L’ARZILLO PENSIONATO

Giovanni Montilli da Civita ha 72 anni e nel 1932 si gode la pensione dopo aver fatto il maestro elementare per lunghissimi anni. È sposato con Nicolina D’Agostino, ma le cose tra di loro non vanno molto bene, anzi da un po’ di tempo litigano molto spesso e i vicini cominciano a stufarsi delle urla che provengono da quella casa.

Il motivo delle liti? Sembra uno scherzo, ma è la pura verità: l’arzillo pensionato, sebbene inoltrato negli anni, non potendo godere degli amplessi della moglie sofferente di ernia ombelicale, pretende che si prenda in casa un’altra donna la quale, oltre ad accudire alle faccende domestiche, possa soddisfare i suoi bisogni erotici.

Capito?

Donna Nicolina non ne vuole sapere di accettare questa bizzarra proposta e, infuriata, caccia il marito dal letto matrimoniale. Lui si sistema in un vano del piano terreno e non se la prende a male, anzi è felicissimo perché così ha acquistato piena libertà.

Don Giovanni (è proprio il caso di chiamarlo così!) però, tutto preso da questa ventata di libertà, forse esagera non tenendo conto che i vicini di casa vedono e sentono tutto anche mentre dormono e ben presto cominciano a circolare racconti di strane visite notturne da parte di una donna più o meno giovane, accolta in casa per soddisfare le voglie del maestro. Ovviamente le voci arrivano alle orecchie di donna Nicolina la quale, conturbata, ne muove rimprovero al marito e, malgrado le proteste di lui, comincia a sorvegliarlo con assidua cura e del suo risentimento ne fa partecipe qualche sua amica, nonché il proprio fratello Camillo, farmacista e Podestà del Comune.

La sera del 5 ottobre 1932, poi, avviene una scenata clamorosa tra i due coniugi e le loro urla si sentono dalla strada. Tal Silvio Filatro crede opportuno informare subito il Podestà il quale, immediatamente si reca in casa del cognato, accompagnato da quattro o cinque testimoni, con intendimento di mettere pace.

– Andiamo a parlare in privato – gli dice don Giovanni. Rimasti da soli, il Podestà viene messo a parte delle esigenze sessuali del cognato e a niente servono gli inviti alla prudenza per lo scandalo che potrebbe coinvolgere anche la sua carica pubblica. L’arzillo pensionato è irremovibile: il suo è un bisogno fisiologico e non gli importa niente di nessuno.

– Ma hai settantadue anni, non è concepibile che tu ti comporti in questo modo!

– Non hai capito… io debbo fottere se no mi sento scoppiare i coglioni, è più chiaro così?

Dopo circa mezz’ora di inutile conciliabolo i due rientrano nel salotto e don Giovanni, con tono grave, si rivolge ai presenti, tra i quali adesso c’è anche sua moglie, e rivela:

Voglio che anche voi sappiate l’oggetto del nostro discorso: io ho bisogno di un’altra donna che soddisfi le mie voglie e che accudisca alle faccende domestiche.

Donna Nicolina se ne sta in un angolino, affranta ed umiliata e quando suo fratello, rimesso in testa il cappello, saluta e fa per andarsene, si alza di scatto, gli corre dietro e piangendo lo supplica:

– Portami via con te! Portami via da questa casa, ti prego, ti prego perché un giorno o l’altro mio marito mi ucciderà, come ha già minacciato di fare!

– Ma no! Stai tranquilla, è un vecchio fanfarone e non ti toccherà con un dito e poi lo sa che se ti uccide andrà in galera… stai tranquilla, non ti accadrà nulla di male.

E, in effetti, sembra che la situazione migliori perché i vicini non sentono più urlare.

Bombina Guadagna, quarantenne, quasi stupida, è la domestica di casa Montilli che don Giovanni vorrebbe sostituire con una più giovane, piacente e, soprattutto, disponibile. Ogni giorno, dopo aver preparato la cena, torna a casa sua ma la sera dell’11 ottobre 1932 fa tardi e resta a dormire nella soffitta dei padroni. La mattina del 12, poco dopo l’alba, si sveglia, si stiracchia, sbadiglia, indossa le sue scarpe rotte e scende nella camera della padrona.

Donna Nicolina nel letto non c’è e a Bombina la cosa appare molto strana.

– Donna Nicolì! Donna Nicolì! – nessuna risposta. Fa spallucce, gira intorno al letto per scendere al piano terra e nella penombra vede qualcosa a terra: sembra proprio la camicia da notte della padrona. “No, non è possibile, forse sto ancora dormendo”, pensa mentre si stropiccia gli occhi per assicurarsi di vedere bene. “Oh! Quelli sono i capelli della padrona, quelle sono le sue braccia e quella è proprio la sua camicia da notte. Ma le gambe dove sono? Ah! Si, sono sotto il letto… sotto il letto? ma perché si è messa a dormire così? Boh?! Valla a capire… da quando litiga con don Giovanni pare una pazza!”.

– Donna Nicolì! Alzatevi! E se volete dormire ancora, almeno coricatevi nel letto… – nessuna risposta – Oh! Questa non si sveglia! – le tocca un braccio e niente, la scuote e niente. Sembra morta.  Bombina non sa che fare, si mette le mani nei capelli e poi, urlando, corre alla finestra per chiamare aiuto e le risponde una vicina che si precipita davanti al portone, proprio mentre don Giovanni lo sta aprendo. Senza nemmeno guardarlo, la donna entra in casa come una furia e sale al primo piano. Anche lei la crede morta, poi, in un ultimo gesto di carità le accarezza il viso e sente sulle dita un flebile alito: è viva! Con l’aiuto della domestica cerca di sistemare donna Nicolina sul letto, ma è troppo pesante e non ce la fanno, così chiama sua figlia e finalmente riescono nell’impresa. Le donne corrono avanti e indietro con pezzuole bagnate da mettere sulla fronte e aceto da farle respirare per farla rinvenire. È solo in questo momento che il marito entra nella stanza e comincia a fare un tortuoso ragionamento, sostenendo che la sua povera moglie è caduta dal letto, non si capisce bene per quale motivo, e ha battuto la testa. Poi se la prende con la domestica, colpevole di non essere corsa subito a chiamarlo.

Nel frattempo, avvertiti telegraficamente a Castrovillari della disgrazia, arrivano i due figli e solo adesso viene chiamato il dottor Francesco Castellano il quale, a prima vista, ha l’impressione che la signora sia stata colpita da paresi, ma dopo una più attenta osservazione esclude questa ipotesi e, avendo cercato invano di far parlare l’inferma che invece emette suoni vocali incomprensibili, ritiene che sia stata colta da choc nervoso e quindi sia caduta dal letto. Ma ci sono alcuni particolari che escluderebbero questa eventualità: lividure multiple alle braccia e alle cosce, una alla gamba destra parte posteriore; lividure più estese e marcate nel braccio sinistro e nella coscia omonima e pur non avendo potuto osservarla alle spalle, le giudica, per la loro ubicazione, effetto di percosse.

Donna Nicolina peggiora di ora in ora e muore verso le ore 3 del giorno 14 ottobre. Il sospetto che la morte sia da imputare a percosse porta l’Autorità Giudiziaria ad intervenire e viene disposta l’autopsia. I periti incaricati, oltre ai lividi riscontrati dal dottor Castellano, accertano la presenza di altre lividure nella regione dorsale e la presenza di una emorragia cerebrale puntiforme, certamente determinata da una scossa generale di tutto il corpo, da spavento o da forte emozione. Non solo: i periti ritengono che le contusioni rilevate avevano prodotto, oltre lo choc nervoso diagnosticato dal dottor Castellano, un’alterazione notevole nella circolazione, influendo sia nella circolazione polmonare, che in quella cerebrale. Il tutto agevolato dalle condizioni di flaccidità del cuore.

Poi un’affermazione che potrebbe segnare una svolta nelle indagini: senza le contusioni, lo choc nervoso ed una eventuale caduta non si sarebbero avute quelle alterazioni e, conseguentemente, la morte.

E se le contusioni sono state prodotte da percosse, chi se non don Giovanni può essere il responsabile?

C’è un altro fatto strano: come mai sulle mani e sulla coscia sinistra della defunta ci sono tracce di polvere di carbone? Dalla perquisizione viene fuori che lungo le scale ci sono tracce di polvere di carbone e un sacco vuoto sporco di polvere di carbone viene trovato per terra nell’androne del portone, nascosto tra due casse.  Per gli inquirenti è la prova che quel sacco è servito per la consumazione del delitto. Così per l’arzillo pensionato scatta un mandato di cattura con l’accusa di uxoricidio.

– Io sono innocente! – urla davanti al Pretore – Io non ho mai maltrattato mia moglie e non l’ho picchiata la sera dell’11 ottobre! Io credo che si sia sentita male e sia caduta dal letto, facendosi male e restando nella posizione in cui fu trovata!

Ma pare proprio che gli indizi raccolti durante l’istruttoria siano tali e tanti da portare la Procura del re di Castrovillari a chiedere il rinvio a giudizio di don Giovanni, richiesta che il Giudice Istruttore accoglie il 16 febbraio 1933.

Il 18 novembre successivo si apre il dibattimento davanti alla Corte d’Assise di Castrovillari e la Corte, dopo avere ascoltato l’imputato, che continua a dichiararsi innocente, e tutti i testimoni ammessi, osserva che i risultati della prova specifica e generica non lasciano dubbio sulla responsabilità del giudicabile. Le numerose contusioni riscontrate sul corpo della vittima e che contribuirono a determinarne la morte non possono attribuirsi che a percosse da lui inferte alla moglie, dovendosi assolutamente escludersi che fossero l’effetto di una caduta dal letto. A nulla valgono le proteste d’innocenza del Montilli, quando è certo che quella notte non vi era in casa persona estranea, tranne la stupida domestica che dormiva in soffitta. Il portone era chiuso e fu proprio l’imputato ad aprirlo la mattina per fare entrare la vicina chiamata dalla domestica.

Grossi guai in vista con questo esordio!

Poi la Corte continua: Il movente che sospinse Montilli a bastonare la moglie è chiaro e incontrastabile. Egli mal sopportava l’assidua vigilanza sulla sua condotta immorale. Secondo il suo modo di pensare, la moglie, non potendosi prestare all’amplesso a causa della malattia, doveva almeno consentire che egli prendesse in casa un’altra donna a sua disposizione e, poiché la signora non poteva consentire, egli si sentiva contro di lei maldisposto, minacciava di aggredirla e di ucciderla e non attendeva che una propizia occasione per dare sfogo al risentimento lungamente represso.

Poi ricostruisce ipoteticamente gli avvenimenti della notte fatale: la signora, che già aveva saputo dei notturni convegni che il marito si procurava, credé di sorprenderlo in flagrante e così, alzatasi dal letto, scalza ed in camicia, scese nell’androne del portone. Il marito, percepitane la presenza da qualche rumore, si armò di bastone o di altro legno, uscì di camera e, aggredita la donna, la percosse ripetutamente con veemenza. La disgraziata cadde con le mani sopra il sacco sporco di polvere di carbone e quindi, appoggiatasi su di esso con la coscia sinistra, riuscì a rialzarsi, risalì frettolosamente le scale composte da nove gradini e, quando giunse presso il letto, fu colta da choc nervoso e cadde supina nella posizione in cui fu trovata. Non diversamente può spiegarsi l’annerimento di polvere di carbone riscontrato sulle mani e sulla coscia della vittima.

È probabile che sia andata così, ma la Corte non spiega come mai donna Nicolina, aggredita e picchiata, non abbia gridato chiedendo aiuto e, se mai lo avesse fatto, come mai né la domestica, né i vicini la sentirono urlare.

Ma, assodate le responsabilità dell’imputato, il vero problema, per la Corte, è un altro: la figura giuridica da assegnare al fatto perché mancano sicuri elementi per affermare che il giudicabile sia stato animato da intenzione omicida. Non era egli spinto da causale seria ed adeguata a volere la morte della moglie dopo una convivenza protrattasi per decine di anni; né il mezzo adoperato per colpire le regioni prese di mira (si noti, nessun colpo fu dato alla testa) attesta che egli abbia avuto di mira di cagionare alla moglie danno più serio delle lesioni. Sembra, pertanto, più giusto ritenere che egli abbia voluto produrre soltanto le contusioni e che il decesso della moglie sia stata una conseguenza da lui non voluta, come risulta chiaramente anche dall’autopsia, che ha messo in evidenza che la defunta soffriva di flaccidità del muscolo cardiaco, sicché lo choc nervoso e la notevole alterazione della circolazione sanguigna prodotta dalle contusioni ebbero esito letale, anche a causa della debolezza organica della paziente. Egli, pertanto, deve ritenersi responsabile di omicidio preterintenzionale.

Un mezzo sospiro di sollievo per don Giovanni.

La Corte, tenendo presenti le modalità del fatto, la condizioni sociali dell’imputato e il grado di pericolosità da lui dimostrato, stima giusto infliggere dieci anni di reclusione che, aumentati di un anno per la circostanza aggravante del vincolo coniugale esistente, salgono ad anni undici. Di detta pena debbono dichiararsi condonati anni quattro per effetto del R.D. d’amnistia ed indulto 5 novembre 1932 n° 1403, non ostando i precedenti penali e non potendo scendere al di sotto dei sette anni. In più le pene accessorie.[1]

Se non ci saranno fatti nuovi a suo favore, don Giovanni uscirà dal carcere a quasi ottant’anni. Gli sarà passata la voglia?

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Castrovillari.