LA SPINTA DELL’AMORE FILIALE

La signora Maria Calabrese, dimorante in Cosenza, il primo novembre 1939 nota sulle mutandine della figlia Carmelina, di sette anni, alcune macchie giallastre. Preoccupata, anche perché la bambina sta deperendo velocemente, le fa dare un’occhiata da Teresa Adamo, levatrice e sua pensionante. Costei, viste le macchie, le consiglia di farla visitare da uno specialista, il dottor Ettore Gallo, il quale ordina delle analisi per stabilire l’origine della secrezione uretrale e prostatica, esame che viene eseguito dai dottori Rusciani e Serra e che accerta la presenza del gonococco di Vaisser, causa dell’uretrite e sub-vaginite da cui è affetta la bambina. Il problema, serio, è che il gonococco viene trasmesso per via sessuale ed a sette anni è difficile immaginare che si possano avere rapporti sessuali, che una perizia accerta non essere mai avvenuti, ma è facile ipotizzare che qualcuno abbia potuto compiere atti di libidine violenta, senza arrivare alla penetrazione.

– È stato IL CARTOLAIO DI PIAZZA DELLA VITTORIA (clicca sul link e leggi la storia completa) questa estate durante le vacanze estivemi portava nel retrobottega, si sedeva vicino a me su una sedia, cacciava di fuori quella cosa e me la strofinava sul mio pipì… – riesce a raccontare Carmelina al Magistrato che la interroga.

Arrestato, il cartolaio Antonio Catanzaro nega ogni addebito e sostiene di non essere mai stato affetto da blenorragia, ma le analisi dicono il contrario: soffre di metrite e prostatite cronica di natura gonococcica. La diagnosi fuga tutti i dubbi sulla sua responsabilità e viene rinviato a giudizio per rispondere di atti di libidine violenti continuati e di contagio di malattia venerea.

In attesa del giudizio, uno dei figli del cartolaio, Pasquale, nella folle convinzione che suo padre sia vittima di una calunnia a fine di ricatto organizzata dalla madre della bimba, in combutta con la levatrice e tal Greco (il quale, secondo lui sperava di fare, con l’eliminazione di suo padre, la propria fortuna commerciale), concepisce l’idea della strage di tutti e tre, ma principalmente della prima, Maria Calabrese, alla quale, tutte le volte che l’incontra, rivolge minacce di morte, al punto che la poveretta, non potendone più ed essendosi sentita anche villanamente ingiuriare con la frase “Zoccolona! Te la faremo piangere!”, presenta un esposto in Questura e Pasquale viene diffidato, pena l’arresto.

Pasquale, pervaso dalla convinzione che suo padre sia il migliore degli uomini, assolutamente incapace di commettere quell’odioso delitto, non si arrende nemmeno davanti all’evidenza e va dicendo a destra e a manca che la bambina non deve essere creduta perché irretita e spinta a mentire dalla madre, onde rimane privo di significato il fatto che suo padre, il quale ha sempre negato di avere sofferto malattie veneree, è invece affetto della stessa gonorrea riscontrata alla bambina; come senza significato rimane la circostanza che la sua famiglia, non parimenti convinta dell’innocenza paterna, si affanna a indurre, mercé generosa indennità, la querelante a non costituirsi parte civile ed a non insistere nella querela.

Anzi, più le prove contro suo padre aumentano, più si ostina a credere alla sua innocenza.

Il 15 febbraio 1940 Pasquale va dall’armaiuolo Pietro Greco e compra una pistola semiautomatica Beretta e sette cartucce da usare per sopprimere Maria Calabrese, se suo padre sarà condannato, ingiustamente a suo modo di vedere, e contemporaneamente comincia a tenere un diario, che chiama “amica carta”, al quale affida tutti i suoi propositi di vendetta, giungendo perfino a sparlare di magistrati e funzionari integerrimi solo perché costoro, in obbedienza ai regolamenti, non gli consentono frequenti colloqui col padre.

Temo un giorno di perdere questo po’ di ragione ed allora saranno guai per le due donne. Quando la mia ira vindice si scatenerà, non ci sarà forza o legge umana capace di fermare il mio braccio. Sarò nauseato dal malsano odore che il sangue fetido della Calabrese e della Adamo emanerà, ciononostante vorrò assistere con sadica voluttà allo scorrere di quella maligna materia dei serpi velenosi

Temo di perderla del tutto questa ragione ed allora sarà la fine per la Calabrese e per l’Adamo

Non illudetevi, canaglie; se non vi raggiungerà la giustizia umana, ci sarà quella, più inesorabile, di Pasquale

Io, figlio di Antonio Catanzaro, la cui mano sarà guidata dalla Giustizia Divina, rimarrò inerte ad attendere che mio padre espii la più ingiusta delle condanne e non faccia un macello delle vostre impure carni?

Nel caso di un’aberrazione dei giudici stroncherò le vostre vite, Calabrese ed Adamo, come si può, senza alcuno scrupolo o rimorso, sgozzare un lupo che sta per azzannarmi. Questa similitudine potrà bastare a farvi capire quanto ormai calcoli la vostra esistenza e quanto poco la calcolerò all’atto della condanna di mio padre innocente

Non dimenticare, levatrice Adamo, morrai come una cagna se il verdetto dovesse infierire su papà, che io amo più di ogni altra cosa al mondo

Più o meno di questo tenore è tutto il diario di Pasquale, tenuto fino al giorno della sentenza nei confronti di suo padre, il primo aprile 1940 alle 22,30 circa.

Dopo essere stato presente alla lettura della sentenza che condanna suo padre a 5 anni di reclusione, Pasquale esce immediatamente dal Tribunale e, in attesa di Maria Calabrese, si appiatta sul muro accanto all’enorme portone del Palazzo di Giustizia. Teresa Adamo non c’è, ha preferito restare a casa, il suo dovere di testimone l’ha fatto la mattina.

– È andata così… torniamo a casa senza fare fesserie… – gli dice suo fratello, cercando di confortarlo e calmarlo.

– Si, Paolì, torna a casa, ti accompagniamo anche noi – insistono gli amici che hanno assistito alla lettura della sentenza.

– Lasciatemi in pace, voglio stare qui vicino a papà – risponde distrattamente mentre scruta ad uno ad uno i curiosi che escono dal Tribunale.

Gli ultimi ad uscire sono Maria Calabrese con il suo avvocato, l’Onorevole Stanislao Amato, sua sorella Vincenzina e l’avvocato Luigi Graziani. Non appena li vede, Pasquale si stacca dagli amici e dal fratello, si avvicina alla sua nemica giurata ed a quattro passi di distanza tira fuori la pistola e le spara contro un colpo in direzione del petto, ma un suo amico, che aveva capito ciò che stava per accadere e lo ha seguito di corsa, riesce a spostargli il braccio verso il basso. Un urlo di dolore. Maria, a bocca aperta, guarda Pasquale e poi gira lo sguardo alla sua sinistra: l’Onorevole Amato non c’è perché è caduto a terra, colpito sul terzo superiore della gamba destra.

Pasquale non ha il tempo di riprendere la mira e sparare di nuovo contro Maria Calabrese perché l’Agente di custodia di sentinella al carcere, la cui porta d’accesso si apre nell’androne del Palazzo di Giustizia, volendo impedire che il delinquente continui a sparare, esce di corsa e gli punta il moschetto sul petto:

– Butta la pistola o sparo! – urla. Pasquale ubbidisce docilmente e l’Agente continua – adesso entra e costituisciti – e Pasquale ubbidisce di nuovo.

– Ho sparato per ucciderla – confessa subito.

La confessione porta subito alla contestazione del reato di tentato omicidio doppiamente aggravato per la premeditazione e per circostanze che hanno ostacolato la privata difesa, nonché di porto abusivo di pistola. Ed è per questi reati che viene rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza.

Intanto l’Onorevole Amato guarisce clinicamente dopo 26 giorni, ma i periti giudicano che la sua gamba ha subito un indebolimento permanente e malattia probabilmente insanabile e questa potrebbe essere un’altra tegola per Pasquale Catanzaro, i cui familiari si affrettano a risarcire il ferito con 12.000 lire, ottenendo anche la dichiarazione che, malgrado il giudizio espresso dai periti per i fenomeni che residuano, egli è completamente guarito.

Nel pubblico dibattimento, celebrato nelle udienze del 17 e 18 gennaio 1941, i difensori di Pasquale si oppongono subito alla richiesta di costituzione di parte civile avanzata da Maria Calabrese, sostenendo che non ha subito alcun danno, ma la Corte rigetta spiegando che, avendo la persona offesa da un reato diritto anche ai danni morali, sarebbe arbitrario negare, anteriormente ad ogni esame in merito, che la Calabrese, la quale ebbe comunque l’impressione di essere sfuggita ad un grave attentato, non avesse subito nemmeno i patemi d’animo. Poi la difesa, nel tentativo di  ottenere una perizia psichiatrica per accertare se l’imputato, quando commise il fatto, fosse nel pieno delle sue facoltà mentali, presenta un certificato medico del dottor Corsonello, attestante che il prevenuto nel 1932 ebbe a soffrire un attacco di meningotifo. Niente da fare, anche questa richiesta viene respinta perché non ci sono segnali di sofferenza psichica, né basta, per far sospettare sulla sanità mentale, l’attestato di una malattia sofferta otto anni prima, dalla quale non sono derivate conseguenze di sorta.

Escussi i testimoni e letti gli atti, la Corte deve decidere sull’ultima richiesta della difesa: modificare il titolo del reato da tentato omicidio doppiamente aggravato a lesioni volontarie guarite in giorni 26, con la conseguente esclusione della premeditazione e la concessione delle attenuanti del particolare valore morale e del risarcimento dei danni subiti dalla persona offesa, Onorevole avvocato Stanislao Amato.

Per la Corte non può dubitarsi né della volontà omicida, né della premeditazione sia per le stesse confessioni del prevenuto, sia soprattutto per il suo comportamento: confessò di aver sparato per uccidere; in antecedenza si era munito di un mezzo assolutamente micidiale quale è la pistola Beretta e perché il colpo non fallisse ed avesse la maggiore penetrazione si era avvicinato alla vittima designata quanto più gli era stato possibile. È verissimo, ma è vero anche che ha sparato un solo colpo e questo potrebbe significare che non avesse poi così tanta volontà di uccidere Maria Calabrese. No, per la Corte questo ragionamento non regge perché la mancata reiterazione dei colpi non dipese da un atto di sua volontà, ma dall’ostacolo oppostogli dai compagni che, tempestivamente intervenuti, fecero deviare il colpo abbassandogli la mano, mentre l’Agente di custodia, puntandogli il moschetto sul petto, annullò ogni sua energia.

Anche l’aggravante della premeditazione va confermata perché basta scorrere il diario del prevenuto, nel quale vi è materiale di indiscutibile valore probatorio (come abbiamo già letto), per affermare che il delitto fu premeditato, essendo risultato nel diario non solo che l’imputato aveva formato il disegno criminoso di uccidere Maria Calabrese, ma che su tale disegno aveva riversato tutto il suo sentimento e lo aveva tenuto fermo per lungo periodo di tempo (diversi mesi), dando così prova di quella maggiore quantità di dolo che è caratteristica principale dell’aggravante della premeditazione.

Al contrario, per la Corte va cancellata l’aggravante di aver profittato di circostanze di tempo tali da diminuire la pubblica o privata difesa. Il delitto avvenne non solo sotto gli occhi di una sentinella armata, ma altresì in un luogo ed in un’ora in cui la gente che si era appassionata al processo contro il padre del prevenuto pullulava nella piazza del Tribunale e la privata e la pubblica difesa non si trovavano affatto minorate.

Terminato l’esame delle aggravanti, la Corte passa alle attenuanti richieste dalla difesa: l’avere agito per motivi di particolare valore morale e quella del parziale vizio di mente.

Riguardo alla prima, la Corte stabilisce che può essere concessa perché risulta che l’imputato commise il delitto nella convinzione che il padre fosse stato, per calunnia ordita da Maria Calabrese, condannato innocentemente, onde egli agì sotto la spinta dell’amore filiale, che è sentimento degno di speciale considerazione e protezione sociali.

Anche l’attenuante del vizio parziale di mente può essere concessa, essendo manifesto che egli, a causa della malattia nervosa di cui soffriva da tempo, la neurastenia (in realtà finora non se ne era mai parlato. Nda), accolse nell’animo, senza adeguata giustificazione, il convincimento dell’innocenza paterna, per la quale perdette quel potere di critica e di controllo che gli era necessario per valutare esattamente il fondamento dell’addebito mosso al padre. Egli, così, irretito dalla sua stessa convinzione, pur rimanendo sereno in ogni altro campo di azione, perdé in parte l’equilibrio mentale.

Quindi la Corte ritiene Pasquale Catanzaro responsabile di tentato omicidio con premeditazione, commesso per errore, e di porto abusivo di pistola. Fatti quattro conti lo condanna, con la concessione delle attenuanti, ad anni 5 e mesi 4 di reclusione, a mesi 1 di arresti, alle spese, ai danni e alle pene accessorie.

È il 18 gennaio 1941.[1]

 

 

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[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.