IL BAMBINO CHE NESSUNO VOLEVA

È il 31 gennaio 1933 quando il Brigadiere Lorenzo Corrado, comandante la stazione dei Carabinieri di San Martino di Finita, ascolta il racconto di Eugenio Salerno, contadino della frazione Sartano di Torano Castello, che ha quasi dell’incredibile:

Il 12 agosto 1930, il Maresciallo dei Carabinieri di Torano mi affidava, perché lo allevassi e custodissi, un bimbo di pochi mesi, Giovanni Micieli, figlio dei coniugi Oreste e Virginia Alfano, abbandonato dai genitori. Sono decorsi due anni e mezzo e i genitori non ànno ritirato e non vogliono ricevere il loro figliuolo, né nulla corrispondere per le cure ed il sostentamento prestato al bambino. Voglio domandare nelle vie civili la rivalsa delle spese ed il pagamento delle mercedi per gli alimenti e le cure che ho prestato al loro figliuolo e intanto faccio presente di non potere più alimentare il fanciullo perché a me stesso manca il pane. Non sono in grado di prestargli alcuna cura, dovendo con la mia famiglia dedicarmi quotidianamente al lavoro dei campi per non morire di fame… Brigadié, mi dovete esonerare dalla cura del bambino, indicandomi a chi e come devo consegnare il bambino

– E così su due piedi che vi posso dire? Intanto faccio qualche indagine per verificare quanto mi avete detto e poi mando la denuncia al Procuratore del re… passerà un po’ di tempo… dovete avere pazienza…

Le indagini del Brigadiere Corrado confermano il racconto di Salerno e, anzi, aggiungono nuovi, sconcertanti particolari alla storia. Risulta, infatti, che il 12 agosto 1930 tale Oreste Petrelli avrebbe avuto l’incarico dalla madre del bambino di portarlo a casa dei nonni materni, ma che per il reciso rifiuto della madre di essa, accompagnato da minacce di fucilate se Petrelli avesse osato entrare in casa col bambino, non sapendo cosa fare, quando passò davanti alla casa di Salerno e vide la moglie di questi che allattava, pensò bene di entrare e lasciare il bambino, allora di 9 mesi, sul pavimento e con la preghiera di custodirlo momentaneamente, ma non si fece più vivo.

L’abbandono del bambino, però, terribile di per sé, ha un antefatto anche peggiore, che diede luogo a più procedimenti penali, nati nel momento stesso in cui nacque Giovannino.

E quindi dobbiamo tornare indietro di più di tre anni, al 10 novembre 1929.

– Vado a chiamare il dottore, qui può succedere qualcosa di brutto… un parto al settimo mese è sempre pericoloso – dice Oreste a sua moglie ed alle donne che sono accorse per aiutarla a partorire, dopo aver fatto il conto partendo dal 13 aprile 1929, giorno del loro matrimonio. Quando torna con il medico, però, Virginia ha già partorito un bel bambino ed il dottore è un po’ in imbarazzo perché non sa come dire al padre che non si tratta di un parto prematuro, ma a termine e quindi il bambino è stato concepito un paio di mesi prima del matrimonio. Oreste, euforico sia perché il figlio maschio e la moglie stanno bene e sia per qualche bicchierino di troppo, sembra non far caso alle parole del medico ed al disonore che le possibili corna gli porteranno appena la notizia si spargerà in paese, così la mattina dopo va al comune a registrare la nascita e dare al bambino il nome del proprio genitore. Ma quando fa di nuovo i conti e si accorge che non tornano, mette alla porta Virginia ed il bambino, che vanno a vivere a casa dei nonni materni.

Passano mesi, nove per la precisione, durante i quali Virginia fa di tutto per spiegare ad Oreste le sue ragioni e farsi perdonare di aver ceduto ad un suo cugino, adesso emigrato in America. Ma questa è una pietosa bugia e Virginia lo sa benissimo. No, così Oreste non la accetterà mai più, bisogna che gli dica tutta la verità, anche se terribile:

– È stato mio padre… mi ha presa due volte… ti prego, io non posso stare in quella casa, con quegli occhi sempre addosso, fammi tornare.

Oreste gira la testa dall’altra parte, si batte i pugni in testa, poi risponde:

– E va bene, torna con me, ma tu sola, il bastardo non lo voglio!

– Ma…

– Se vuoi tornare da sola sei la benvenuta, quello non lo voglio, lascialo al padre!

Le cose, come abbiamo già visto, non vanno come Oreste e Virginia speravano, anzi peggiorano di giorno in giorno, sia perché in paese la gente comincia a parlare e sparlare del brutto fatto, schierandosi chi da una parte e chi dall’altra, sia perché i due, dopo l’esposto di Salerno, vengono denunciati per abbandono di minore e violazione degli obblighi di assistenza familiare. A questo punto qualcosa bisogna pur farla e Virginia, con l’avallo del marito, denuncia suo padre per violenza carnale e comincia una vera e propria guerra che noi, per cercare di annodare i fili di questa intricata e brutta storia, dobbiamo necessariamente seguire passo passo.

Devo ricorrere a Vostra Eccellenza – dice Virginia al Procuratore del re che l’ascolta – svelando un segreto che volevo mantenere sempre celato nell’anima addolorata, per sporgere querela contro mio padre Michele Alfano per il delitto di violenza carnale… due volte l’ha fatto…

– Racconta i fatti.

È una ben lunga e dolorosa storia, che cercherò di riassumere come posso, dato anche il tempo che è trascorso.

– Ascolto.

Nel settembre 1928 mio padre, che aveva anche prima mostrato il desiderio insano di congiungersi con me, approfittando di un momento in cui tutti gli altri di famiglia erano fuori per ragioni di lavoro, mi afferrò cercando di farmi violenza. Gridai e alle mie grida accorse Raffaela Salerno, che in quel momento stava entrando in casa nostra, ci vide agitati e comprese tutto, così mio padre dovette rinunziare alla turpe impresa. Alla fine del 1928, Oreste Micieli manifestò il desiderio di sposarmi, richiedendomi a mio padre. Ma costui si oppose, facendo intendere che non fosse un buon partito e, intanto, proseguiva nel pravo intento che si era proposto. A febbraio 1929, nelle ore antimeridiane,  mentre tutti erano in campagna, mio padre volle che l’aiutassi in cantina per travasare del vino… chiuse la porta… mi minacciò con ogni violenza – si copre il viso con le mani e comincia a singhiozzare – e poi… poi riuscì a congiungersi carnalmente con me. Qualche giorno dopo ripeté la congiunzione, sempre con minaccia, sul letto di una mia sorella… rimasi incinta… il quindici aprile 1929 mi sposai con Oreste, il quale non dovette accorgersi di nulla. Però dopo lo sgravio avvenuto circa al settimo mese di matrimonio, mi scacciò di casa

– Gli rivelasti come rimanesti gravida?

Su suggerimento di mio padre gli dissi che era stato un mio cugino, ma non servì… così tornai a casa di mio padre, il quale mi fu largo di benevolenze e mi consigliò la separazione da mio marito, cosa che venne fatta in questo Tribunale, ma poi mi riconciliai con mio marito e gli confessai tutto, però non ha accettato in casa il figlio della colpa. In seguito confessai tutto a mio suocero e ad altre persone.

– È un’accusa molto grave. Hai qualcuno che possa testimoniare in merito alle violenze carnali?

– No, non ho testimoni per provare luminosamente la grave accusa che muovo contro mio padre, però chiedo di essere messa subito a confronto con lui per ricordargli i fatti. Da questo confronto potrà risultare la verità!

Però c’è la donna che casualmente si trovò ad entrare in casa durante il primo tentativo di violenza:

“Lasciami! Lasciami!”, diceva Virginia. Io credetti che il padre la picchiasse ma, in realtà, entrata in casa e avendo visto costui sconvolto e imbarazzato e Virginia coi capelli discinti, sospettai che il padre avesse tentato di violentarla, sospetto che alcuni giorni dopo Virginia mi confermòin seguito mi confidò che il padre era riuscito a violentarla due volte.

Vengono ascoltati altri testimoni, alcuni dei quali dichiarano che a Sartano correva la diceria che a possedere Virginia era stato un cugino e che, contestata l’accusa a costui, egli aveva dichiarato che ad ingravidarla era stato il padre; altri, confermando questa versione, aggiungono di esserne venuti a conoscenza solo dopo che Virginia fu cacciata di casa dal marito e che a raccontare la violenza paterna fu la stessa Virginia. Ma ci sono altri testimoni che smentiscono queste due versioni più o meno simili tra loro e giurano che Virginia sarebbe stata posseduta prima del matrimonio dal suo stesso marito! E dalle indagini spunta anche che Oreste, dopo aver cacciato di casa Virginia, voleva dal suocero la somma di lire ventimila per riprendersela, ma questi rifiutò.

 

Michele Alfano viene arrestato e si rivolge ad un principe del foro cosentino, Pasquale Serra, negando ogni addebito. Anzi, reagisce immediatamente con una denuncia per tentata estorsione, minacce ed abbandono d’infante contro Oreste Micieli e suo padre, ritenuto la mente del complotto ai suoi danni, ma lascia fuori Virginia.

Michele Alfano reagisce perché non è un uomo abituato a subire passivamente gli attacchi e lo dimostra la sua storia personale: emigrato negli Stati Uniti, nel New Jersey, da morto di fame che era riuscì a costruirsi una solidissima posizione economica – in paese, per la verità, danno per certo che la sua fortuna derivi dalla sua affiliazione alla mano nera e, soprattutto, da un grosso colpo messo a segno – che gli consentì di tornarsene a casa con una valigia piena zeppa di dollari e di comprare un latifondo.

Gli inquirenti, pur essendo certi della sua colpevolezza, nello stesso tempo sono confusi: se da una parte è vero che Virginia ripete fino alla noia la stessa, identica versione, facendo pensare che sia proprio quella la verità dei fatti, dall’altra ci si chiede come mai abbia aspettato che il marito la cacciasse di casa per denunciare suo padre. E gli inquirenti sono perplessi anche davanti alla, supposta, richiesta di denaro da parte di Oreste al suocero per riprendere in casa Virginia e, soprattutto, perché sembra impossibile che un giovane che ha fatto il servizio militare – vero spartiacque tra adolescenza e maturità sessuale – non si sia minimamente accorto, la prima notte di nozze, che la sposa non era vergine.

Beh, qualcuno potrebbe meravigliarsi di questa confusione e potrebbe dire che ci sono agli atti gli accertamenti, i riscontri e numerose testimonianze. Si, è vero, dovrebbe essere così, ma prima vi abbiamo parlato di una vera e propria guerra tra padre e figlia, guerra che adesso coinvolge tutto il paese, tanto da far mettere nero su bianco agli avvocati di entrambe le parti: “quella pubblica baldracca”, “i testimoni di Sartano, per fatti che quasi solamente a Sartano si verificano, possono essere sempre pericolosi per la ricerca della verità”, “di quale… zoologia si sono serviti i signori Micieli”, “l’ambiente di Sartano ch’è tipicamente il luogo delle false testimonianze, con il sussidio assai efficace di una notevole posizione economica”, “Sartano è l’ambiente delle più temerarie manipolazioni processuali”, “ubriacone e falso testimone” e così via. Uno spettacolo decisamente indecoroso.

Intanto la causa intentata da Michele Alfano contro il genero ed il consuocero va avanti e l’avvocato Pasquale Serra chiama come testimone di accusa suo cugino, l’avvocato Giovanni Serra. Il problema è che Giovanni Serra aveva assistito Virginia nel periodo in cui era stata cacciata di casa dal marito ed esibisce il verbale redatto dal giudice, nel quale Virginia ammette di avere avuto rapporti intimi prima del matrimonio con l’allora suo fidanzato e questo escluderebbe la violenza paterna. Un fatale errore di Virginia? Si vedrà. Intanto la scelta di chiamare a testimoniare l’avvocato Giovanni Serra è un vulnus nella causa, per cui, correttamente, Pasquale Serra rinuncia all’incarico e gli subentrano Francesco Posteraro e Tommaso Corigliano, molto più aggressivi del loro predecessore nel costruire la difesa.

Inevitabilmente, Virginia è chiamata a spiegare la sua dichiarazione messa nero su bianco nella richiesta di separazione.

Fu mio padre che m’indusse a iniziare il giudizio di separazione contro mio marito, promettendomi di farmi abitare in una stanza della sua casa di abitazione

Ma che cosa, nel 1930, può dire e fare una ragazza per salvarsi dal disonore e dal pubblico disprezzo, una ragazza che si trova tra l’incudine del padre ed il martello del marito? Secondo voi è cosa semplice accusare a cuor leggero il proprio genitore di stupro?

Se continua ad accusare fermamente suo padre una ragione ci sarà. O no? Cosa le costerebbe, se fosse vero, ammettere di avere avuto rapporti intimi col marito prima del matrimonio e se il marito non volesse più saperne di lei, quali problemi avrebbe a tornarsene a casa dei genitori, servita e riverita? Non sarebbe certo la miseria la sua prima preoccupazione.

Poi, per motivi di opportunità, la causa contro i Micieli viene sospesa in attesa che l’istruttoria principale, quella per lo stupro, sia conclusa perché, anche se tra le reciproche accuse di utilizzare falsi testimoni – da notare che spunta anche un fantomatico Giuseppe, che avrebbe messo incinta Virginia –, ormai è agli sgoccioli e gli esiti sembrano molto incerti. La difesa confuta punto per punto, con parole sprezzanti, ogni accusa e quasi scaricando la responsabilità della supposta violenza, che sarebbe quindi una terribile calunnia, su Virginia, considerata una volgare simulatrice, per concludere poi con parole che vogliono toccare il cuore del Magistrato: comunque, ammessa la terribile ipotesi che Michele Alfano non fosse quel galantuomo che tutti stimano e rispettano, ma il più disumano dei padri, come si sarebbe dovuta condurre la innocente figliuola, aggredita da un simile mostro? Ella si sarebbe difesa con tutte le sue forze e sul suo corpo sarebbero rimaste dappertutto impresse le stimmate nate dalla violenza. In ogni caso non avrebbe mai potuto nascondere, pochi momenti dopo, allo sguardo vigile e vorremmo dire divinatore della madre, il turbamento della psiche sconvolta. E Virginia, col cuore spezzato, avrebbe chiesto aiuto e protezione tra le braccia di sua madre e l’una e l’altra si sarebbero sciolte in dirotto pianto, espressione incoercibile di dolore e perdono insieme. La madre, invece, rivela la devozione e la salda incrollabile fiducia per il marito che le fu sempre fedele, perché dimostra che l’amore di Michele Alfano non è bestiale sensualità, ma è l’amore che crea la famiglia, è la pura fiamma dell’affetto che rinsalda quei sentimenti di solidarietà familiare, nel culto dei quali si ritemprano le società umane e per cui soltanto alle volte la vita vale la pena di essere vissuta. Ed in nome di questi sentimenti, noi, con sicura fiducia, chiediamo che sia riconosciuto a Michele Alfano il diritto di assidersi, senza sospetti, accanto al focolare domestico, attorniato dalle sue creature, che ansiose aspettano la parola alta ed illuminata della Eccellenza Vostra.

Il Pubblico Ministero e la Procura, da parte loro, sono assolutamente certi della responsabilità penale dell’imputato: è sufficientemente provata la falsità di tutte queste dicerie di rapporti avuti col proprio marito o col cugino o col fantastico Giuseppe; Virginia, come era naturale, avrebbe voluto nascondere la brutta verità ed è vero ciò che essa afferma, di essere stata spinta a rivelarla allorquando il padre, accogliendola in casa perché era abbandonata dal marito, avrebbe tentato di riprendere la tresca. Così si spiegano tutte le apparenti contraddizioni di costei, prima di romperla col padre. La richiesta delle lire 20.000, che si vuole sia stata avanzata dal padre del Micieli per mettere in condizione i due coniugi per allontanarsi dall’ambiente dello scandalo, non si può sfruttarla al punto da annullare ogni altro elemento di prova facendolo assurgere a movente unico della denunzia. Pertanto chiede che il Giudice Istruttore decida come dalle precedenti conclusioni di rinvio a giudizio.

Chi, il Giudice Istruttore, riterrà più credibile?

Il 14 giugno 1932 viene emessa la sentenza: il Giudice Istruttore ritiene sufficientemente provato che Virginia non subì alcuna violenza da parte del padre, ma che i rapporti antecedenti al matrimonio furono consumati tra i fidanzati. Virginia fu istigata ad accusare suo padre dal marito e dal suocero, che si servirono anche di testimoni compiacenti e quindi non credibili.

Non doversi procedere a carico di Michele Alfano per non aver commesso il fatto a lui ascritto.

A questo punto la causa contro i Micieli può essere ripresa e ci si aspetta che, se Michele Alfano non ha commesso alcuna violenza su sua figlia, la conseguenza logica sia la condanna dei due imputati, almeno per la tentata estorsione. Ma il Pubblico Ministero e la Procura non la pensano così: letti gli atti, osserva che la lamentata tentata estorsione non sussiste in quanto nessuno dei testimoni ha potuto affermare che, effettivamente, gli imputati avessero tentato di estorcere del denaro al Alfano. E non sussiste nemmeno il reato di abbandono di infante, in quanto il bambino, figlio di Micieli Oreste e di Virginia Alfano, non venne affatto dai suoi genitori abbandonato, sì da restare privo di cure e di assistenza, ma venne affidato a Petrelli Oreste, il quale si affrettò a consegnarlo a Salerno Eugenio, che a sua volta lo affidò a Alfano Michele, nonno paterno del bambino. È il 30 ottobre 1930.

Due settimane dopo, il Giudice Istruttore accoglie la richiesta del Pubblico Ministero e dichiara il non luogo a procedere nei confronti degli imputati.

Quindi per un anno abbiamo scherzato: non c’è stata violenza, non c’è stato il tentativo di estorsione e il bambino sta crescendo con e per le amorevoli cure del nonno paterno. Ci sarebbe da ridere, se non fosse tutto un dramma. E ci si aspetterebbe una querela per diffamazione contro Virginia da parte del padre ed una denuncia per simulazione di reato da parte della Procura del re, ma non arriverà mai nessuna delle due.

Il bambino. Non lo abbiamo scordato, è da lui che adesso dobbiamo tornare.

Abbiamo letto della denuncia a carico dei genitori, che devono rispondere alle domande degli inquirenti.

Il bambino a nome Giovanni Micieli, che io ho dato alla luce nel mese di novembre 1929, non è figlio di mio marito, ma bensì di mio padre, il quale mi ha posseduta contro la mia volontà fin dal febbraio 1928 – come vediamo, Virginia continua imperterrita ad accusare suo padre. Nonostante sia stato prosciolto in istruttoria –. Mio marito mi lasciò, ma ultimamente mi perdonò purché non avessi portato meco il bambino, che non gli è figlio. Io allora pensai bene di lasciarlo a mio padre e non so come il bambino sia stato consegnato a Salerno. Sono disposta a riprendere il bambino, ma in questo caso non posso tenerlo nella casa coniugale in quanto mio marito non è disposto a tenerlo… ad ogni modo provvederò a lui con tutti i mezzi che mi sono a disposizione… non avevo nessun obbligo di tenere con me il bambino perché lo concepii con mio padre…

Dopo vive preghiere tenni con me mia moglie, ingiungendo alla stessa di dare il bambino a suo padre, cosa che fece, perciò protesto la mia innocenza e non ho altro da aggiungere – fa mettere a verbale Oreste.

Adesso che Virginia si è impegnata, la situazione di Giovannino dovrebbe essere meno precaria, ma le cose non vanno così, infatti il mattino del giorno 5 febbraio 1933 prende il bambino dall’abitazione del Salerno portandolo alla propria abitazione in Sartano, ma nel pomeriggio, con la scusa che il piccino non stava, finisce per abbandonarlo di nuovo in campagna, a poca distanza dalla casa del Salerno, il quale lo riprese nuovamente.

Il Brigadiere Lorenzo Corrado non sa più che fare per cambiare le sorti del bambino e, prima di convocare in caserma Virginia per contestarle il reato di abbandono, chiede a Michele Alfano di essere caritatevole e accogliere in casa Giovannino ma, dato la gravità dell’astio tra padre e figlia, non si è potuto addivenire ad alcun risultato.

È vero che io lasciai il bambino in campagna, ma vicino alla casa del Salerno, proprio sulla scala e Salerno era presente ed io lo lasciai per terra poiché Salerno non voleva prenderselo – cerca di giustificarsi Virginia, se ci può essere giustificazione.

Virginia Alfano mi riportò il bambino, ma non me lo consegnò, invece lo lasciò a circa duecento metri da casa mia. Essendo per caso passato dal punto dove si trovava il bambino e sentendolo piangere, lo ripresi con me

Così non se ne esce e le diffide ai genitori (almeno ufficialmente questa è la realtà) affinché si occupino del figlio, diventano denuncia per abbandono di minore e violazione degli obblighi di assistenza familiare, inerenti alla patria potestà da essi esercitata.

Il 5 luglio 1934, il Tribunale di Cosenza dichiara gli imputati colpevoli del reato di abbandono di minore e li condanna a giorni 15 di reclusione e a lire mille di multa per ciascuno e alle spese del procedimento. Ordina sospendersi l’esecuzione delle pene inflitte per anni cinque, sotto le comminatorie della legge.

Visto che, nel frattempo, in qualche modo Virginia e Oreste stanno dimostrando di contribuire al mantenimento del bambino, la Corte li assolve dal reato di violazione degli obblighi di assistenza.[1]

E Giovannino? Beh, deve bastarci sapere che ha avuto la possibilità, la capacità e la forza, dopo anni durissimi, di vivere una lunga vita degna di questo nome. Lontano dal paese.

 

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[1] ASCS, Processi Penali.