I DUE VECCHI MALVAGI

Gli anziani coniugi Pasquale Monolio e Rosa Baratto abitano in un fondo agricolo adiacente alla linea ferroviaria ionica in territorio di Rocca Imperiale, vicino al casello ferroviario N. 81. Non sono ben visti dai vicini perché sempre in guerra coi loro simili, mai una parola gentile ma, al contrario, solo ingiurie volgarissime e malvagie diffamazioni, anche a mezzo di missive anonime e la cosa ancora più brutta è che non sanno vivere in pace neppure con la figlia ed il genero. Perfino il Maresciallo dei Carabinieri e la Guardia Municipale di Rocca Imperiale, stanchi delle continue rimostranze delle persone prese di mira dai due, dicono apertamente che costituiscono una vera peste per il loro prossimo perché la loro bocca è un vero cratere che emette continuamente le più oscene ingiurie e le più violenti imprecazioni contro tutti.

Per esempio, Antonio Ferrara racconta che una volta Rosa Baratto, esasperata perché egli ascoltava con mansuetudine le di lei ingiurie senza ribatterle per evitare il peggio, si denudò il petto e poscia cominciò a gridare, riferendo alle persone accorse che Ferrara aveva tentato di possederla, mentre ciò era assolutamente falso; Domenico Fortunato invece racconta che tutte le volte che una delle sue figliuole si fidanzava, Rosa Baratto, per solo istinto di malvagità, ne diffamava l’onore con la famiglia del futuro sposo, anche a mezzo di lettere anonime.

In questo contesto, nel 1931 viene trasferito nel casello ferroviario N. 81 il quarantaduenne Nicola Colotta, che vi si stabilisce con la sua famiglia e, nonostante tutta la famigliola ascolti il consiglio dei vicini di tenersi alla larga dai due vecchi a causa della loro indole indemoniata, per Nicola Colotta comincia un vero e proprio inferno. Si, perché il contegno riservato, tenuto dalla famiglia del casellante, non serve a nulla, anzi, come è accaduto già ad Antonio Ferrara, questo inasprisce di più i due vecchi, i quali cominciano a spargere le più malvagie quanto infondate voci diffamatorie sull’onore della moglie di Colotta, dicendo a questo ed a quello che essa si recava a Taranto ed a Napoli per farsi possedere nei bordelli. E la loro audacia si spinge al punto da creare su tali voci, da essi diffuse, alcuni stornelli estemporanei che si dilettavano a cantare, ora in sordina, ora a voce alta mentre accudivano al lavoro nei campi. Quando una volta Nicola ha l’ardire di pregarli di smetterla, il vecchio Monolio, il quale aveva anche forma di uomo feroce in quanto sul suo conto correva la voce che avesse ucciso in America un suo fratello per impossessarsi del suo peculio, gli ride in faccia e gl’ingiunge di andare via, accompagnando le parole con un gesto della mano, indicando le corna.

Questo stato di cose va avanti ormai da tre anni quando il pomeriggio del 19 maggio 1934 Nicola, finito il suo servizio di casellante, decide di andare, armato di una doppietta a retrocarica, alla posta della lepre percorrendo un sentiero vicino al fondo dei Monolio.

Appena lo vedono, i due vecchi si mettono a cantare a voce alta uno dei soliti stornelli, che finora stavano cantando in sordina:

Nicola il bello bello

tiene le corna sotto il cappello

Nicola il bello bello

tiene le corna quanto un castello

la nipote della zia sua va a Taranto sola sola

e si farà ntrapanà, ntrapanà

essa s’è fatta ntrapanà

Nicola è ad una ventina di metri e li sente ma non vuole guai, contiene la sua collera e li prega di smetterla. Il vecchio Monolio, invece, per tutta risposta gli fa il gesto delle corna.

Il casellante non ci vede più dalla rabbia, si toglie con mossa fulminea il fucile dalla spalla, lo spiana contro i due e spara.

Spara per primo al vecchio che viene investito dalla rosa di pallini, calibro lepraro, alle cosce, allo scroto ed all’addome dove, penetrati in cavità, provocano la rottura dell’aorta discendente e della vena cava: morte praticamente istantanea. Poi mira alla vecchia, nel frattempo giratasi per cercare scampo nella fuga, che viene colpita alle spalle. I leprari penetrano in cavità perforando entrambi i polmoni ed il cuore: anche per lei morte istantanea.

Nicola, sconvolto, torna verso il casello e si imbatte nel suo collega Antonio Favale che, sentiti gli spari, sta accorrendo.

– Nicò, che è successo?

L’ho fatta… che volete da me?! – gli risponde consegnandogli il fucile, poi si incammina verso Castrovillari, dove si costituisce in carcere per evitare di essere colà tradotto ammanettato.

La mattina dopo viene interrogato dal Procuratore del re e racconta:

– Ho sparato in un momento di accecamento per le rinnovate ingiurie rivoltemi da entrambi… poi mi sono subito allontanato senza neppure rendermi conto se avessi o no ferito i coniugi… l’ho saputo stamattina che sono morti tutti e due…

– Eravate a breve distanza?

– No, credo una ventina di metri…

Dice la verità e lo conferma la perizia, data l’ampiezza della rosa prodotta dai pallini. A questo punto, raccolte le testimonianze, l’istruttoria può essere chiusa e Nicola Colotta viene rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Castrovillari con l’accusa, pesantissima, di duplice omicidio aggravato. Roba da ergastolo. A questo reato vanno anche aggiunti quelli di avere esercitato la caccia in tempo di divieto e di averla esercitata in tempo di notte.

Il dibattimento si svolge nelle udienze dal 7 al 9 maggio 1935, durante le quali la difesa sostiene che Colotta commise il fatto senza coscienza e volontà in quanto, essendo i nuovi e gravi oltraggi al suo onore ed a quello della moglie intervenuti per parte dei coniugi uccisi quando l’esasperazione del suo animo contro costoro era ormai al colmo per le lunghe e vessatorie rivoltegli in precedenza con particolare ostinazione e crudeltà, la reazione che ne seguì da parte dell’imputato, per la stessa forma esplosiva con cui si verificò, deve ritenersi avvenuto mentre egli si trovava in uno stato di completo sbandamento della sua vita spirituale, tale da togliergli la capacità di intendere e di volere.

La Corte ribatte: è chiaro, per chiunque, che con la detta tesi si pretende, in sostanza, di porre ancora la quistione circa l’influenza delle passioni e delle emozioni sulla imputabilità. Ma tale quistione è stata ormai risoluta in senso negativo dal Codice vigente, secondo cui gli stati emotivi e passionali non hanno, per sé soli, alcun effetto sull’imputabilità “perché il vizio di mente va inteso solo come conseguenza di infermità fisica o psichica clinicamente accertata, mentre le le passioni e le emozioni attengono alla valutazione della quantità del delitto” e possono essere prese in considerazione, in particolari circostanze, soltanto allo scopo di attenuare la pena, come nella ipotesi di avere agito nello stato d’ira. Ma, nello stesso tempo, la Corte ammette: certo non vuolsi negare che anche un alto stato passionale, quando invade e si protrae a lungo nella coscienza di un individuo, possa dar luogo ad una forma di infermità mentale in quanto, rimanendo in tal caso la coscienza lungamente polarizzata verso quel solo determinato gruppo di rappresentazioni di cui la passione si alimenta, viene a crearsi nella vita psichica quella condizione di monoideismo che è proprio di alcune forme di infermità mentali caratterizzate da delirio sistematizzato. Ed allora trattasi di una vera e propria psicosi determinata dalla passione, psicosi che è sempre clinicamente accertabile.

Forse uno spiraglio per Colotta.

Forse, perché subito dopo la Corte aggiunge: questo non è il caso del Colotta perché nessuno dei testi escussi e neppure egli stesso hanno detto che in conseguenza del suo giusto risentimento, sia pure permanente, contro i coniugi Monolio per l’indegno modo di agire di costoro, egli avesse comunque riportato alcuna alterazione nelle sue facoltà mentali.

Niente da fare.

Ma se si chiude un portone, si apre una porticina che potrebbe evitargli una condanna molto pesante perché la Corte riconosce che piuttosto dubbia e incerta resta la prova circa la sua intenzione omicida, visto che, a prescindere che si tratta di un delitto d’impeto in cui non è facile sorprendere la specifica natura della ideazione criminosa, Colotta si limitò a sparare contro ciascuno dei coniugi suoi offensori, alla distanza di venti metri, un solo colpo del fucile di cui era occasionalmente armato per disgrazia sua e delle sue miserande vittime. Né a dimostrare l’intenzione omicida vale per sé solo il rilievo riflettente la natura estremamente vulnerante dell’arma adoperata, giacché è anche vero che questa era carica di due cartucce per lepre, le quali non sono necessariamente mortali. D’altronde, la stessa causale, che si concreta in un sentimento di rancore dell’imputato contro la petulanza ingiuriosa di due vecchi coniugi rabbiosi, non pare possa ritenersi proporzionata ad un proposito estremo dell’imputato di cagionare la morte, anziché a quello generico, che appare più verosimile, d’infliggere loro un sanguinoso castigo mediante semplici lesioni personali.

L’evento è andato al di là della intenzione di Colotta e quindi il reato deve essere derubricato in quello di duplice omicidio preterintenzionale, che non può, però, essere unificato sotto la figura di un reato continuato, come propone il Pubblico Ministero, perché si tratta di due eventi separati e quindi da giudicare separatamente.

Ma per ciò che ha già espresso la Corte, a Colotta spetta almeno l’attenuante di avere agito in stato d’ira perché provocato da un fatto ingiusto delle vittime. Non solo: alla Corte sembra giusto concedergli anche l’attenuante di avere agito per un motivo di particolare valore morale perché non par dubbio che, oltre al rigurgito di uno sdegno iracondo per l’offesa allora allora ricevuta, abbia presieduto alla sua improvvida reazione sanguinaria anche il diverso movente, moralmente lodevole, di rendersi una buona volta vindice e protettore, come la legge e la morale gl’imponevano, dell’onore e della reputazione della propria moglie, di cui i coniugi Monolio andavano da tempo facendo strazio con proterva petulanza e singolare audacia.

È il momento di quantificare la pena. La Corte, anche riguardo agli incensurati precedenti di Colotta, che da tutti i testimoni viene definito come un uomo mite e dabbene, stima giusto ed equo partire dal minimo della pena di dieci anni di reclusione per ciascuno dei due omicidi preterintenzionali. Diminuendo quindi di un terzo per l’attenuante della provocazione, la pena base di anni venti scende ad anni tredici e mesi otto. Diminuendo ancora di circa un altro terzo per l’attenuante dei motivi morali, la residua pena da infliggersi al prevenuto resta ben fissata, nel complesso, in anni nove di reclusione.

Non è tutto: Colotta rientra nei benefici del Regio Decreto d’indulto 25 settembre 1934 e gli vengono condonati 2 anni della pena, che resta così fissata in anni 7 di reclusione, oltre pene accessorie e refusione del danno alle parti civili.

La Corte non può dimenticare che Colotta deve rispondere anche dei due reati minori, cioè di aver praticato la caccia di notte e per di più in un periodo vietato, così stima giusto condannarlo alla pena pecuniaria di lire 200. È il 9 maggio 1935.

Infine, il 9 marzo 1938 la Corte d’Assise di Castrovillari, visto il Regio Decreto 15 febbraio 1937, N. 77, dichiara condonati 2 anni del residuo di pena, che scende così a 5 anni di reclusione.[1]

 

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[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Castrovillari.