intestata della Procura del re di Cosenza, che su quella del Giudice Istruttore.

Comunque, il Tribunale di Cosenza, con sentenza del 31 gennaio 1940, che costituisce un inno alla innocenza ed alla onestà della piccola sedotta ed aspra apostrofe a Federico Aulicino, lo condanna ad anni 1 e mesi 6 di reclusione. Scrive il Collegio Giudicante: I delitti sono gravi, specie il primo, ma il cinismo di Aulicino, insensibile, malgrado l’età giovanile, ad ogni impulso di umanità e di pietà verso Maria e di considerazione verso la tenera creatura – che pure è sua figlia – rivela in lui un carattere particolarmente riprovevole e temibile.

Una beffa!

Federico non va in carcere perché gli era stata concessa la libertà provvisoria e presenta appello contro la sentenza. Nell’attesa di fissare la data per discutere la causa, o per astuta insidia (forse sperando di far cadere la costituzione di parte civile) o per altro non ben intuibile motivo, crede opportuno continuare a lusingare Maria, promettendole di sposarla quando avrebbe conseguito il diploma Magistrale e conserva anche – gesuiticamente – per alquanto tempo rapporti normali  con Giuseppe, il fratello di Maria.

In questo frattempo, inaspettato, gli viene notificato il provvedimento di amnistia per l’intervenuto R.D. 24/2/40, n. 56.

Beffa su beffa!

Ormai Federico non teme più per la sua libertà personale e si manifesta esattamente come i giudici lo avevano definito: prepotente, cinico, malvagio al segno che, esortato da Giuseppe a riparare col matrimonio, gli risponde:

Non ne voglio più sapere di tua sorella e

– Ma…

– Vattene e se non mi lasci in pace ti rompo il culo!

Potrebbe finire qua, ma Federico non è contento. Approfittando del fatto che Giuseppe è poco intelligente, timido e insignificante di persona tanto è mingherlino, mentre lui è aitante misurando un metro e settantacinque di altezza con muscoli ben sviluppati, comincia a divertirsi provocandolo ed umiliandolo in pubblico. Come, per esempio, fa quotidianamente nel viaggio in littorina che fanno da Figline a Cosenza per andare a scuola ed è inutile che Giuseppe, prudentemente, cerchi di evitare di trovarsi nello stesso scompartimento con Federico, perché è Federico che, con fare provocatorio, lo cerca, lo trova e gli si siede accanto per sfotterlo davanti a tutti. E magari Federico si limitasse a questo! Adesso ha cominciato a prendere di mira anche il padre di Maria, passandogli e ripassandogli davanti, ed a volte, per metterlo a più dura prova, viaggia senza biglietto sul treno dove è in servizio Luigi Carbone che, per evitare discussioni e contrasti, si umilia coi colleghi e col capostazione, sollecitando il loro intervento per fargli pagare il biglietto.

Quando nel mese di maggio del 1940 Federico consegue il diploma di maestro elementare, Maria, che su quel diploma aveva tanto sperato, vistolo nei pressi di casa, scende sulla strada con la bambina in braccio, quasi a richiamo dei suoi doveri di padre, lo avvicina per ricordargli che è tempo di mantenere la promessa fatta, ma Federico, protervo più del solito, le tira due schiaffi sul viso, le da un violento spintone facendola cadere a terra con la creatura, che va a ruzzolare nella cunetta della strada, e le grida:

Strega!

Maria per lo shock sviene e le uniche tre donne che, avendo assistito alla scena, accorrono in suo aiuto e la portano in una casa vicina dove rimane per quattro ore in preda a convulsioni, che il dottor Ippolito giudica guaribili in un paio di settimane. Quando Giuseppe torna in paese e viene avvisato dell’accaduto, va a trovarla in casa della vicina ed a vederla squassata dagli spasmi, sviene a sua volta.

Federico sa di averla combinata grossa e, temendo l’arresto, mette in esecuzione i suoi sistemi insidiosi ed ingannatori e si sottopone, per prepararsi una discolpa, ad autolesione, poi tutto eccitato va a casa di un suo amico, con l’orecchio e l’occhio arrossati, nonché con una piccola graffiatura sulla guancia sinistra

– Mi ha malmenato Maria… – gli dice.

Non basta. Qualche giorno dopo, la madre di Federico, volendo dar credito al trucco, cerca di rafforzarlo con false testimonianze e parla con Marietta Greco.

– Me lo devi fare questo favore, devi dire che Federico mio non ha picchiato quella strega.

– Tu sei pazza! Io non dico proprio niente perché non è vero!

– Almeno fammi il favore di fare testimoniare il tuo figliuolo

– Vorresti mettere in mezzo un bambino di nove anni? Vattene immediatamente se no vado dai Carabinieri!

Ma Francesca Decristofaro è decisa a non arrendersi e cerca di corrompere altre persone, trovandone una, Stanislao Cundari, che testimonia di avere visto Maria dare un pugno all’occhio a Federico, escludendo che il giovanotto avesse dato schiaffi o che avesse fatto cadere a terra Maria e la bambina.

Quando Cundari viene chiamato a ripetere il racconto davanti al Giudice Istruttore, questi fiuta la falsa testimonianza e lo fa arrestare. La notte in cella porta consiglio a Stanislao Cundari il quale, la mattina dopo chiede di parlare col Magistrato e dichiara:

Non insisto nella deposizione che ho fatto ieri, la quale mi fu suggerita dalla madre di Federico Aulicino… non è vero che ho visto Maria percuoterlo

Federico e sua madre vengono convocati in caserma dal Brigadiere dei Carabinieri per cercare una soluzione bonaria alla questione e dà loro un consiglio amichevole:

– Giovanotto, lascia in pace la famiglia Carbone, te ne potrebbero venire guai seri…

Ma il giovanotto, piuttosto che ringraziarlo e promettergli che avrebbe seguito il buon consiglio, altezzosamente gli risponde:

Non ho paura di nessuno, io!

A questo punto il Brigadiere si rivolge alla madre per ribadire il concetto, sperando che questa capisca la gravità della situazione:

– Credo che, per evitare ulteriori conseguenze, sia opportuno che una delle due famiglie si faccia trasferire da Figline… mi sono spiegato?

Si tratta di affari privati nei quali voi non dovete mettere il naso! – gli risponde con non meno petulanza ed altezzosità del figlio.

È evidente che un tale comportamento di sua madre non può che incoraggiare Federico a persistere nel suo atteggiamento di aperta sfida contro i Carbone, non contento di averli disonorati e di aver lasciato loro anche il peso della creatura, nata da un suo capriccio.

E questo atteggiamento di sfida adesso comincia a far seriamente preoccupare Giuseppe, che teme possa accadere qualcosa di grave a sé stesso ed ai suoi familiari e, non essendo più disposto a subire le villanie di Federico né a tremare davanti a lui, pensa di procurarsi una rivoltella al fine di rintuzzare eventuali altre violenze.

La sera del 6 giugno 1940, quattro giorni dopo che Federico ha schiaffeggiato Maria, nei pressi del Dopolavoro di Figline, dove funziona una radio per le comunicazioni al pubblico, Giuseppe sta ascoltando il notiziario accanto alla porta del locale quando arriva Federico in compagnia del fratello. Come al solito Federico comincia a fargli gesti provocatori e minacciosi, mentre il fratello gli si avvicina. Giuseppe, ormai esasperato, crede che Federico voglia attentare alla sua incolumità; fulmineamente estrae di tasca la rivoltella e gli spara un colpo, ferendolo al secondo spazio intercostale di destra.

Sto morendo! – esclama Federico portandosi una mano al petto, poi entra nel Dopolavoro per chiedere aiuto. Contemporaneamente suo fratello si butta addosso a Giuseppe, lo rovescia a terra e gli salta sopra. Ma Giuseppe ha ancora la rivoltella in mano e spara due colpi, uno dei quali ferisce il suo aggressore alla coscia destra, facendogli allentare la presa e consentendogli di rialzarsi. Giuseppe sbuffa, tira un lungo respiro e, con la rivoltella in pugno entra nel Dopolavoro per farla finita. Appena gli avventori lo vedono si scansano impauriti; eccolo, Federico è steso di fianco sopra due tavoli; Giuseppe gli si avvicina, protende il braccio armato verso il suo nemico: non può sbagliare e spara un solo colpo che raggiunge la vittima alla zona lombare, poi senza dire una parola esce dal locale e va a costituirsi nelle mani della Guardia Municipale Francesco Lofeudo al quale, consegnando l’arma, dice:

– Ho ammazzato Federico Aulicino… sono dolente se anche suo fratello, contro il quale non ho nessun rancore, dovesse morire… – poi i due vanno dai Carabinieri.

Federico è grave, mentre suo fratello ha una brutta ferita ma dovrebbe cavarsela e vengono portati in ospedale, dove però Federico muore appena arrivato, mentre il fratello ne avrà per una ottantina di giorni.

Omicidio premeditato, lesioni commesse per errore nell’uso dei mezzi di esecuzione, porto abusivo di pistola, omessa denunzia dell’arma. Sono le prime ipotesi di reato che gli vengono contestate. Poi viene interrogato dando al fatto una versione che, nel suo orgasmo, crede la più conducente a discriminarlo, raccontando della condotta tenuta da Federico nei suoi confronti e nei confronti della sorella sedotta ed aggiunge:

Mi trovavo in ascolto del giornale radio… visto Federico, mi fermai vicino a lui e quando la trasmissione stava per finire, estrassi la rivoltella e sparai con l’intenzione di ucciderlo. Sparato il primo colpo, sono stato afferrato dal fratello, che mi buttò per terra. Cadendo, continuai a sparare, ma nessuna intenzione avevo di colpirlo ed il colpo che lo ha raggiunto era diretto contro Federico, mio nemico. – Come? Non deve stare bene, forse l’adrenalina che è ancora in circolo lo fa sragionare o forse è la sua mente troppo semplice a fargli raccontare le cose come non sono. Così sta confessando un omicidio premeditato! Poi aggiunge – Malgrado dopo il fatto del giorno due corrente mi balenò l’idea della vendetta contro Federico, mai lo cercai, né attesi in agguato e forse, se non lo avessi visto, probabilmente sarebbe svanita ogni cosa e non avrei commesso quanto ho fatto, di cui sono pentito

– Qualcuno ti ha consigliato o suggerito o rafforzato l’idea di armarti per vendicarti?

Nessuno ha influito o rafforzato la mia decisione.

Dopo qualche giorno, interrogato dal Giudice Istruttore, ritrova la calma e chiarisce un aspetto di cui non aveva parlato:

La sera del 6 giugno mi trovavo in piazza per sentire il giornale radio, alla distanza di cinque o sei passi vi era Federico ed a qualche passo da lui il fratello. Federico, appena accortosi di me, mi guardò con fare canzonatorio e fu allora che ho perduto i lumi, ho estratto la rivoltella e gli ho sparato un colpo al petto… quando ho visto che venivo continuamente provocato, per precauzione ho preso la rivoltella e l’ho portata con me ogni giorno per difendermi dalla terribile aggressione del prepotente. Preciso che la rivoltella l’ho portata sempre addosso dopo il secondo colloquio con Federico Aulicino, quando mi disse di lasciarlo in pace perché altrimenti ne avrei avuto male

Da queste parole e da tutte le testimonianze dovrebbe essere chiaro che Giuseppe non ha premeditato il delitto, ma il Procuratore Generale non la pensa così e chiede il rinvio a giudizio dell’imputato per omicidio premeditato e lesione aggravata. Il Giudice Istruttore, al contrario, crede alla versione di Giuseppe e lo rinvia al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza per rispondere di omicidio preterintenzionale e lesione per errore cagionata a persona diversa.

Il 16 febbraio 1942 inizia il dibattimento e la Corte chiarisce che senza dubbio Giuseppe Carbone ha volontariamente e coscientemente sparato contro Federico Aulicino determinandone la morte, ma ciò non basta per potergli dire: hai ucciso e ti spetta l’ergastolo quale omicida con premeditazione, ovvero ti spettano 21 anni quale omicida semplice, ovvero dieci o più anni quale omicida oltre l’intenzione. Il giudizio di condanna deve essere la risultanza della valutazione di tutti gli elementi che sono concorsi a formare di un uomo vivente in società, un delinquente. Nel caso in esame è fermo in punto di fatto che il prevenuto, misero di corpo e di mente, epilettoide per giunta, aveva un invincibile terrore di Aulicino, di quel volgare schiaffeggiatore di donne, che per impedire alla sedotta di reclamare una riparazione e di andargli dietro, passa persino sopra al corpicino della figlioletta facendola ruzzolare nella cunetta della via. Pertanto il pavido prevenuto sentì il bisogno di andare armato e, quando la sera del 6 giugno 1940, credette che l’Aulicino, a cui affiancavasi il fratello, lo canzonasse e lo volesse aggredire, riponendo la sua salvezza nell’arma, sparò, uccise, ferì e andò a costituirsi. Nonostante gli schiaffi non tese agguati, né ricercò Aulicino. Conseguentemente, il delitto si avverò per una causa speciale sorta quella sera stessa, onde è da accettare che si avverò per l’asserta minaccia di aggressione. Ed il supposto pericolo fu ragionevole perché, a farglielo credere e ad esagerarne la portata, tutto concorse in quell’attimo: la presenza a breve distanza di Aulicino, protervo provocatore che si era vantato di non aver paura di nessuno; la presenza del fratello di Aulicino, al pari del primo aitante e naturalmente disposto ad aiutare il fratello; il carattere particolarmente timido di Giuseppe Carbone, che lo trascinava ad esagerare i pericoli, tenuto conto che al soffio di una emozione veniva scosso fino alla convulsione; la coscienza di sapersi deriso ed odiato da Aulicino, quindi non è da meravigliare che egli si sia realmente sentito minacciato nella vita e per cui agì di conseguenza.

Che la Corte stia trovando una terza via, diversa sia dall’omicidio premeditato invocato dal Procuratore Generale, sia dall’omicidio preterintenzionale per cui Giuseppe Carbone è a giudizio? Vediamo le conclusioni del ragionamento: per quel che si è premesso, e non già per pietosa indulgenza, non può negarsi che il prevenuto agì nello stato di legittima difesa putativa, se pur non fu reale. Ma, indubbiamente, quando egli ricercando l’avversario ferito e fuggiasco fin nei locali del Dopolavoro continuò, senza necessità, a sparargli contro e determinandone la morte, eccedette colposamente i limiti della sua difesa e però all’evento “morte” deve rispondere a titolo di colpa. In quanto alla pena, la Corte crede di applicarla in misura proporzionata irrogando anni 1 e mesi 4 di reclusione. Circa il delitto di lesione aggravata due volte, la Corte deve prosciogliere il prevenuto da ogni responsabilità, avendo egli agito in stato di legittima difesa e non per errore di esecuzione. Per quanto riguarda i reati relativi al possesso ingiustificato dell’arma, la Corte lo condanna a mesi 2 di arresti, oltre le spese e i danni da rifondere alle parti civili, la cui quantificazione, però, deve tenere espresso conto del comportamento della vittima, nel senso che la liquidazione dovrà essere tanto ridotta, quanto ha contribuito la vittima stessa alla produzione del delitto, di tal che, in concreto, avendo l’ucciso con le sue minacce determinato quello stato di necessità di difesa in cui ebbe a trovarsi il prevenuto, non può essere la liquidazione a favore dei genitori dell’ucciso che di lieve rilevanza.

È il 18 febbraio 1942 e Giuseppe Carbone viene scarcerato avendo già scontato più della pena inflittagli.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.