Rose (Cs) 22 aprile 1868. Sospinta dal vento della pubblica voce, giunge alle orecchie del sindaco una triste notizia: «Una tale Pasqualina Esposito nello sgravarsi di una bambina nel giorno 12 stesso ne procurava la morte». Pochi minuti e la donna, in apparente stato confusionale, è attorniata da tutto il paese. Volano gli insulti anche per lei che è notoriamente «donna vergine e pudica». Alcuni monelli le tirano le vesti apostrofandola in malo modo. Giunti in grave ritardo, i Reali Carabinieri la scortano in un luogo sicuro dove, soltanto il giorno successivo, viene interrogata:
Mi chiamo Pasqualina Esposito, di padre incerto, di anni 29, filatrice nata in Cosenza ma domiciliata in Rose. Sono nubile, senza beni, non so né leggere né scrivere, né fui altra volta detenuta o processata. Signore, è vero che nel giorno 12 andante io mi sgravava di una bambina morta, che avvolsi in un pannolino e andai a depositarla in un buco della Chiesa della SS. Annunziata da dove la presi di nuovo e la portai in un altro buco della chiesa di San Nicola, ove esiste tuttora. Al mio parto non assisté nessuna levatrice a eccezione di Rosaria De Luca, mia cognata, e mia madre Teresa Perri.
L’ipotesi di soppressione volontaria del proprio infante, creaturina di sesso femminile, qualificato in infanticidio, in men che non si dica diventa accusa, fardello di cui liberarsi, stampigliata sul fascicolo formato dalla Regia Pretura a suo carico. Ora alza la voce Pasqualina, ora prova a spiegarsi in un italiano incerto, biascicato, sapientemente “instradato” dai formalismi istruttori:
Non è vero che io abbia potuto affogarla o altrimenti fatta morire, né al corso della gravidanza, né presi alcuna medela atta a procurarmi l’aborto.
Pasqualina Esposito è una donna dalla pelle «bianco latte» e gli occhi di un grigio tale da far scrivere al cancelliere addirittura «biancacci». Con i suoi lunghi capelli castani probabilmente avrà provato a celare quelle macroscopiche imperfezioni fisiche che l’hanno resa “diversa” anche agli occhi di un pubblico ufficiale, cioè un «naso un po’ aperto» e quell’«occhio sinistro che tiene le palpebre rivoltate in su». Il paese la conosce bene. L’imperfezione fisica comunica più delle parole, a tratti diventa urlo, ghigno quasi necessario da frapporre agli sghignazzanti monelli o ai malevoli bisbigli del vicinato. Lei, figlia di padre incerto, allevata dai coniugi Urso e Perri e sotto la tutela di quei fratelli di latte cui aveva celato in ogni modo la gravidanza, una famiglia vera non l’ha mai avuta. Desiderata, certo. Lei, donna sola, un marito non l’ha mai trovato, rifugiandosi in amori sconsiderati e amplessi da quattro soldi. Amori illeciti, peccaminosi. Eppure le carte dicono di lei, fanciulla vergine e onorata, un gran bene.
Dopo aver ammesso di aver partorito di fresco, Pasqualina viene condotta dai Carabinieri nel luogo in cui aveva detto di aver abbandonato il corpicino, ovvero «nel punto detto sotto la piazza di questo comune e precisamente nel muro a secco che forma un pilastro dove esisteva un vano coperto con pietre sovrapposte». È proprio lei a rimuovere i sassi e a indicare i resti del corpicino che, a seguito di autopsia, si rivela appartenere a una bambina morta da circa sette giorni. Pasqualina non si attarda a riconoscerla come «l’identica bambina che avea partorito». Si tratta di una creatura “ben fatta”, ovvero appare come un insieme ben compiuti di membra. Tuttavia, poco sotto la mascella inferiore, viene rinvenuta dai chirurghi una traccia di ecchimosi. Aperto il corpicino viene ritrovato anche un deposito «di sangue raggrumito e scuro, nonché dell’umore», mentre i polmoncini sono «ancora pieni d’aria» al punto che «tuffati nell’acqua si sono veduti galleggiare».
La debole scaturigine dell’utero di Pasqualina era «nata viva e vitale». Aveva respirato dell’aria e dunque i suoi polmoncini si erano gonfiati. Gli inquirenti arrivarono a stabilire che la causa della morte non poteva che derivare da una forte compressione ricevuta all’altezza dell’arteria giugulare. Il perito della pubblica accusa però tentenna. A causa del «disfacelo» in cui si trova il piccolo cadavere non è assolutamente possibile stabilire se l’ecchimosi trovata sotto la mascella inferiore è stata prodotta da mano umana. Un parto difficile, affrontato in completa solitudine, e per di più senza un minimo rudimento scientifico, avrebbe potuto produrre tali lesioni alla nascitura. Si arrivò a stabilire infatti che sia la madre di Pasqualina, Teresa Perri, sia la cognata Rosaria De Luca «non erano presenti al momento dello sgravo di costei: nella stessa casa sì, ma in diversa stanza». Messa dinanzi a siffatte deduzioni Pasqualina rabbrividisce e non risponde. Poco dopo ride sguaiatamente. Incalzata da altre domande scoppia infine in un pianto liberatorio, abbandonandosi a una completa confessione puntualmente annotata dal cancelliere:
Piangeva dicendo di aver partorito una bambina morta e che per la paura di accorgerne i fratelli e gli altri di famiglia cadde il corpicino sul pavimento. Si affliggeva infine di una tale disgrazia. Rimproverata di avere nascosto la gravidanza tenendola occulta rispondeva aver paura dei fratelli che sapendolo l’avrebbero uccisa e anche per il vociferarsi in paese.
L’accusa dello strangolamento della bimba venuta alla luce viva e vitale e uccisa in seguito dalla madre allo scopo di «occultare per cagione d’onore una prole illegittima» pare basarsi unicamente su di un esame autoptico discusso e discutibile. Anche la versione del feto morto sembra non reggere, contraddetta dall’esperimento di docimasia, cioè dei polmoncini che immersi in acqua erano stati visti galleggiare. Ma il pretore del mandamento di Rose, Cesare Accattatis, ancora in fase istruttoria decide di compiere un importante passaggio. Ecco la «levatrice qualificata» Teresa Filato simulare il parto di Pasqualina:
Signore, situata una donna partoriente accovacciata al suolo come fosse per eseguire un atto necessario di corpo, potrà partorire agevolmente quando in specie servisse mantenuta da altra persona nella parte superiore del corpo; e quando no il parto si rende non tanto facile perché allora la donna dovrebbe per forza a mantenere se stessa. Nato in questa posizione il feto per la caduta al suolo non potrebbe morire, potrebbe affogarsi però con il flusso sia sanguigno, sia di acqua che la donna emette immediatamente dopo il parto e ancorché il feto cada bocconi al suolo, anche il suddetto flusso potrebbe affogarlo specialmente quando è abbondante, sommergendolo nella quasi totalità.
Si va a processo. Il 7 giugno 1869, accompagnata dalla forza pubblica dinanzi al giudice della Corte d’Assise di Cosenza, Michele Fabiani, la detenuta Pasqualina Esposito consegna ai verbali semplici parole:
Non ho che aggiungere e dichiarare in quanto all’aborto di cui vengo accusata, oltre a quello che manifestai all’Istruttore ne’ precedenti interrogatori […] Son povera e un difensore lo chieggio alla giustizia.
D’ufficio le viene assegnato l’avvocato Nicola Mari. La tesi difensiva si basa semplicemente su due punti a discolpa: le dichiarazioni di Teresa Perri e Rosaria De Luca e l’impugnazione degli esiti dell’esame autoptico. Le due donne ribadiscono che la bambina uscì dall’utero senza alito di vita, mentre l’avvocato Mari si concentra sullo stato di conservazione di quel corpicino: «L’autopsia mal rileva lo stato fisico patologico del neonato, come corpo del delitto, molto meno avuto riguardo all’essersi osservato 10 giorni dopo il parto». Il 3 dicembre 1869 il legale di Pasqualina si sente di chiedere alla Corte se «dopo 7 e 8 giorni dalla morte di un neonato può conservarsi la periferia esterna del corpicino umano e distinguersi l’ecchimosi dalle lividure della putrefazione». I quesiti dell’avvocato Mari non ricevono risposta scritta. Dopo la presa d’atto da parte del giudice che una delle testimoni chiave, Teresa Perri, “madre di latte” di Paqualina, è passata a miglior vita, il 10 dicembre 1869, a circa un anno e mezzo dal fatto, il presidente della Corte d’Assise dichiara «assoluta l’accusata detenuta Pasqualina Esposito».
La ragazza per non vedere dirupare quel fragile castello di sabbia chiamato onore, per pudore ma allo stesso tempo per paura della reazione dei suoi “fratelli di latte”, aveva portato avanti quella gravidanza in gran segreto. Era sola anche al momento del parto. Si accovacciò Pasqualina, come per espletare un bisogno fisiologico e, lentamente, ne uscì quella creatura che per via della posizione – come chiarito dalla levatrice – morì forse affogata nei liquidi del parto non senza aver esalato qualche respiro. Pasqualina la vide cadere sul pavimento, credendo la caduta stessa quale causa di morte della bambina. Le due donne, Teresa e Rosaria, arrivarono solo in seguito, vedendo una creatura esanime e una madre sconvolta. Una madre negligente ma non assassina, probabilmente convinta fino in fondo che il proprio onore è un bene supremo da tutelare ben oltre la maternità.[1]
[1] ASCS, Processi Penali.