LA BIECA FIGURA DELL’ODIO

Emilio Cariati ed Eugenia Arnone sono di Torano Castello. Si fidanzarono ufficialmente nel 1933, ma non avendo il di costei padre mantenuto l’impegno circa la quantità della dote promessa, Emilio ruppe il fidanzamento, sposando dopo qualche tempo un’altra e ciò fece nascere un odio implacabile da parte della famiglia di Eugenia nei suoi confronti, a tal segno che Giovanni Pietro Arnone, il padre di Eugenia, non perdeva occasione per manifestare la sua disistima contro il giovane e per minacciare truce vendetta.

Una volta, davanti ad un paio di persone, gli disse:

Tu dovrai finire per le nostre mani!

Bisogna dire che le minacce di morte si intensificarono non appena si sparse la voce del nuovo fidanzamento di Emilio. Ma il fedifrago non subì sempre passivamente quando Giacomo e Giuseppe Arnone, i fratelli di Eugenia, ed il cognato Nicola Maiorano, imbaldanziti dal numero, lo provocarono così gravemente che ne ottennero una violentissima reazione e furono costretti a darsela a gambe levate.

Con il tempo la situazione peggiorò di giorno in giorno, di mese in mese e di anno in anno, tanto da far temere seriamente che tanto mal contenuto rancore potesse sfociare da un momento all’altro in una tragedia.

È il pomeriggio del 16 ottobre 1938 e dalla rottura del fidanzamento sono passati circa quattro anni. Gli Arnone, dopo aver partecipato ad una festa di fidanzamento in contrada Serramanico, stanno tornando a casa, accompagnati da Biagio Biamonte. Percorrendo lo stesso stradale, ma in senso inverso diretti a Sartano, camminano Emilio Cariati, sua moglie e suo fratello Antonio, dopo aver partecipato ad una festa di battesimo.

Appena i due gruppi si incontrano, i Cariati salutano amichevolmente Biagio Biamonte. Subito gli Arnone, spinti dall’assillo del doloroso ricordo, cominciano ad insultarli:

Questi imbecilli ora se ne vanno!

Andate per i fatti vostri che noi non vogliamo essere appestati da voi! – risponde Emilio.

A questa risposta il capofamiglia Giovanni Pietro Arnone gli si avventa contro tentando di colpirlo col bastone, subito seguito da sua moglie Maria che gli pianta le unghie in faccia, e dai figli Giacomo e Giuseppe che cominciano a menare le mani anche contro la moglie ed il fratello di Emilio. Ne nasce una furibonda rissa e sono inutili i tentativi di Biagio Biamonte di mettere pace. È la resa dei conti perché Giacomo Arnone, colpito da una bastonata in testa, estrae la rivoltella e spara contro Emilio Cariati, ma i colpi vanno a vuoto perché il fratello di questi riesce a spostargli il braccio nell’attimo stesso in cui partono i colpi. Ma proprio in questo momento Giuseppe Arnone estrae il coltello e colpisce Emilio con due coltellate, una delle quali gli perfora il terzo ventricolo del cuore, freddandolo all’istante.

La rissa si ferma di colpo e cala un silenzio irreale, rotto solo dai lamenti di Giacomo Arnone, che ha le ossa nasali fratturate perché colpito per sbaglio dall’ultima bastonata tirata da suo padre.

Poi una voce stentorea, quella di Giovanni Pietro Arnone che, nonostante la tragicità del momento e prima di allontanarsi dal posto con tutti i familiari, esclama:

Ai sartanesi bisogna picchiarli sempre in testa!

Quando sul posto arrivano i Carabinieri, trovano solo i Cariati che piangono il morto. Gli Arnone vengono arrestati appena calata la sera e subito interrogati.

– Ammetto di avere esploso due colpi di rivoltella – conferma Giacomo – ma dichiaro di aver ciò fatto dopo avere ricevuto un colpo di bastone da Emilio Cariati

– In realtà i testimoni oculari hanno già dichiarato che la vittima non aveva in mano né bastoni e né altro. Piuttosto tutti sono concordi nel dire che la bastonata ti è stata data da tuo padre per errore.

– Le coltellate gliele ho date io e la rissa scoppiò per alcune parole offensive di Emilio Cariati che, tolto il bastone a mio padre, colpì al naso mio fratello Antonio  – dice Giuseppe, che per cercare di alleggerire la propria posizione mente su quasi tutto, per poi ritrattare nel corso della notte e di nuovo confessare il mattino dopo.

Ho distribuito alquante bastonate, ma ho ciò fatto non con il fine di far male, ma di stroncare la rissa – racconta Giovanni Pietro Arnone, che continua – poi sono stato disarmato per un momento da Antonio Cariati e non da Emilio Cariati

Dagli accertamenti risulta che anche Nicola Maiorano ha menato le mani per aiutare il suocero ed i cognati Arnone, così come le donne della famiglia, che dicono di essersi tenute lontane dai rissanti.

– Sono innocente, mi sono intromesso solo per disarmare della rivoltella mio cognato Giacomo.

Viene interrogata anche la giovane vedova, che racconta:

Avevamo percorso appena pochi passi, che dal gruppo incontrato, e specialmente dalla bocca del padre e dei figli Giacomo e Giuseppe, partirono insolenze di ogni sorta; mio marito rispose: “non ci inquietate che noi stiamo andando per gli affari nostri!”. Fu allora che Giovanni Pietro Arnone tentò di colpire mio marito col bastone, mentre la moglie gli si avventò al viso, graffiandolo. Dopo i figli e tutti gli altri si avventarono contro di mio marito, di mio cognato e contro di me

Secondo Emma Arnone le cose andarono diversamente:

Ritengo che l’origine della quistione sia derivata dal fatto che i miei fratelli, parlando in albanese avrebbero detto che costui era quello che pretendeva mia sorella… forse perché si era parlato in albanese quelli avranno ritenuto di essere stati insultati

Sarà andata così? Secondo i testimoni oculari assolutamente no. Le offese furono pronunciate da Giacomo Arnone in dialetto toranese e non in albanese.

Per la Procura del re di Cosenza questi elementi bastano per chiedere ed ottenere il rinvio a giudizio di tutti gli Arnone con imputazioni che vanno dall’omicidio per Giuseppe, al concorso in omicidio per Giacomo e Giovanni Pietro, alle lesioni personali per le donne della famiglia, e tutti per rissa.

Il dibattimento davanti alla Corte d’Assise di Cosenza si svolge un anno dopo, nelle udienze del 30 e 31 ottobre 1939 e la difesa eccepisce subito che il reato di rissa è insussistente perché, essendo avvenute le vie di fatto fra due opposti gruppi di persone (gruppo Arnone e gruppo Cariati) e non essendo caduta imputazione di rissa su alcuno dei superstiti del gruppo Cariati, implicitamente costoro debbono andare considerati non come rissanti, ma come aggrediti e cioè come soggetti passivi del reato, onde è mancata la rissa per avere avuto luogo, in sua vece, un’aggressione.

Secondo la Corte, argomentare in tal modo è andare oltre la semplice sottigliezza, per cadere nella erronea speculazione, né la circostanza che il Pubblico Ministero abbia omesso – per non indovinabili ragioni – di far carico ai Cariati del detto delitto può, per ciò stesso, costituire sanatoria o preclusione di responsabilità a favore degli Arnone contro cui, giustamente, è stata esercitata l’azione penale.

Detto questo, la Corte passa ad esaminare le singole responsabilità, a cominciare dal reato di rissa: Nicola Maiorano va assolto per insufficienza di prove perché non è stato raggiunto da prova tranquillante, né da gravi, univoci indizi. Giovanni Pietro Arnone, causa causarum della rissa (ha iniziato le violenze e trascinato gli altri a delinquere, nonostante la sua qualità di padre e la prudenza che doveva gridargli la sua età non giovanile) va condannato al massimo della pena edittale e cioè ad anni cinque di reclusione. Giuseppe Arnone, spietato autore dell’omicidio, e Giacomo Arnone, che in quella contingenza ebbe a fare replicato uso della rivoltella, dimostrando pertanto assoluta pravità d’animo, vanno condannati a due anni di reclusione. La Corte, all’opposto, crede di dovere essere mite nei confronti delle imputate, figure secondarie della rissa, condannandole a sei mesi di reclusione ciascuna.

Per quanto riguarda l’omicidio, la responsabilità di Giuseppe Arnone è piena: egli è reo confesso! Su di lui, per giunta, cadono le incolpazioni sia dei suoi congiunti che delle parti civili. E poiché egli è di ottimi precedenti, credesi equo irrogargli il minimo della pena e cioè anni ventuno di reclusione; non gli spettano benefici di sorta, avendo consumato il delitto senza che la vittima o i suoi avessero fatto cosa alcuna per determinarlo a reagire o spingerlo a mal operare. Egli consumò il delitto trascinato dall’esempio paterno e spinto dal non sopito rancore contro la vittima per avere rotto il matrimonio con la di lui sorella, benché ne fosse giustificato dalla mancata consegna della promessa dote. Né tampoco può dubitarsi della sua volontà omicida, vuoi per la iterazione dei colpi, vuoi per le regioni aggredite, vuoi ancora per la violenza dell’attacco, avendo con un colpo squarciato il cuore e con un altro squarciato il ventre fino a tanta profondità da determinare la fuoriuscita dell’epiplon.

Per quanto riguarda la responsabilità di concorso in omicidio, addebitata a Giovanni Pietro Arnone e suo figlio Giacomo, la Corte afferma di non avere elementi per affermarla, onde costoro debbono andare assolti, salvo a rispondere dei delitti posti in essere dal loro particolare ed autonomo comportamento.

E qui casca l’asino. La Corte, riconoscendo che la rissa scoppiò così improvvisa e fulminea, che non poté esservi accordo di volontà e convergenza di fini tra Giuseppe Arnone, che uccise, e gli altri due (il padre e il fratello) accusati di concorso. Ognuno di essi entrò nella rissa senza sapere quel che gli altri facessero o fossero disposti a fare, esamina i singoli comportamenti e dice: È noto che Giovanni Pietro Arnone, la bieca figura dell’odio incoercibile, colui che diede origine alla rissa, non poté concorrere psichicamente all’omicidio, impegnato com’era a colluttare con Antonio Cariati, al quale somministrò più colpi di bastone. Egli, pertanto, va prosciolto dall’ascrittogli reato di concorso in omicidio e la rubrica, nei suoi confronti, va degradata in quella di lesioni in danno di Cariati Antonio, Rizzuto Annita, Cariati Emilio e, aberractio ictus, in danno del figlio Giacomo. In quanto alla pena, la Corte deve essere necessariamente severa, tenuto presente che egli, col suo esempio, fu il cattivo seme che diede così luttuosi frutti e lo condanna al massimo consentito di anni tre di reclusione.

Nei riguardi di Giacomo Arnone, avendo egli voluto uccidere per conto proprio e non essendovi riuscito pur compiendo atta idoneo e non equivoco, risponderà di tentativo di omicidio, la Corte crede proporzionata la pena di anni nove di reclusione.

Per tutti, ovviamente, le pene accessorie, spese e danni.

La Suprema Corte di Cassazione, con sentenza del 16 maggio 1941, accoglie parzialmente il ricorso degli imputati e annulla le disposizioni civili della sentenza impugnata e rinvia gli atti per il nuovo giudizio alla Corte d’Assise di Catanzaro, quale giudizio civile; rigetta nel resto.[1]

 

 

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[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.