IL CORTEGGIATORE INVADENTE

Sono circa le 23,00 del 21 aprile 1948 quando un uomo bussa alla caserma dei Carabinieri di Cerchiara di Calabria per consegnare un biglietto del Sindaco di Francavilla Marittima. Il Maresciallo Tommaso Nicolini lo legge e cambia espressione: in contrada Scocciasanti i coniugi Vincenzi Giuseppe e Giovazzini Carmina hanno ucciso nella loro abitazione tal Cerchiara Vincenzo; detti coniugi, dopo la consumazione del delitto, si sono recati in Francavilla Marittima e precisamente nella casa di un loro prossimo congiunto.

– Beh… preparatevi, ci aspetta una notte molto lunga!

Arrivato a Francavilla con i suoi uomini e raggiunta la casa dove si trovano i coniugi, il Maresciallo Nicolini trova una situazione diversa da quella che si aspettava: un medico del luogo sta prestando le prime cure alla Giovazzini ed al Vincenzi che presentano molteplici ferite da arma da punta e taglio in varie parti del corpo. Il medico lo guarda e gli dice:

– Le ferite della donna sono lievi, le giudico guaribili nel giro di soltanto dieci giorni. Quelle dell’uomo invece importano pericolo di vita e credo opportuno ricoverarlo immediatamente nell’ospedale di Corigliano, come ho appena detto al Sindaco…

– Capisco – risponde il Maresciallo – ma prima di portarlo in ospedale credo sia opportuno fargli alcune domande… non si sa mai quello che può accadere!

E così il ventottenne Giuseppe Vincenzi, a fatica, racconta la sua versione dei fatti:

Stasera, dopo aver cenato, mi sono recato a fare la guardia ad un mio appezzamento di terreno coltivato a fave, distante circa un quarto d’ora di cammino da casa mia. Verso le 20,30, nel far ritorno a casa, ebbi a percepire delle grida provenienti dalla mia casa, tanto che fui indotto ad affrettare il passo. Giunto a casa ho sorpreso Vincenzo Cerchiara nel momento in cui tentava di usare violenza a mia moglie; accortosi della mia presenza, Cerchiara ha estratto una rivoltella ed un coltello, facendo l’atto di sparare. Fu allora che mi avventai addosso a lui riuscendo a levargli la rivoltella, che cadde per terra e precisamente sotto il letto. Ne seguì una lotta accanita, durante la quale venni più volte colpito col coltello da Cerchiara e così rimase ferita anche mia moglie ad opera sua. Dopo circa un quarto d’ora di colluttazione, io e mia moglie riuscimmo a farlo cadere per terra e, dopo avergli legato una corda al collo, lo strangolammo e gli demmo anche dei calci sulla testa… poi siamo usciti e siamo venuti qui per farci medicare

E più o meno la stessa versione racconta  la ventiduenne Carmina Giovazzini. Poi il ferito viene trasportato in ospedale ed il Maresciallo si fa accompagnare in contrada Scocciasanti per iniziare le indagini. Raccogliendo le testimonianze dei vicini, le cose non sembrano essere così chiare come sembravano: alcune voci vorrebbero che tra Vincenzo Cerchiara, la vittima, e Carmina correva un’intima relazione! Bisogna approfondire. E così si accerta che il giorno del fatto, verso le ore 13, mentre Vincenzo reduce dallo scalo ferroviario di Torre Cerchiara transitava dinnanzi all’abitazione della Giovazzini con il suo carretto carico di quattro persone, fu chiamato da quest’ultima e con la medesima aveva avuto un colloquio. Che cosa si dissero i due? È quello che la mattina dopo l’omicidio il Maresciallo Nicolini vuole sapere da Carmina e le cose cambiano radicalmente:

Cerchiara da qualche tempo mi perseguitava con una corte assidua e non mi dava un momento di pace, tanto che finii per informare mio marito; costui, non potendo più sopportare il comportamento di Cerchiara, mi manifestò la decisione di ucciderlo, decisione che venne condivisa da me. Fu così che, quando vidi transitare Cerchiara dinanzi alla mia abitazione, lo chiamai e lo invitai a recarsi quella sera stessa a casa mia, facendogli intendere che mio marito trovavasi assente. Cerchiara, ignaro del tranello tesogli, venne all’appuntamento ed appena entrato in casa tentai di avvelenarlo offrendogli del vermouth in cui io e mio marito avevamo sciolto della medicina per topi, senonché egli, dopo di averlo assaggiato, lo rifiutò per il suo sapore sgradevole e sospetto e, subodorando il pericolo che su di lui incombeva, si avviò verso la porta manifestando l’intenzione di andarsene. Allora mi parai davanti a lui per impedirgli di uscire mentre mio marito, che si era nascosto dietro il letto, uscì dal suo nascondiglio e gli si avventò contro, dando origine ad una lotta accanita, svoltasi con quelle modalità e conseguenze che sia io che mio marito abbiamo già raccontato…

La donna conferma questa versione prima davanti al Pretore di Trebisacce e poi davanti al Giudice Istruttore di Castrovillari.

Giuseppe Vincenzi no, conferma fino alla noia la sua prima versione, aggiungendo – ed insistendo molto sulla nuova circostanza – che soltanto dopo la consumazione del delitto sua moglie ebbe ad informarlo della assidua corte che Cerchiara aveva a lei fatto.

Quando il 21 maggio successivo il Giudice Istruttore interroga nuovamente Carmina e le contesta la nuova affermazione del marito, la versione dei fatti cambia ancora:

Per sottrarmi alla corte di Cerchiara avevo deciso di sopprimerlo invitandolo all’uopo in casa e non è vero che io e mio marito eravamo d’accordo per ucciderlo… mio marito giunse improvvisamente in casa quella sera, quando mi trovavo in colluttazione con Cerchiara… il resto lo sapete…

Dopo un paio di settimane, però, Carmina ci ripensa e torna sulla versione precedente:

Un accordo tra me e mio marito ci fu per la consumazione del delitto e già da tempo avevo informato Giuseppe della assidua corte che Cerchiara mi faceva

E secondo gli inquirenti questa è la verità perché Carmina ripete questa versione in faccia al marito in un violento confronto, ma ci sono delle circostanze che confermano e smentiscono contemporaneamente le versioni dei coniugi: è vero, come hanno raccontato i due imputati, che sotto il letto c’era una pistola automatica; è vero che c’era un coltello; è vero che ci fu una violenta colluttazione per il disordine nella stanza e le sedie rovesciate (oltre, e principalmente, per le ferite riportate sia dagli imputati che dalla vittima); è vero che la morte di Cerchiara è stata cagionata da asfissia meccanica per occlusione delle vie aeree mediante strangolamento; ma è vero anche che Giuseppe Vincenzi poteva benissimo trovarsi nascosto nel punto e nella posizione indicata dalla moglie – cioè dietro il letto – senza che Cerchiara avesse potuto scorgerlo nell’atto in cui entrava nella casa o nel mentre in essa si intratteneva; ed è vero che su un cassettone i Carabinieri hanno trovato una bottiglia ed un bicchiere contenenti del vermouth che, fatto analizzare, presenta tracce fosfuro di zinco, tossico velenosissimo e di cui bastano grammi 0,05 per produrre la morte. Ma secondo i periti, anche se Cerchiara avesse bevuto tutta la bottiglia non sarebbe morto e spiegano il perché: In primo luogo perché, non essendo il fosfuro di zinco solubile in acqua ed alcool, una volta versato nella bottiglia del vermouth il veleno doveva andare, come andò, a depositarsi sul fondo della bottiglia stessa e, come in effetti avvenne, nel bicchierino destinato alla somministrazione non potevano che passare tracce inapprezzabili del veleno e quindi innocue; in secondo luogo perché, anche se tutto il veleno versato nella bottiglia anziché sedimentare fosse rimasto in sospensione, cosa inammissibile, e, cosa ancora più inammissibile, fosse stato tutto fatto ingerire alla vittima, è facile stabilire che nemmeno in questo caso si sarebbero raggiunte le dosi tossiche. Infatti, la quantità di filtrato repertata dal perito, comprendente naturalmente l’eccipiente e il veleno propriamente detto, è risultato di grammi 1,038; poiché normalmente le analoghe polverine topicide contengono al massimo il 20% di fosfuro di zinco (ma di solito molto meno, il 10-15%) come si rileva dall’esame di numerose specialità esaminate, l’intera quantità di fosfuro di zinco contenuta nella bottiglia era al massimo di grammi 0,2076 circa, inferiore di circa la metà alla dose tossica indicata in grammi 0,05.

In questo frattempo le ferite di Carmina sono guarite in una decina di giorni, come previsto dal medico, mentre per quelle di Giuseppe, superato il pericolo di vita, ci sono voluti trentuno giorni. E nello stesso frattempo si scopre che Cerchiara andava sbandierando continue vanterie sul conto di Carmina, affermando ogni qualvolta gli si presentava l’occasione e, anche non richiesto, che aveva relazioni intime con la donna, che al contrario viene definita da tutti donna di ottima moralità, che mai aveva dato luogo a rilievi sul suo conto.

Poi arriva il rinvio a giudizio di marito e moglie davanti alla Corte d’Assise di Rossano per rispondere di concorso in omicidio premeditato.

E la Corte sgombra subito il campo da ogni equivoco: la responsabilità di entrambi i prevenuti non può essere posta in dubbio. Detto questo è necessario stabilire in quali termini debbano essere definite le singole responsabilità. Intanto la Corte comincia col dire che, viste le risultanze degli elementi acquisiti, non si può dubitare nemmeno dell’esistenza dell’accordo tra marito e moglie, tendente alla soppressione del Cerchiara e ciò perché l’accordo stesso trova il suo addentellato di prova non solo dalle varie dichiarazioni di Carmina Giovazzini, ma altresì in alcune circostanze di fatto ed in considerazioni di ordine logico. Per esempio, riguardo all’invito fatto da Carmina a Cerchiara per attirarlo in casa la sera del 21 aprile, devesi necessariamente argomentare che fu concertato dai due coniugi perché altrimenti riesce inspiegabile come Carmina Giovazzini abbia potuto invitare Cerchiara a recarsi in casa sua proprio in una sera il cui suo marito non trovavasi assente dall’abitazione o, per lo meno, in luogo tanto distante da casa, da permettere ed agevolare il fissato appuntamento. Ma c’è di più secondo la Corte: nel pomeriggio del 21 aprile, Carmina non poteva sapere che suo marito quella sera si sarebbe momentaneamente assentato, quando si pensi che, anche ad esserne a conoscenza, non poteva sapere il momento preciso dell’allontanamento, né si sarebbe arrischiata di fare venire in casa il Cerchiara in un brevissimo periodo di assenza del marito, mentre d’altra parte non le mancava certamente la possibilità di fare ciò in altra occasione più propizia.

E, se non bastasse, c’è un’altra circostanza che prova l’accordo tra i due imputati: la preparazione del veleno. Si potrebbe obiettare che Carmina fece tutto da sola, ma l’obiezione cade durante il dibattimento quando viene dimostrata l’impossibilità per Carmina di procurarsi il tossico nei giorni precedenti al fatto, perché impossibilitata a muoversi da casa per una grave malattia di cui era affetta la sua bambina. A proposito del veleno che, come abbiamo visto, era assolutamente inidoneo ad uccidere, la Corte bolla questo tentativo come fatto dai due nella loro rozzezza e ignoranza di servirsi di un’arma insesistente, oltre che inidonea ad essere usata di soppiatto ed infatti Cerchiara ne ne accorse immediatamente. Ma la loro rozzezza ed ignoranza, unite alla reazione inattesa di Cerchiara li salvano dall’ergastolo perché la Corte osserva che queste due circostanze fanno cadere l’aggravante della premeditazione per due ordini di motivi. Primo: il delitto pre-pensato era quello di veneficio mediante somministrazione proditoria di un bicchierino avvelenato e basta; il delitto di cui gli imputati devono discolparsi è invece quello di omicidio in colluttazione, sorta imprevedibilmente, condotta con vicende quanto mai alterne, risoluta da un gioco di elementi imponderabili, secondo la linea del caso e non delle intenzioni e quindi è facile convincersi che debba senz’altro escludersi che tra preordinazione di una mescita avvelenata e la tragica e caotica rissa scaturita soltanto dalla reazione imprevedibile della vittima, che non si contentò di non aver bevuto, ma volle reagire in modo inaspettato e impensabile dagli avversari, non solo non sussista uniformità di “processo” causale, quanto nemmeno identità di “rapporto” causale. Non si può, in altre parole, affermare che gli imputati abbiano “premeditato” ciò che appariva sicuramente non meditabile; devesi all’opposto ritenere che se essi avessero potuto immaginare, sia pure confusamente, ciò che sarebbe avvenuto, diverse sarebbero state le modalità della loro condotta, perché non si sarebbero esposti, inermi, al rischio di soccombere anziché riuscire nella vendetta progettata. Secondo: il delitto pensato dagli imputati era impossibile per assoluta inidoneità del mezzo perché il veleno prescelto, a base di fosforo, per il suo fortissimo lezzo agliaceo rendeva impossibile una somministrazione proditoria e, infatti, si verificò che la vittima predestinata, appena avvicinato alle labbra il bicchiere si rifiutò di berne e si convinse del tranello.

Va bene. Ma potrebbe esserci qualcosa che potrebbe far comunque propendere per la premeditazione: la possibilità che marito e moglie abbiano pensato ad un piano alternativo, lo strangolamento, e abbiano predisposto i mezzi idonei, la corda, nel caso in cui l’avvelenamento non fosse riuscito: è quello che sostiene la parte civile. La Corte, però, smonta questa ipotesi bollandola come puerile perché, esaminata la corda, si è rilevato trattarsi di un piccolo pezzo di corda, tutto nodi e giunture, che si trovava colà, casualmente, assieme agli attrezzi da lavoro. È evidente che non si sarebbe preparato un mezzo così rudimentale per sopprimere un uomo aitante e prestante come Cerchiara, un mezzo che aveva tutte le caratteristiche per non funzionare al momento opportuno, sia spezzandosi durante l’azione, sia inceppandosi in uno dei nodi senza giungere a formare il cappio letale.

Chiariti tutti gli aspetti, la Corte derubrica il reato ad omicidio volontario e concede ad entrambi gli imputati le attenuanti di avere agito per motivi di particolare valore morale, dello stato d’ira e le generiche. Le prime due attenuanti vengono concesse perché i due imputati si determinarono ad agire non solo a tutela del loro onore insidiato e posto in pericolo dalla corte assidua che Cerchiara faceva a Carmina, ma soprattutto per le vanterie della vittima sulla inesistente relazione con l’imputata. Le attenuanti generiche vengono concesse sia per gli ottimi precedenti penali e giudiziari, sia dalle modalità del fatto, sia, e principalmente, per adeguare la pena al caso. E ne spiega il perché: pena che risulterebbe di una certa entità anche dopo la diminuzione operata in dipendenza delle due prime attenuanti e ciò al fine di potere ottenere che i due imputati, dopo la espiazione della pena che si deve loro infliggere, possano ritornare alla loro casa e ricostruire la famigliuola  dispersa per il comportamento di un uomo che tutto aveva fatto per disgregare quella famiglia.

Fatti i dovuti calcoli, ai prevenuti va inflitta la pena di anni sei, mesi due e giorni venti di reclusione, oltre le pene accessorie, ai quali, però, vanno tolti altri tre anni che la Corte, visto il D.P. 23/12/1949, dichiara condonati ad entrambi gli imputati, restando anni tre, mesi sei e giorni venti.

È il 31 ottobre 1950 e, considerato che Carmina e Giuseppe sono stati arrestati il 21 aprile 1948, restano loro da scontare ancora 9 mesi.[1]

 

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[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Rossano.