IL DISONORE DEL PADRE

Domenico Campana è quasi un adolescente quando, nel 1924, suo padre lo manda ad apprendere il mestiere di calzolaio nella bottega di mastro Raffaele De Simone, a Cropalati.

Nella bottega, per un motivo o per l’altro, spesso va Chiara, la figlia di mastro Raffaele, che ha la stessa età di Domenico il quale, ben presto, se ne innamora, teneramente riamato.

L’innocente idillio dura ormai da una decina di anni e i due innamorati sono ormai nel pieno della giovinezza, quando la sera del primo marzo 1935 Domenico, approfittando che Chiara è rimasta da sola in casa, la possiede e continua a possederla fino al mese di maggio successivo, senza che nessuno, nemmeno la madre della ragazza alla quale finora ha raccontato sempre tutto, se ne accorga perché Chiara resta in fiduciosa attesa che Domenico, che ha intanto aperto una calzoleria tutta sua, mantenga la promessa di riparare al malfatto e la sposi. E aspetta pazientemente più di un anno.

Poi succede qualcosa che spariglia le carte: Chiara viene a conoscenza ch’egli, nascostamente, sta facendo pratiche per essere arruolato per l’Africa Orientale!

– Così te ne vuoi andare… e la promessa che mi hai fatto? – gli dice nervosamente, la mattina del 16 settembre 1936, quando lo va a trovare nella bottega.

– Ci sposeremo, stai tranquilla.

– E quando? Magari dopo che ti avranno ammazzato? O magari quando deciderai di non tornare più? No, Domenico, noi ci dobbiamo sposare prima che tu parta!

Domenico, che non ha più voglia di sposarsi, risponde mentre continua a martellare una suola:

– Mi stai seccando, vattene se no chiamo il Brigadiere che sta passando ora!

– Ah! Ti sto seccando? Invece non ti seccavo quando mi possedevi, non è vero? Ma ti farò cambiare idea…

– Brigadiere! Brigadiere! – urla Domenico, catapultandosi fuori dalla bottega e fermando il Carabiniere – per favore, dite a quella donna di andarsene dalla mia bottega, mi sta infastidendo…

Così, il 16 settembre 1936, tutto il paesello di Cropalati, è edotto dello scandalo e di tutto ciò che ne è alla base. Ovviamente ne viene edotto anche mastro Raffaele, il padre di Chiara, il quale, se da un canto per la vergogna scaccia da casa la figlia, che va a rifugiarsi presso il fratello Ugo e la cognata Maria Morelli, dall’altro scongiura tutte le autorità del paese – Arciprete, Maresciallo, Podestà ecc. ecc. – perché inducano Domenico a contrarre subito il matrimonio, minacciando che in caso inverso lo avrebbe ucciso.

La necessità della dovuta riparazione diventa un’idea fissa per mastro Raffaele il quale, per rafforzare la minaccia, va a Cosenza, compra alcune cartucce per pistola e va a trovare Domenico.

– Le vedi queste? – gli dice facendo saltellare i proiettili in una mano – sono per te, se non sposi mia figlia…

Domenico gli risponde con una specie di grugnito e fa un cenno con la testa che sembra dire di si, ma mastro Raffaele non si fida e va a parlare con l’Arciprete.

– Se fa il furbo e non la sposa subito, l’ammazzo quanto è vero che Cristo è morto sulla croce!

– Ma che sono queste parole? E in un luogo sacro, poi! Statevi calmo che la sposerà!

Intanto Domenico, che è intimamente sempre fermo nel suo proposito, sa che deve guadagnare un po’ di tempo e per farlo crede opportuno iniziare un doppio giuoco, nel senso che per non irritare ancora di più mastro Raffaele comincia a mostrarsi disposto al matrimonio, intavolando le discussioni per la dote, della quale, in apparenza, non riesce mai ad accontentarsi. Poi comincia a frequentare la casa ove Chiara si è rifugiata, ma nello stesso tempo continua le pratiche per essere richiamato alle armi ed inviato in Africa Orientale.

Mastro Raffaele, dal canto suo, lo tiene d’occhio e viene avvisato della manovra; reagisce sobbarcandosi con grave sacrificio a promettere ed approntare la dote richiestagli e dandosi da fare perché non abbia luogo il richiamo alle armi di Domenico.

– Eccellenza – dice al Podestà – per carità, rendete edotto il comandante del Distretto del danno che Domenico ha arrecato a mia figlia, affinché impedisca l’arruolamento

– Sarete servito, spedirò subito un telegramma.

Il giorno dopo mastro Raffaele, se da un lato ha tutte le ragioni per essere di buon umore, infatti il Podestà lo ha chiamato comunicandogli che l’arruolamento di Domenico Campana è sospeso, dall’altro è sconfortato: il comandante del Distretto Militare di Cosenza continua ammettendo che la sospensione dell’arruolamento è stata disposta dopo la partenza dell’interessato per Napoli.

Nemmeno il tempo di bestemmiare, che arriva un altro telegramma: appena arrivato a Napoli, Domenico è stato mandato indietro con foglio di via! Adesso si che è una bella giornata!

– Benedetto ragazzo, il danno lo hai fatto e devi rimediare. Che cosa ti costa prima sposarti e poi partire per l’Africa? – il tono del Podestà è conciliante. Da quando Domenico è tornato in paese sta provando in tutti i modi a convincerlo – Mastro Raffaele sta venendo qui per prometterti, davanti a me, che ti assegnerà non solo la casa di sua moglie, rinunciando alla iscrizione dotale, ma anche il corredo secondo l’usanza locale e la mobilia. Adesso non puoi più dire di no, ti sta dando molto più di quello che hai chiesto finora…

– E sia, firmo subito le carte per le pubblicazioni così ci sposiamo il prima possibile.

Finalmente! Sembra proprio che le cose si siano aggiustate e a casa di Chiara tutti tirano un sospiro di sollievo.

Aspettate, abbiamo detto “sembra”, non un categorico “le cose si sono” aggiustate. Si, perché Domenico sta facendo ancora una volta il doppio gioco. Con una scusa, il 9 dicembre 1936 si allontana dal paese e va al Distretto Militare per condurre in atto la premeditata fuga.

Il 10 mattina davanti al Distretto c’è una lunga fila di volontari in attesa di essere arruolati. È il momento buono, nessuno si accorge che il suo arruolamento è sospeso per ordini superiori e Domenico è arruolato: 10° Reggimento Genio in Santa Maria Capua Vetere.

Durante il viaggio in treno è allegro, ride pensando a come ha giocato mastro Raffaele e quella stupida illusa di Chiara, ma dopo un paio di giorni il comandante lo mette a rapporto:

– Giovanotto, sono stato avvisato dal Podestà del tuo paese che ti devi sposare, ma quando sei arrivato non lo hai fatto presente… certamente una dimenticanza dovuta all’euforia di servire la Patria. Bene, qui c’è la tua licenza di nozze. 10 giorni. Buon viaggio e comportati bene, mi hai capito, vero? – termina guardandolo con aria severa.

Domenico aveva fatto i conti senza l’oste, pensava davvero che mastro Raffaele avesse creduto alla sua sceneggiata, lo stupido illuso è lui!

“Ah si? E adesso vediamo chi la vince” pensa il giovanotto durante il viaggio di ritorno e quando arriva in paese va a parlare col Podestà.

– Eccellenza, adesso basta giochini e giochetti, sia chiaro che io non la sposerò né mò e né mai!

– Pensaci bene, guarda che mastro Raffaele non scherza… ti sposi e te ne vai…

– No! Basta, non ho paura, vedrete che saranno loro a non volere più…

Più o meno questo dialogo si ripete per ben cinque volte, ma a partecipare all’ultimo incontro questa volta c’è anche mastro Raffaele, e questa volta Domenico sembra ammorbidire, ancora una volta, la sua posizione.

Per ora non intendo sposarmi, se ne riparlerà, se mai, fra cinque o sei mesi…

Davanti a ciò, anche mastro Raffaele sembra ammorbidirsi e l’incontro termina senza un nuovo accordo preciso, se ne riparlerà.

Ma adesso a mastro Raffaele qualcuno sussurra che da quando è tornato in paese, Domenico va dicendo in giro che lui non è tornato per sposare Chiara, nonostante continui a frequentare la casa del fratello Ugo, dove è ancora rifugiata la sua “promessa”. No, è tornato per fottere Maria Morelli, la moglie di Ugo!

Beh, adesso la misura sembra davvero colma. Mastro Raffaele riesce a restare calmo anche davanti a questa offesa e va a parlare col Maresciallo affinché diffidi Domenico dal proseguire a calunniare sua nuora.

A dir la verità anche il Maresciallo è stufo di questo andazzo e, pensando di finirla una volta per tutte, convoca Domenico e mastro Raffaele per arrivare ad una soluzione definitiva.

Sono le sei di pomeriggio del 22 dicembre 1936, quando i due si trovano ancora faccia a faccia, ma questa volta davanti al Maresciallo dei Carabinieri:

La mobilia ed il corredo sono pronti. Una nostra congiunta dona agli sposi cinquecento lire – dice accalorandosi, mentre mostra la ricevuta –. In quanto alla casa, mi impegno a cancellare l’ipoteca entro breve e in caso contrario mi obbligo a pagare duemila lire ed a garanzia di questo pagamento offro le necessarie cautele personali e reali.

Si sta rovinando pur di togliersi quel disonore di dosso e guarda con speranza Domenico. Anche il Maresciallo lo guarda con gli stessi occhi, ma il giovanotto resta indifferente e con noncuranza risponde:

Non posso accettare perché mi sento imbrogliato

Che cosa? Mastro Raffaele non ne può più, scatta e afferra Domenico per il bavero della giubba militare e gli urla in faccia:

Quando hai imbrogliato mia figlia non eri tu? – poi gli molla un sonoro ceffone.

– Maresciallo! Un borghese ha osato alzare le mani su un militare! Consegnatemi la mia licenza col visto partire perché raggiungerò immediatamente il mio Reggimento! – a Domenico lo schiaffo sembra la scusa buona per andarsene senza concludere niente.

In questo breve frattempo mastro Raffaele è preso da grave turbamento, come assente prende commiato e se ne va a casa. Non parla, va in camera da letto, apre un cassettone, rovista tra la roba e tira fuori una pistola ed una rivoltella. Si, sono cariche. Se le mette in tasca ed esce dirigendosi verso la caserma dei Carabinieri. Ci vuole si e no un minuto. Sbircia e capisce che Domenico è ancora dentro, quindi si apposta nel buio, in attesa che il suo ormai nemico mortale esca.

Eccolo, sembra allegro ed entra nel negozio che è accanto alla caserma, collocandosi vicino al bancone di vendita. Mastro Raffaele entra a sua volta. Ha le mani in tasca. Domenico non si accorge di niente, è girato di spalle e ride, parlando con suo padre. Non si accorge nemmeno della pistola che è a pochi centimetri della sua tempia sinistra. Poi il colpo, una nuvola di fumo, l’odore acre della polvere da sparo, sangue, frammenti di ossa misti a sostanza cerebrale sparsi dappertutto. Domenico Campana è praticamente morto. Legalmente lo sarà la mattina successiva alle 5,30.

Mastro Raffaele lo guarda, poi rimette la mano armata in tasca ed esce.

Da quando si è sentito il colpo di pistola saranno passati una ventina di secondi, ma è come se tutto il paese se lo aspettasse, perché davanti al negozio c’è già un sacco di gente. C’è anche Giordano Lupinacci, un intimo amico di mastro Raffaele, che lo ferma e prende in custodia le armi, mentre percorre con lui i pochi metri che lo separano dalla caserma. Tra la folla c’è anche Alfredo De Simone, uno dei figli dell’uccisore il quale, avendo capito che cosa è successo, si mette a gridare:

Ha fatto male a sparare un solo colpo, doveva tirarne sei per uccidere lui e tutta la razza sua!

Nella confusione generale le parole di Alfredo De Simone vengono udite da Salvatore Campana, il padre di Domenico, che sta tornando dalla caserma dei Carabinieri, dopo avere inutilmente inseguito mastro Raffaele, forse per fare immediata vendetta.

– Merda! – gli urla, assestandogli una coltellata al petto che, per fortuna di Alfredo, produce solo una ferita superficiale. Poi scappa e resta latitante fino al 12 gennaio 1937, quando si costituisce.

– Ho solo litigato con Alfredo De Simone, ma non l’ho accoltellato… forse si è ferito da solo con la forbice che aveva in mano… – dice mastro Salvatore.

– L’avrei ucciso nella caserma, se fossi stato armato! – ammette mastro Raffaele davanti al magistrato che lo interroga, dandogli adito a pensare di avere premeditato il delitto.

E, infatti, omicidio aggravato dalla premeditazione, è l’accusa che gli inquirenti muovono a mastro Raffaele De Simone, reo confesso, nonostante i Carabinieri abbiano ipotizzato trattarsi di omicidio per causa d’onore. Tentato omicidio, invece, è il reato contestato a mastro Pasquale Campana.

Ed è con queste accuse che i due vengono rinviati al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza.

Appena iniziato il dibattimento, il Pubblico Ministero pone il quesito se non si tratti di omicidio speciale per ragion d’onore, sposando la tesi espressa dai Carabinieri, come previsto dall’articolo 587 del codice penale, e non di omicidio comune, configurato negli articoli 575 e seguenti.

Secondo la Corte hanno ragione il Pubblico Ministero ed i Carabinieri e spiega: Per quel che prescrive il nostro diritto obbiettivo, deve rispondere del delitto autonomo di omicidio a causa di onore: “chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella nell’atto in cui scopre la illegittima relazione carnale e nello stato di ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, nonché chiunque, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella”. Si, ma sembrerebbe esserci una contraddizione nelle posizioni a favore della tesi che propende per la causa d’onore: la legge dice: “nell’atto in cui scopre”, quindi lascia intendere che l’atto debba essere compiuto nella immediatezza della scoperta e non dopo un anno o più, come nel caso di mastro Raffaele.

La Corte, però, spiega con un ragionamento molto lungo ed articolato – che cercheremo di riassumere al meglio – l’essenza stessa dell’omicidio per causa d’onore: Per la esatta risoluzione del quesito in corrispondenza al caso concreto, occorre accertare quando è che il marito, il padre, il fratello (sempre che trattisi di tipi normali) possono, alla stregua delle attuali convenzioni sociali, non che delle nostre tradizioni e del nostro costume, sentirsi offesi nell’onore dalla illegittima relazione della moglie, della figlia, della sorella.

La risposta non può essere unica per tutti e tre i titolari della ragion d’onore, in quanto il marito è indubbiamente offeso in ogni caso, vuoi dal solo seduttore (adulterio violento), vuoi dal seduttore e dalla moglie (adulterio consensuale) poiché l’onta fattagli non può in alcun modo essere riparata, nemmeno col ripiego della separazione personale o del ripudio; non così deve dirsi per il padre ed il fratello i quali, per il santo compito che la società ha loro demandato di collocare le figlie e le sorelle, non possono sentirsi atrocemente offesi nel loro onore dalla relazione illegittima delle figlie e delle sorelle nubili con celibi, se quella relazione può essere riparata col matrimonio. Il disonore non procede soltanto dalla illegittima relazione della congiunta (e per relazione deve intendersi anche un solo rapporto carnale), ma precipuamente dalla impossibilità della riparazione, per cui le figlie o le sorelle, perduta l’aureola della pubblica estimazione, vanno confuse tra le donne senza nome. Allora soltanto – come è comunque pregiudizio – sorge il disonore! (…)

Ciò posto, non è concepibile che il legislatore – come può apparire fermandosi alla sola parola della legge – abbia voluto, fra le condizioni che debbono imprescindibilmente concorrere per potere inserire la strage di un uomo nella attenuata figura di omicidio per ragione di onore, quella della immediatezza della reazione, per cui dovrebbero andare denegati i benefici di legge e cioè l’attenuazione della responsabilità penale a quei padri o fratelli, che comprimendo la loro ira – forse a prezzo di indicibile spasimo – si indugiano, prima di compiere il delitto, a tentare di convincere il restio seduttore di riparare al male col matrimonio e, viceversa, tali benefici abbia voluto concedere solo a chi reagisce immediatamente alla conoscenza della relazione carnale e per ciò stesso rende impossibile la eventualità di una riparazione. Una interpretazione in tali sensi della legge, urta con la logica e porta a conseguenze antisociali!

Nel caso in esame, il De Simone, fino a quando poté confidare che il seduttore della figlia riparasse al mal fatto, seppe far valere i suoi poteri inibitori, ma quando subentrò la convinzione che il vile seduttore non intendesse riparare, fu allora che egli sentì il disonore ed allora soltanto, preso da giusta ira, fu trascinato al delitto ed agì in conseguenza.

Egli, indubbiamente, uccise per causa di onore e nelle condizioni di cui all’articolo 587.

Quindi, secondo la Corte, la parola della legge non è conforme alla volontà del legislatore, come appare dalla relazione del Guardasigilli, nella quale è detto: Non ho creduto di riprodurre la formula del Codice Zanardelli (art. 377) che appare, nella sua letterale significazione, eccessivamente ristretta e non comprensiva di casi nei quali si delineano situazioni meritevoli di particolare scusa, al pari della sorpresa in flagranza.

Or la parola del Guardasigilli, che si riferisce alla logica interpretazione dell’estremo relativo alla circostanza dello scoprire e nella quale debbono andar compresi, oltre alla sorpresa in flagranza, anche altri casi di conoscenza della illegittima relazione, dà lo spunto ad interpretare anche con larghezza, il requisito temporale che deve legare la scoperta alla reazione, ché diversamente certe altre situazioni (come quella del caso in esame) meritevoli pur esse di particolare scusa, rimarrebbero al di fuori della tutela che il legislatore ha voluto accordare a chi uccide o ferisce per ragion d’onore e nello stato d’ira. Stato d’ira e non impeto d’ira sta a dimostrare che non sia necessaria la immediatezza della reazione, la quale non potrebbe essere accompagnata che soltanto dall’impeto d’ira e non già dello stato di ira, che sopravviene in secondo tempo. La giurisprudenza si è pronunziata nel senso che non occorre l’immediatezza della reazione che è semplicemente relativa e va valutata col porre in relazione tutte le circostanze obbiettive e soggettive, contestuali, antecedenti e susseguenti nel loro complesso e non singolarmente (Cass. 16 dicembre 1935 – Giurisprudenza Italiana parte penale n. 161).

Dopo questa lunga dissertazione, necessaria a giustificare la propria posizione, per la Corte è il momento di decidere l’entità della pena da comminare a mastro Raffaele De Simone, fermo restando che la difesa ne ha chiesto l’assoluzione per avere agito nello stato di totale vizio di mente e il Pubblico Ministero la condanna al minimo della pena, cioè 3 anni di reclusione. La Corte rigetta la richiesta della difesa perché il particolare stato di mente in cui l’imputato si trovava nel momento del delitto non era dovuto a infermità fisica, ma conseguenza di uno stato emotivo e passionale che non esclude, né diminuisce l’imputabilità. E rigetta anche la richiesta del Pubblico Ministero sia perché la pena deve essere tale che abbia virtù intimidatoria e funzioni da correttivo, sia perché il delitto è manifestamente grave se si consideri che la vittima, se pur meritevole di castigo, tuttavia non era immeritevole di qualche considerazione perché alla sua colpa iniziale non fu estranea la leggerezza della donna.

La pena equa, per la Corte, è 4 anni di reclusione.

Ma c’è ancora da esaminare la posizione di mastro Pasquale Campana. La Corte ritiene giusto accogliere la richiesta della difesa di derubricare il reato da tentato omicidio in lesioni semplici lievi, perché il coltello usato per ferire era di piccole dimensioni, inidoneo per la consumazione di un omicidio e servì solo a produrre una lesione superficiale, guarita in giorni 25 per prudenziale e non necessario intervento chirurgico e non va nemmeno dimenticato che mastro Pasquale agì con la mente ottenebrata dall’aver visto suo figlio morirgli ai piedi con la testa spappolata dalla pistolettata dell’omicida. Non c’è nemmeno bisogno di fare i conti sull’entità della pena da infliggere perché il reato contestato rientra nell’amnistia del 15 febbraio 1937, N. 77, onde devesi dichiarare di non doversi procedere perché estinto il reato agli effetti della detta amnistia.[1]

Il primo dicembre 1970 è stata approvata la legge sul divorzio; il 22 maggio 1978 è stata approvata la legge sull’aborto; l’Articolo 587 C.P. sul delitto per causa d’onore è stato abrogato solo il 5 settembre 1981.

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.