SOLDATI ITALIANI E RAGAZZE GRECHE

La mattina del 12 luglio 1945 è una mattina caldissima ma troppo calma nella Questura di Cosenza. Il Vice Commissario Aggiunto, dottor Tullio Corrado, dopo aver letto la posta si dedica a firmare qualche scartoffia. Poi qualcuno bussa alla porta, è un agente con un biglietto in mano:

– L’hanno portato adesso dall’ospedale, hanno ricoverato una straniera… pare che si tratti di una cittadina greca.

– Una greca?

– Signorsì, una greca!

Cosa ci fa una greca in un ospedale del Sud Italia ormai liberato? La legge impone di fare accertamenti e il dottor Corrado decide di andare personalmente ad indagare per rompere la monotonia della giornata, ammesso che riescano a capirsi a vicenda, s’intende.

Con grande sorpresa del dottor Corrado, Maria Calocridachi, poco più che adolescente, capisce e parla discretamente l’italiano, ma il problema è che è ricoverata nel reparto maternità ed in questi casi c’è sempre una sorpresa, buona o cattiva che sia, in arrivo.

– Sono di Eraclion, nell’isola di Creta, e sono nata il 21 ottobre 1927 – si presenta, poi inizia a raccontare –. Quando arrivarono in Creta le truppe italiane, ebbi occasione di conoscere il soldato Vittorio Granata, con il quale strinsi amicizia. Vittorio frequentò per vario tempo la mia casa, fino a quando non venne la caduta dell’esercito italiano. In quel tempo Vittorio si rifugiò in casa mia e qui si trattenne per sfuggire ai tedeschi, con il mio aiuto. Io, infatti, tenni lui e due altri soldati nascosti in una cantina in casa mia e vi restarono fino a che non vennero i patrioti greci a prendere sia Vittorio che gli altri. Vittorio stette con i patrioti per due mesi e poi fece ritorno in casa mia, accompagnato da un ufficiale dei patrioti. Quando Vittorio fece ritorno in casa mia, dopo qualche giorno, era il 18 marzo 1945, contrasse matrimonio con me alla presenza del prete della chiesa di San Nicola nella frazione Nea di Alicarnasso. Dopo il matrimonio io e Vittorio siamo stati insieme per tre mesi in casa mia e poi andammo via dal paese per fare ritorno in Italia. In quel tempo erano già venuti in Creta gli inglesi e questi fecero rimpatriare alcuni italiani, tra cui Vittorio. Poiché Vittorio dichiarò che io ero sua moglie, gli inglesi fecero partire anche me. Giunti in Italia, mio marito fu chiuso in un campo di concentramento in Bari per un periodo di contumacia ed io restai qualche giorno in quella città e poi partii per Cosenza. Qui giunta, sola, alla stazione incontrai delle signorine e queste mi condussero dalla madre di Vittorio, di cui avevo l’indirizzo. Successivamente rientrò anche Vittorio ed il giorno successivo al suo arrivo venne una guardia che mi condusse su di una carrozza all’ospedale

– Non vedo problemi. Auguri! – il dottor Corrado le sorride e fa per andare via.

– Aspettate! – lo ferma Maria Calocridachi, poi dice qualcosa che suona come l’esplosione di una bomba – Quando eravamo sulla nave, per la prima volta Vittorio mi disse che lui era già sposato, ma io non volli credergli e lo seguii ugualmente

– Sposato? Non è che avete subito minacce dalla famiglia del Granata?

Dalla famiglia di Vittorio non ho avuto alcuna minaccia.

– Ma è sicuro che vi siete legalmente sposati in Grecia? Avete dei documenti?

Nella mia casa in Eraclion ho la dichiarazione dell’avvenuto matrimonio ed avevo anche una dichiarazione degli inglesi, che però mi è stata rubata nei pressi di Bari con altre mie cose

Corrado se ne va, comincia a stendere il rapporto e fa convocare Vittorio Granata.

Durante la guerra mi trovavo nell’isola di Creta, nei pressi di Eraclion. Quando l’Italia firmò l’armistizio e noi italiani stavamo per essere presi prigionieri dei tedeschi, io ed un altro mio amico ci rifugiammo in casa di alcuni greci che avevamo precedentemente conosciuto. In quella casa si trovava una ragazza di nome Maria, la quale sempre si interessò di noi, anche a rischio della propria vita. Successivamente, mentre ero nascosto in casa di Maria, fui preso prigioniero dai ribelli greci e solo dopo tre mesi fui accompagnato di nuovo nei pressi di Eraclion da un ufficiale dei ribelli. Qualche tempo dopo, il 18 marzo del 1945, contrassi matrimonio con Maria. Il prete ci rilasciò anche regolare certificato di matrimonio, che però è rimasto ad Eraclion, dato che improvvisamente gli inglesi, che intanto erano sbarcati a Creta, ci fecero partire. Maria fu accolta sulla nave in quanto io dichiarai che essa era mia moglie.

– Ma glielo avevi detto che sei sposato?

A Maria non avevo mai detto di essere sposato. Glielo comunicai solo quando eravamo sulla nave, ma essa non volle credermi e mi seguì lo stesso.

– Ma benedetto ragazzo, lo sai in che guaio ti sei cacciato? Come si chiama tua moglie?

– Pennino Concetta…

– Ah! Pennino…

– Si, la figlia di don Luigi…

– E allora i guai sono doppi! È successo qualcosa a casa dei suoceri?

– Beh… qualche dissidio

– Capisco, puoi andare, per ora – Termina Corrado sorridendo ironicamente, poi congeda Vittorio Granata e termina il rapporto, annotando: la prima moglie del Granata, detto per inciso, è figlia del noto pregiudicato Pennino Luigi.

Le versioni di Maria e Vittorio coincidono e sembrano non esserci dubbi circa il reato di bigamia da contestare all’ex soldato. Piuttosto, ci sarebbe da preoccuparsi della sorte di Maria Calocridachi e del bambino che partorirà tra qualche mese. Terminato il rapporto, al Vice Commissario Aggiunto dottor Tullio Corrado non resta altro che trasmetterlo in Procura per il seguito di competenza.

Le cose restano ferme per un paio di mesi, poi il 5 settembre 1945 il Procuratore del regno formula la sua richiesta al Giudice Istruttore: dichiari non doversi procedere contro Granata Vittorio in ordine al delitto ascrittogli, perché si tratta di persona non punibile per mancanza di richiesta del Ministro della Giustizia e contro la quale l’azione penale non può essere iniziata. Ah!

A stretto giro arriva la sentenza istruttoria: Poiché il reato del quale dovrebbe rispondere l’imputato è stato commesso in territorio estero ed in danno di una straniera, per procedere è necessaria la querela di parte o la richiesta del Ministero della Giustizia, ma manca l’una e l’altra.

Fine. Sul fatto che Maria Calocridachi non abbia inteso (o non potuto) sporgere querela non ci sono dubbi, figuriamoci. Sarebbe da chiedere alla Procura se, visto il breve tempo tra la scoperta del reato e la chiusura dell’istruttoria, le carte siano state trasmesse al Ministero per la valutazione del caso, perché non ci sono documenti che lo provino.

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È passato meno di un mese da quando Vittorio Granata è stato perdonato dalla Giustizia e da sua moglie e negli uffici della Questura regna la stessa calma di tre mesi prima, da quando, cioè, il dottor Corrado andò in ospedale ad ascoltare la storia di Maria Calocridachi. Verso metà mattina dell’8 ottobre 1945 il dottor Corrado sta dando un’occhiata alla posta, quando il piantone annuncia la visita di una donna che deve fare una denuncia. Accomodatasi, la donna comincia a parlare in un italiano stentato e con un forte accento stranamente familiare al funzionario:

– Mi chiamo Maria Iannacopulos, sono nata a Calamata in Grecia – “no! Un’altra greca, ci risiamo!” pensa Corrado, passandosi una mano sulla fonte – e sono residente nel centro raccolta e smistamento profughi di Foggia. Nel periodo subito precedente l’armistizio italiano mi trovavo presso una mia zia nelle vicinanze di Atene ed ivi conobbi, tra gli altri, un soldato italiano, Francesco Principe. Quando avvenne l’armistizio, io presi ad aiutare Francesco il quale, dal posto ove si trovava, venne a trovarmi a casa mia ad Atene. Io non potevo tenerlo con me perché, essendo italiano, non andava d’accordo con quelli della mia famiglia, dato che i miei fratelli erano andati con i reparti dei patrioti. Nascosi Francesco presso una persona a me amica ed ivi lo tenni nascosto mentre io pensavo a lui ed a quanto potesse essergli necessario per vivere, senza poter prendere nulla dalla mia casa, ma lavorando. In quel periodo, un tedesco che conosceva Francesco e lo aveva spesso visto con me, venne a cercarlo, ma io non volli dire dove si trovasse, non ostante il fatto che fossi stata imprigionata e torturata. Anche altre volte sono finita in prigione, sempre per aiutare Francesco, il quale se ne stava nascosto. Poi vennero gli inglesi e Francesco mi propose di sposarci e preparammo a tale scopo le nostre carte. Io lasciai il rito ortodosso e mi convertii alla religione cattolica e con questo rito ci sposammo nella chiesa di San Giuseppe in Atene. Il matrimonio fu celebrato da don Vittorio Vianello e venne registrato nello stesso mese presso il Consolato Svizzero, che all’epoca curava gli interessi italiani in quella nazione. Eguale registrazione ho compiuto, allo scopo di regolarizzare la mia posizione di cittadina italiana, presso il Municipio di Atene, anche per ottenere, a mezzo delle autorità inglesi, il lasciapassare per l’Italia – e nel fare questa affermazione, toglie di tasca un certificato scritto in greco, uno in latino ed uno del Consolato Svizzero di Atene, poi continua –. Dopo il matrimonio vivemmo insieme fino al 9 novembre, quando Francesco potette tornare in Italia. Le autorità inglesi rassicurarono me e altre donne sposate ad italiani, che presto saremmo state trasferite in Italia, ma questo non avvenne a causa degli avvenimenti politici dell’inverno scorso in Grecia (la guerra civile. Nda), per cui fummo fatte partire dal Pireo in aereo il 15 luglio 1945 e giungemmo a Foggia. Appena arrivata all’aeroporto dovetti essere trasportata nel reparto maternità dell’ospedale di Lucera, ove il 18 luglio detti alla luce una bambina. Appena uscita dall’ospedale provvidi a far telegrafare alle autorità di Cosenza perché fosse avvertito Francesco del mio arrivo colla bambina. Giunta in Cosenza ho trovato la dolorosa sorpresa di ritrovare mio marito con un’altra donna  che aveva sposato dopo il suo rimpatrio dalla Grecia e posteriormente, quindi, al nostro matrimonio.

– Uhm… bene. Le faremo sapere.

Il dottor Corrado fa rintracciare Francesco Principe e lo interroga:

Vero è che, dopo aver sposato il 4 giugno 1944 Maria Iannacopulos in Grecia, ho successivamente sposato a Cosenza, il 4 giugno 1945, Rosa Porco, con la quale ora convivo regolarmente, ma potete capire in che condizioni ci trovavamo in Grecia dopo l’armistizio mi rifugiai in casa di Maria, pochi giorni dopo sono stato preso dai tedeschi e fui imprigionato e poi trasferito in un campo di concentramento, dal quale riuscii a fuggire e mi recai di nuovo nella casa in cui ero stato già ospitato. Stetti alcuni giorni e poi andai ad Atene con Maria che mi nascose nella capanna di una vecchia. Stetti lì vari mesi e ogni giorno o la vecchia o Maria venivano a portarmi da mangiare. Poi dovetti lasciare la capanna  e con l’aiuto di elementi patrioti greci trovai lavoro e stavo in una casa in Atene ove, tempo dopo, venne a raggiungermi Maria la quale era stata scacciata, a suo dire, da suo cognato a causa della sua relazione con me. Io le feci presente che in Italia avevo, da lungo tempo, una relazione e che era mio obbligo morale nel far ritorno di sistemare. Nonostante tali mie rivelazioni, Maria mi chiese di sposarla. Io feci ancora presente la mia situazione, ma poi altre persone greche si intromisero e mi indussero a contrarre matrimonio, che avvenne il 4 giugno 1944 nella chiesa cattolica Dionigi Areopagita. Non so se il matrimonio sia stato poi trascritto nel municipio di Atene o nella legazione italiana del consolato svizzero. Ritornato in Italia ho ripreso la mia vecchia relazione e nel giugno 1945 ho contratto nuovo matrimonio con Rosa Porco. A Rosa non avevo detto la vera mia situazione, ma avevo solo accennato ad una promessa di matrimonio con una ragazza greca. La figlia nata da Maria potrebbe essere mia, ma non ne sono certosono stato costretto dalle ragioni contingenti del momento ad unirmi con Maria e poi a contrarre matrimonio con essa

– Ma lo sapevi che tua moglie, quella greca, era arrivata in Italia?

– Si, una guardia comunale mi mostrò il telegramma, ma non mi sono potuto occupare della mia vera famiglia perché non sapevo quale atteggiamento prendere!

– Bene, vedremo. Intanto c’è la querela ed i fatti mi sembrano evidenti, devo farti portare in carcere.

I racconti di Maria e Francesco sono abbastanza discordanti tra di loro su molte circostanze, ma l’impressione è che la ricostruzione dei fatti più rispondente alla verità sia quella fatta da Maria, così Corrado stende il suo rapporto per la Procura e per Francesco Principe usa parole durissime: L’egoismo e la malafede del Principe sono più che evidenti, dato che egli, pur di assicurarsi delle possibili condizioni di vita in terra straniera ed assicurarsi l’incolumità tra persone che lo consideravano nemico, non ha esitato a contrarre un regolare matrimonio, a procreare un figlio ed a dimenticare poi, a cuor leggero, quanto era avvenuto e, giunto in Italia, contrarre un nuovo matrimonio con la sua vecchia amante. Per quanto si è esposto, Principe Francesco è responsabile di bigamia e violazione degli obblighi di assistenza familiare e viene denunziato alla S.V. Ill/ma per le responsabilità emergenti a suo carico, significando che il medesimo trovasi racchiuso nelle locali carceri a disposizione di V.S.

Il reato di bigamia non può essere cancellato, ma quello di violazione degli obblighi familiari di assistenza si, così Francesco Principe assume formale obbligazione scritta – presente il Sostituto Procuratore del Regno, cav. Dott. Ammirati – di provvedere al sostentamento della moglie greca, l’unica legalmente riconosciuta (secondo l’articolo 5 della prima Convenzione del L’Aja, accettata e ratificata dall’Italia e dalla Grecia, il quale dispone che per la validità del matrimonio è necessario che esso sia stato celebrato secondo le norme stabilite nel paese in cui il matrimonio siasi affettuato. Ora, in Grecia, secondo la legge vigente, l’atto celebrato dinnanzi un ministro di culto ammesso nel territorio ellenico è valido a tutti gli effetti civili) e del figlio, anche se secondo l’avvocato Francesco Vaccaro il matrimonio contratto in Grecia non ha prodotto effetti civili, non essendo stato trascritto nel registro dello stato civile del comune di Cosenza (nonostante che sull’atto del matrimonio celebrato ad Atene ci sia il visto del Ministero degli Esteri greco che riconoscendone la validità ne ha ordinato la trascrizione qui in Italia). Comunque, la formale obbligazione gli apre le porte del carcere in libertà provvisoria e l’uomo comincia subito a lavorare, provvedendo ad inviare a Maria, tramite l’Ufficiale Giudiziario, la prima rata di 500 lire. Poi più niente e Maria Iannacopulos lo denuncia di nuovo, riconoscendo, però, che i familiari di lui, e in special modo i fratelli, da me interpellati, hanno compreso la mia tragica situazione, abbandonata in questa città priva di mezzi e di qualsiasi aiuto, e sono disposti ad offrirmi il loro aiuto, a patto che mio marito mi riprenda con lui per vivere la nostra vita e badare alla nostra legittima creatura. Ma questa volta va oltre e denuncia anche Rosina Porco perché sarebbe stata a conoscenza del precedente matrimonio e chiama in causa il parroco della parrocchia di Santa Teresa del Bambin Gesù, don Eugenio Romano, al quale lei e sua madre mostrarono i documenti del matrimonio greco che le aveva spedito Francesco e che, giustamente, le avvisò sulle conseguenze penali alle quali sarebbero andati incontro celebrando un secondo matrimonio. Scena che si ripeté al ritorno di Francesco ed anche questa volta don Eugenio li ammonì sulle conseguenze penali. Non solo: temendo che i due, edotti della situazione, potessero addirittura tentare di trarre in inganno un altro sacerdote, preavvisò la Curia perché non accettasse eventuali richieste di matrimonio da parte di essi, ma Francesco e Rosa non osarono tanto, sposandosi civilmente.

Il primo a doversi difendere dalle accuse è Francesco Principe:

Non è vero che io non abbia provveduto al sostentamento della Iannacopulos perché le ho allestito una casa e già le ho assicurato quanto le occorre fino a tutto il dicembre corrente. Dal canto suo, ella lavora da sarta e guadagna sufficientemente.

– E la bambina?

La bambina sta con lei e neanche a lei faccio mancare nulla, in quanto gli somministro mezzo litro di latte al giorno.

Basterà ad evitargli altri guai? Vedremo. Intanto anche Rosina Porco deve difendersi:

È vero che dal 4 giugno 1945 convivo con Francesco Principe, avendolo sposato regolarmente quello stesso giorno. Nego, pertanto, di avere concorso al reato ascrittomi… da circa dieci anni amoreggiavo con Francesco, il quale mi promise il matrimonio allorché partì come soldato, anche perché mi aveva già posseduto. Durante il lungo periodo di servizio militare, Francesco mi scriveva regolarmente e, a mezzo procura, il 6 aprile 1945 facemmo le pubblicazioni di matrimonio. Tornato a Cosenza

– Un momento, un momento! – la interrompe io dottor Corrado – scriveva regolarmente? Non credo fosse possibile scrivere mentre si nascondeva per non farsi prendere dai tedeschi e magari ha anche scritto che si era sposato in Grecia!

– Non lo so, ma mi scriveva e nulla mi disse del matrimonio contratto in Atene con Maria Iannacopulos. Io, sapendolo celibe e non sospettando neppure che fosse già coniugato, lo sposai…

– Volete sporgere querela contro Principe? – la domanda è d’obbligo.

Non faccio alcuna istanza alla Giustizia perché non ho subito alcun danno.

Per gli inquirenti gli atti che attestano il reato di bigamia sono più che sufficienti: Francesco Principe e Rosa Porco vengono rinviati al giudizio del Tribunale di Cosenza per bigamia (Francesco anche per la violazione degli obblighi di assistenza familiare). La causa si discute il 20 maggio 1946 e sul tavolo del collegio giudicante c’è il colpo finale per Francesco Principe e Rosa Porco: una comunicazione del Ministero degli Esteri italiano che recita:

si comunica che in Grecia, in base alle leggi locali, è ammessa la forma di celebrazione del matrimonio col rito religioso, valida agli effetti civili.

C’è poco altro da dire se non che, letti gli atti ed escussi i testimoni, il Tribunale dichiara gli imputati colpevoli dei reati loro ascritti, con le attenuanti generiche e di avere agito per motivi di particolare valore morale in favore della Porco (la necessità di riparare col matrimonio alla congiunzione carnale di Francesco con Rosa, prima che il giovanotto partisse per la guerra) e condanna Francesco Principe alla pena di anni tre di reclusione più lire duemila di multa e Rosa Porco ad anni uno, mesi tre e giorni dieci tre di reclusione. Per entrambi le pene accessorie, le spese ed i danni.[1]

 

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[1] ASCS, Processi penali; Processi definiti in Istruttoria.

N.B. La foto di copertina è di proprietà dell’Archivio Centrale dello Stato.