SORDO ALL’UMANA PIETÀ

Nel 1929 Francesco Tivoli, ebanista di Palermo, riceve una buona offerta di lavoro a Cerchiara Calabra, la accetta e si trasferisce. A Cerchiara si ambienta subito e subito mette gli occhi su di una bella ragazza, Annunziata Aurelio. Comincia a corteggiarla e riesce a fare breccia nel cuore della ragazza.

– Ti voglio sposare, vengo a parlare con tuo padre e sono sicuro che dirà di si.

Annunziata è felice. Si confida con sua madre, le dice che Francesco ha un buon lavoro, guadagna e, soprattutto, lei lo ama.

Vincenzo Aurelio, il padre di Annunziata, è una pasta d’uomo che per vedere felici i propri figli sarebbe pronto a dare la propria vita. Lui non fa distinzione fra figli maschi e femmine, no, i figli sono tutti uguali e i suoi averi devono essere divisi in parti uguali, in tre parti uguali come i figli.

Le informazioni su Francesco Tivoli sono ottime, i due giovani si amano e non c’è alcun ostacolo al matrimonio.

– Annunziata ti porterà in dote il godimento della terza parte del mio patrimonio, vogliatevi bene!

– Grazie, sono onorato e felice, ma sappiate che io avrei sposato vostra figlia anche povera e senza la camicia!

E così Francesco e Annunziata coronano il loro sogno d’amore con il matrimonio. Ah! Una festa che non si vedeva da chissà quanto!

Ma ogni medaglia ha il suo rovescio: poco tempo dopo il matrimonio, Francesco, nonostante venisse continuamente sovvenzionato con denaro e derrate dai suoceri, pretende che i beni promessigli gli vengano donati con atto notarile. No, questa è una pretesa a cui il vecchio Vincenzo Aurelio non vuole piegarsi. Non ne riesce a capire il motivo, in fondo agli sposi non manca niente. Si insospettisce e comincia a indagare per conto suo, ha un amico Carabiniere che lo aiuta e così scopre chi è veramente Francesco Tivoli: più volte condannato per gravi delitti, sorvegliato speciale della Pubblica Sicurezza e, cosa ancora più preoccupante, di indole malvagia.

Vincenzo è sconvolto, adesso sa che se cedesse alle sue pretese, il genero venderebbe la roba non appena entratone in possesso e avrebbe sperperato il prezzo della vendita per alimentare i suoi vizi.

– No! La donazione non te la farò. È tutto scritto nel mio testamento, se ne riparlerà dopo che sarò morto! Il discorso è chiuso.

Francesco si alza di scatto, sbatte sul tavolino la coppola, gira sui tacchi e se ne va furioso. La sua indole malvagia prende il sopravvento. Il suocero non vuole accontentarlo? Bene, lo porterà a più miti consigli dopo che vedrà cosa dovranno sopportare quel vecchio fetente e tutta la sua famiglia.

Così si abbandona a continue scenate di violenza, durante le quali non risparmia contumelie, percosse e minacce di morte ai vecchi suoceri, alla cognata Giulia ed al marito Giovanni Nicoletti e, ovviamente, ad Annunziata, alla quale riserva un trattamento speciale: morsi, percosse, strette alla gola, sputi sul corpo ignudo e depilamenti sadici dopo l’amplesso, che in queste condizioni è esso stesso una violenza.

Passano quattro anni di terrore durante i quali Francesco ed Annunziata si sono trasferiti a Trebisacce e durante i quali la sventurata è costretta varie volte a trovare rifugio in casa di sue amiche. No, così non può continuare: Annunziata, nel mese di settembre del 1933, approfittando del fatto che Francesco viene arrestato per scontare pochi giorni di carcere, residuo di una vecchia condanna, estenuata dai patimenti sofferti e da una infezione tifoidea scappa e torna a Cerchiara dai genitori.

È la sera del primo ottobre 1933. Qualcuno bussa alla porta dei vecchi Aurelio: è Francesco Tivoli, già scarcerato per fine pena e già ubriaco come al solito, sporco e puzzolente.

– Annunziata deve tornare a casa con me!

– È malata, lasciala stare e vattene.

Francesco spinge di lato il suocero e si avvicina ad Annunziata.

– Muoviti, alzati e andiamo a casa! – il tono è perentorio. Lei non risponde

– Lasciala stare, ha la febbre a trentotto! – insiste il vecchio.

– Sta bene, sta bene… adesso mangia un paio di cioccolatini che le ho portato e poi ce ne andiamo. È vero che mangi i cioccolatini e ce ne andiamo? – dice tirando fuori dalla tasca dei cioccolatini e avvicinandoglieli alla bocca. Poi si ferma, tira fuori da un’altra tasca una bottiglietta e continua – Anzi, adesso si beve un bel bicchierino di questo cognac e poi mangia i cioccolatini.

– Cognac non ne voglio… dammi un cioccolatino, ma lasciami stare, ti prego… ho la febbre… – dice Annunziata con un filo di voce, sperando di farlo calmare.

In casa, oltre ai due vecchi, ci sono anche Giulia, suo marito Giovanni e due amici di famiglia: Maria Francesca Aurelio e Vincenzo Costa. Finora non ha parlato, ma adesso che Francesco sta cominciando ad esagerare per costringere la moglie a bere il cognac, Giulia interviene nella discussione:

– Allora davvero non ne hai cuore! Non la vedi che sta male? Lasciala in pace e vattene!

– Si, vattene e lasciaci in pace – urla il vecchio, aprendo la porta di casa.

– Va bene, me ne vado, datemi la mia roba, ma non finisce qui! – risponde urlando a sua volta, mentre prende una maglia di lana appesa alla spalliera del letto. Poi, cinicamente, si rivolge alla moglie – Pure quella che hai addosso è mia, dammela!

Annunziata conosce bene quel tono di voce e quella luce che adesso è negli occhi di suo marito e sa che è meglio non contrariarlo perché sarebbe capace di tutto, anche di ammazzare quanti ce ne sono adesso in casa. A stento si pone a sedere sul letto e comincia a svestirsi, ma proprio in questo momento suo cognato Giovanni, acceso di sdegno per l’iniquità verso l’inferma da parte del cognato, si scaglia fulmineamente su di lui, caccia dalla tasca un coltello e lo tempesta di colpi, facendolo stramazzare per terra, poi gli si butta addosso. Davanti agli occhi dei due testimoni è una bolgia. Non si capisce chi faccia cosa, ma una tempesta di colpi di ogni genere si abbatte sull’ebanista, che resta a terra morto. Tutti piangono e si abbracciano, sono consapevoli di ciò che è stato fatto, ma per loro è una vera e propria liberazione.

Giovanni Nicoletti ed il vecchio Vincenzo Aurelio e si costituiscono subito ai Carabinieri, dichiarandosi, il primo responsabile dell’omicidio ed il secondo di avergli prestato aiuto, ma i militari arrestano anche la vecchia Maria Maddalena Orlando, ritenendo che avesse concorso al reato. Ma quando il medico legale osserva il cadavere, è subito chiaro che sarà un problema distinguere le singole responsabilità. Bisognerà capire, per esempio, chi ha fracassato il cranio di Francesco Tivoli, forse con una tallonata data da chi indossava un paio di scarponi chiodati, visto che le impronte dei chiodi sono visibili sulla pelle, o con una bastonata, dato che anche questa impronta è altrettanto visibile? Intanto gli scarponi chiodati li porta soltanto Giovanni Nicoletti, che si assume la responsabilità delle coltellate, ma non della tremenda pedata.

Vincenzo Aurelio e sua moglie Maria Maddalena in tutti gli interrogatori dicono di non aver fatto nulla per cagionare la morte del genero, anche se il vecchio dice di avere prestato aiuto a Giovanni Nicoletti, ma senza riuscire a spiegare bene che cosa intenda per “prestare aiuto”. Davanti a queste incongruenze e a qualche contraddizione, il Giudice Istruttore decide che tutti e tre gli imputati meritano di essere rinviati al giudizio della Corte d’Assise di Castrovillari, per rispondere di omicidio volontario in concorso, aggravato dalla partecipazione di più persone.

Quando si apre il dibattimento tutti e tre confermano quanto hanno già dichiarato, ma Giovanni Nicoletti aggiunge qualcosa finora mai detta:

– Sono stato costretto a colpire per difendere me stesso e mio suocero dall’aggressione che Francesco Tivoli ci stava facendo con un coltello a manico fisso. Anzi, Tivoli aveva già ferito mio suocero ad una coscia e col suo contegno aggressivo e minaccioso manifestava di voler persistere nelle violenze

È credibile? Intanto la piccola lesione ad una coscia il vecchio quella sera l’aveva davvero, ma bisognerà adesso capire come se la procurò e bisognerà capire se ci sono evidenze, fino a questo momento mai emerse, che Francesco Tivoli avesse un coltello, oltre a tanti altri piccoli particolari. Ma i dibattimenti servono a costituire le prove e chiarire ciò che non è chiaro, o no?

La prova ultima del tentativo di Giovanni teso ad alleggerire la propria responsabilità viene dalle parole dei due testimoni oculari, adesso obbligati a parlare sotto il vincolo del giuramento: quella maledetta sera Francesco Tivoli non aveva alcun coltello e Giovanni lo aggredì all’improvviso. Pertanto, esclusa qualsiasi violenza da parte dell’ucciso ai danni del suocero e del cognato, l’indagine della Corte, al fine di stabilire se al giudicabile competa l’invocata discriminante, è circoscritta alla violenza che Tivoli ha usato ai danni della propria moglie. No, non è sufficiente commettere un fatto delittuoso per difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, ma è indispensabile che il fatto sia commesso per essere stato costretto dalla necessità della difesa contro il pericolo. Or, essere costretto dalla necessità vuol dire essere posto in una situazione di fatto per cui in altro modo non si può difendere un diritto proprio od altrui, se non commettendo l’azione. E pericolo imminente, quella maledetta sera, non esisteva, visto che Francesco Tivoli erasi limitato ad ingiungere alla propria moglie di togliersi la maglia di lana che indossava. Troppo poco per considerarla legittima difesa. E secondo la Corte c’è anche un altro motivo: le gravi ingiurie e le minacce di morte rivolte ai suoceri, gli atroci maltrattamenti a cui Tivoli sottoponeva quasi tutti i giorni la propria moglie, avevano giustamente fatto sorgere nell’animo del giudicabile fiero ed implacabile odio verso Francesco Tivoli. Odio che, per diverso tempo contenuto, ebbe ad esplodere nella sera del luttuoso avvenimento allorché il Tivoli, sordo ad ogni sentimento di umana pietà, ingiunse alla moglie gravemente inferma di consegnargli la maglia di lana che indossava. Se tale era lo stato d’animo di Nicoletti, è evidente che egli si determinò a commettere il delitto non già perché costretto dalla necessità di respingere la violenza, bensì per punirlo del suo comportamento violento ed inumano tenuto verso i parenti ed in particolar modo verso la moglie, dando così sfogo all’odio che nutriva verso l’ucciso. Odio che nell’animo suo erasi maggiormente acuito perché la sua moglie Giulia Aurelio, pochi giorni prima, era stata ingiustamente malmenata dal Tivoli, trascinata dai capelli sulla pubblica via ed era anche, in tale occasione, stato messo in serio pericolo di vita un suo bambino che Giulia Aurelio reggeva nelle braccia, pericolo fortunatamente scongiurato dalle persone presenti alla brutale scena.

Ma se Giovanni Nicoletti non può invocare la legittima difesa, la Corte pensa che sia meritevole di altre attenuanti, peraltro condivise dal Pubblico Ministero: l’attenuante della provocazione grave  e quella di avere agito per un motivo di particolare valore morale.

La Corte non va tanto per il sottile per determinare chi abbia colpito in testa la vittima, la cosa importante è sapere che la morte è stata causata sia da un paio di coltellate che hanno perforato un polmone di Tivoli, causando una imponente emorragia, sia dalla frattura del cranio.

La Corte, nei confronti degli altri due imputati Vincenzo Aurelio e sua moglie Maria Maddalena Orlando, è dell’avviso che in base alle risultanze processuali non si può con sicurezza ritenere ch’essi abbiano concorso nell’omicidio a loro addebitato e questo fa cadere anche l’aggravante contestata ai tre imputati. Poi spiega: con le deposizioni dei due testimoni oculari è rimasto accertato che i due si slanciarono contro l’ucciso immediatamente dopo che costui fu aggredito e ferito da Nicoletti, però non si può con sicurezza ritenere ch’essi abbiano preso parte alla colluttazione, che già erasi impegnata tra i loro generi, col deliberato proposito di concorrere nell’uccisione di Francesco Tivoli. Il dubbio sulla loro partecipazione morale al reato è generato dal fatto ch’essi, pur avendo a portata di mano i coltelli di cui pochi minuti prima si erano serviti per consumare la frugale cena, si slanciarono inermi sui loro generi ch’erano in colluttazione.

I due vecchi vengono assolti per insufficienza di prove. Per Giovanni Nicoletti, visto che dubbi sulla sua responsabilità penale non ce ne sono, resta solo da calcolare la pena da infliggergli ed è un calcolo un po’ articolato: la Corte ritiene giusto, visti anche i suoi buoni precedenti penali, condannarlo al minimo della pena prevista, cioè 21 anni di reclusione. Poi, calcolando le due attenuanti concesse, stimasi dapprima ridurre ad anni 14 e poscia ad anni 9 e mesi 4. Di tale pena vanno dichiarati condonati anni 2 per effetto del sovrano indulto del 2 settembre 1934. 7 anni e 4 mesi di reclusione, più le pene accessorie.

È il 16 marzo 1935.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Castrovillari.