IO TI PUNIRÒ – parte prima

PARTE PRIMA

1.

I Carabinieri avevano sgombrato l’appartamento dalla folla di curiosi che, già da prima del loro arrivo, lo aveva riempito scavalcando i tre cadaveri stesi sul pavimento, per curiosare tra le stanze.

Pasquale Stanganelli, cinquantaquattrenne archivista capo della Pubblica Sicurezza, era stato delegato dal commissario capo a seguire i primi sviluppi di quel caso, per l’assenza di altri funzionari. Salendo le scale si fece largo tra cocchieri, impiegati, portinaie, figli delle portinaie, domestiche, medici, semplici perdigiorno, un paio di pregiudicati che si nascosero al suo passaggio e, ovviamente, tutti gli inquilini dell’elegante palazzina D’Elia di Corso Mazzini, che a gruppetti formulavano le ipotesi più strampalate. Arrivato sul pianerottolo del secondo piano, davanti al portoncino aperto sulla sua sinistra, si scappellò per salutare le autorità già presenti sul posto, salutò con simpatia un Maggiore dei Carabinieri che aveva conosciuto in Piemonte quando prestava servizio nell’Esercito, prima di congedarsi ed entrare nella Pubblica Sicurezza, e notò nell’ufficiale un forte turbamento, poi gli chiese

– Chi sono i morti?

– Lui era Raffaele Giani, il primario chirurgo dell’ospedale… della donna ancora non sappiamo il nome… di là c’è il domestico del medico

– Ho capito – prese dalla tasca taccuino e lapis ed entrò.

I primi due cadaveri erano quelli di un uomo e di una donna, l’uno accanto all’altro nel corridoio; l’uomo, che sembrava avere meno di cinquanta anni, era steso in posizione supina con i piedi divaricati che toccavano la porta d’ingresso; aveva la giacca infilata per metà ed era immerso in una pozza di sangue; la donna, dell’apparente età di una quarantina di anni, non presentava tracce evidenti di ferite e giaceva adagiata sul fianco destro; dalla posizione sembrava avere la testa protesa verso quella dell’uomo quasi a volergli sussurrare qualcosa. Aveva bisogno dei suoi occhiali a molla, li cercò nel gilet e se li sistemò accuratamente sul naso. Andava decisamente meglio. Nessuna evidente traccia di sangue sul corpo, nessun segno di strangolamento sul collo. Le mani della donna erano curate e un po’ contratte. All’anulare sinistro portava due anelli: una fascetta di oro bianco decorata con alcuni trafori e una fede nuziale; accanto alla testa una pettinissa che avrebbe dovuto tenerle i capelli raccolti sulla nuca. Gambe ben tornite, guantate da leggere calze nere, si intravvedevano al di sotto della gonna sollevata fino alle ginocchia; la stringa di uno stivaletto era slacciata. Stanganelli osservò i tratti del viso, tirati in una smorfia di dolore, gli occhi erano quasi del tutto aperti, cerchiati da profonde occhiaie nere e orribilmente fissi nel nulla. Si avvicinò un po’ di più per cercare di stabilire il colore degli occhi e  trasalì.

– La signora Sanavio… – balbettò. Si tolse la paglietta. Sulla fronte gli si allinearono delle gocce di sudore, improvviso e freddo, come una coroncina di terrore e di dolore. Un senso di angoscia lo paralizzò per qualche istante. Conosceva abbastanza bene quella donna, tanto da avere anche pranzato una volta in casa sua. Istintivamente si fece il segno della croce e, pensieroso, si diresse nel salottino dove giaceva il terzo corpo, quello di un uomo sulla quarantina, che giaceva disteso supinamente sopra un tappeto con le gambe incrociate. Una vasta macchia di sangue imbrattava la camicia.

Entrò nella stanza adibita a studio e notò, posati su una delle due poltrone, un cappellino di velluto nero, un ventaglio e una borsetta, anch’essa di velluto nero; sul bracciolo destro dell’altra poltrona era aperto a faccia in giù un libro; una paglietta e un bastone erano sistemati sul pianoforte. Aprì la borsetta. Nient’altro che una rivoltella a cinque colpi, di cui quattro esplosi, e una boccetta vuota con sopra l’etichetta che recitava: Bromuro di sodio; “Minchia! Ha fatto lei tutto questo macello!” si disse passandosi il fazzoletto sulla fronte madida. Poi aprì i tiretti della scrivania e curiosò tra le carte conservate. La sua attenzione si fermò su pochi fogli strappati da un piccolo bloc-notes e legati tra loro da un nastrino blu. Li scorse avidamente diventando via via sempre più pallido, poi appuntò qualcosa sul suo blocchetto, quindi si diresse verso la cucina dove notò, sui fornelli, un pentolino con dentro del latte ancora caldo. Annotato tutto minuziosamente, si avviò all’uscita. “È evidente che la signora Sanavio e il medico erano amanti. Qui ci sono tutti i caratteri di un delitto passionale… ma il movente? Gelosia? Vendetta? boh!?” pensò mentre scavalcava il cadavere del chirurgo, stando attento a non sporcarsi le scarpe di sangue.

I medici avevano già steso i loro referti, così come il giudice istruttore. Un fotografo era intento ad armeggiare con treppiedi, lampade e un macchinone a soffietto, studiando le inquadrature migliori per scattare le foto, inusuali ma necessarie visto il clamore che il fatto aveva già suscitato in città, nonostante fosse passata appena un’ora dall’allarme. Dai balconi aperti, insieme al vento caldo di quella serata estiva, saliva ancora il brusio dei curiosi.

Quando il fotografo finalmente finì il suo lavoro e le stanze erano invase dal fastidioso fumo acre della lampada al magnesio, furono fatti entrare i barellieri per rimuovere i corpi; poi i Carabinieri serrarono le imposte e chiusero il portone, apposero i sigilli e l’appartamento restò finalmente silenzioso e buio, custodendo l’enormità di quel dolore.

Stanganelli e il Maggiore scambiarono qualche battuta sull’accaduto, emozionati e scossi entrambi, poi si salutarono e si avviarono ognuno per la propria strada.

Dopo qualche minuto, però, il maggiore,  fattosi consegnare le chiavi dell’appartamento dal maresciallo che le aveva in custodia, tornò indietro. Aveva una strana smania, come se un senso di colpa lo opprimesse. Era stato amico dell’uomo morto nel corridoio e ancora non si capacitava dell’accaduto. Forse che il comportamento tenuto da lui nell’ultimo mese aveva contribuito a quella carneficina?

Incurante dei sigilli, aprì il portone e, ancora al buio, ebbe l’impressione di vedere un tenue alone luminoso che ricordava, seppur vagamente, una figura femminile nell’atto di alzarsi da terra e di andare con disinvoltura verso di lui nell’oscurità.

“Il cadavere della donna che hanno appena portato via è il mio cadavere” gli sembrò di udire. Istintivamente mise mano alla rivoltella e si appiattì contro un muro in assoluto silenzio per qualche secondo. Poi, quando decise che era giunto il momento di andar via, il rumore di passi che salivano le scale tra un pianerottolo e l’altro lo convinsero a restare immobile nella sua posizione. Mentre nel cervello gli risuonava sinistramente ancora l’eco di quella voce di donna, attese che i passi si fermassero proprio davanti al portone aperto, poi scattò in avanti verso l’uscio e, col cuore in gola, sibilò:

– Fermo o sparo!

– Polizia! Posi l’arma, Maggiore!

Lo sconcerto che l’ufficiale provò fu enorme:

– Polizia? Chi?

– Sono Stanganelli – a quel nome il Maggiore abbassò l’arma e, bianco in viso, lasciò entrare il poliziotto.

– Che fa le qui?

– In verità è la domanda che io dovrei fare a lei, Maggiore. Ho notato il suo pallore e il suo nervosismo, prima, e, nonostante la sua amicizia intima con la vittima, il dottor Giani, il suo comportamento mi è sembrato alquanto strano e quindi mi sono permesso di seguirla… – gli disse con tono autorevole – mi vuole spiegare il perché di questa sua sciocchezza?

– Io… non so… mi sembrava di sentire la voce della donna e così… – farfugliò – sono tornato qui per… per… – un senso di scoramento lo invase e non riuscì più a continuare. Poi ebbe un sussulto e protestò – ma come sa della mia amicizia con Giani?

– Signor maggiore, lo so… in fondo in fondo sono un poliziotto! – disse ironicamente volendo riferirsi al fatto che lui faceva l’archivista e non l’investigatore – piuttosto, lei, sa qualcosa sul movente? Ha qualche parte nell’accaduto? – gli chiese Stanganelli, infastidito da quella situazione incresciosa che il Maggiore aveva provocato.

– No! Lei è pazzo a pensare questo! – protestò

– Allora mi dica in confidenza che cosa la opprime – fece il poliziotto cambiando tono, diventato ora suadente e quasi paterno – vuole fare quattro passi con me? – continuò lasciando libero il passaggio verso il pianerottolo per invitare il maggiore a uscire.

– Si… volentieri… è meglio… – rispose l’ufficiale avviandosi verso l’esterno, non prima di aver gettato un’ultima occhiata verso il posto dove erano stati trovati i cadaveri.

Sotto la luce fioca dei lampioni elettrici, Stanganelli porse un sigaro al Maggiore e, con fare tranquillo, accese un fiammifero sfregandolo sul muro, aspirò lunghe boccate di fumo, quindi si girò a guardare il palazzo dove era avvenuta la tragedia, sotto il quale sostavano ancora un paio di capannelli di curiosi.

– Perché prima ha detto di non conoscere il nome della signora? Eppure, essendo amico di Giani, quel nome doveva saperlo…

– Non lo so… è tutto così confuso, senza senso… mi faccia schiarire le idee…

Camminarono per un po’ senza parlare, ognuno immerso nei propri pensieri, lungo il Viale dei Platani. Il fiume Busento, che scorreva un po’ più in là oltre la Piazza d’armi, faceva sentire il suo calmo borbottio. La luce della luna dava uno strano rilievo alle cose della natura che sembrava accentuare il silenzio in cui erano immersi i rari fabbricati ai lati del viale.

Stanganelli ripensò alle circostanze che lo portarono a conoscere la morta.

Tutto era avvenuto nella primavera di due anni prima, il 1916, quando un funzionario dell’Intendenza di Finanza, Giacinto Sanavio, era andato a trovarlo nel suo ufficio per chiedergli dei documenti riguardanti una denuncia per usurpazione di terreno. La immediata e reciproca simpatia avevano fatto si che stringessero subito amicizia e il geometra Sanavio trovò naturale invitarlo a pranzo, un’assolata domenica di aprile.

Ricordò di avere notato, appena entrato nell’appartamento dei Sanavio, il buon gusto nella disposizione dei mobili, l’ordine che vi regnava e la luce calda nella sala da pranzo, generata dalle tende color giallo paglierino che sembrava colorassero anche i muri dipinti di bianco.

La signora aveva preparato pasta e fagioli fatta con le fettuccine all’uovo e baccalà alla vicentina. A Stanganelli il baccalà non era mai piaciuto ma, seppure con una imprecazione solo pensata, cominciò a mangiarlo e alla fine dovette ricredersi: era proprio delizioso. Un pezzo di pesce cadde dal piatto di portata mentre la cameriera lo stava servendo, imbrattando la tovaglia bianca.

– Ida! Stà attenta! – la sgridò la signora. La servetta la guardò imbarazzata. In quell’attimo sia la serva che la signora parvero a Pasquale Stanganelli molto belle; la serva, giovanissima, era di una bellezza selvaggia. Un seno prorompente, due occhi luminosissimi, naso diritto. La signora, Giulia, era di una bellezza nobile, una pelle che intuiva vellutata, e con una vena vagamente malinconica nello sguardo che era profondo e cordiale nello stesso tempo. Gli sembrò che quello sguardo fugasse misteriosamente ogni insana mira che gli veniva in mente sulla giovane serva. Ma Stanganelli notò anche un altro sguardo, quello accondiscendente che Giacinto Sanavio rivolgeva alla ragazza.

La signora Giulia sembrava che ogni tanto sospirasse. Stanganelli notò che due o tre volte, quasi parlando da sola, aveva sussurrato: “Mah!” e una strana tristezza pareva offuscarle il viso nei momenti in cui non parlava e non guardava nessuno. A poco a poco si convinse che quel modo di fare della signora non era un tratto del suo carattere, ma piuttosto il segnale di una condizione sopraggiunta col passare del tempo, di un malessere crescente. Aveva creduto di intuire che quella mestizia derivasse dal fatto che i coniugi Sanavio non avessero figli. Ma gli era evidente che il malessere della signora non era rivolto al marito che amava, glielo leggeva negli occhi che le si illuminavano quando Giacinto parlava.

A Stanganelli riusciva facile intuire le cose fin dai tempi della pubertà, dalle prime guardie durante il servizio militare, alle lunghe notti trascorse in questura. Non c’era volta che non trovasse la soluzione a un problema attraverso la sua intuizione. Addirittura gli era capitato di dare il suggerimento giusto a qualche collega senza nemmeno muoversi dalla sua scrivania e qualcuno, invidioso, sosteneva che leggesse degli strani libri da cui ricavava le sue trovate che, quindi, non erano affatto frutto della sua mente.

La giornata, nonostante i momenti di “assenza” della signora, passò in allegria. Parlarono di caccia e di cani, poi dello scandalo di quei giorni, la sedicenne nipote milanese del direttore della fabbrica del tannino che era scappata con un cocchiere. Gli chiesero, poi, notizie sulla sicurezza della città che a loro era sembrata abbastanza tranquilla.

– Mica tanto! – aveva risposto – abbiamo un gran da fare ogni giorno! Certo, rispetto a più di una decina di anni fa, quando imperversava una banda organizzatissima, adesso sembra più tranquilla, ma risse, furti, truffe e, mi scusi signora, – continuò guardandola sommessamente –   prostituzione, sono all’ordine del giorno.

Infine, inevitabilmente, il discorso cadde sulla guerra. Stanganelli confidò di essersi offerto volontario come reclutatore nelle zone delle operazioni militari, visto che ormai aveva passato l’età per stare al fronte, e che sarebbe partito da lì a una ventina di giorni; Giacinto, al contrario, si rallegrò di non essere stato richiamato e sembrò fiducioso di poter scampare alle armi. Ma l’atmosfera tendeva ad intristirsi  con quell’argomento e la signora, con un colpo da maestro, fece entrare il loro cane: un bel setter irlandese, seppur avanti con gli anni, che abbaiò allegramente al suo indirizzo, facendosi accarezzare come se fossero grandi amici da tempo e ubbidendo docilmente a ogni gioco che gli veniva richiesto, riportando l’allegria nella compagnia.

Ricordò ancora come, appena tornato dal suo incarico nell’alto Veneto, fosse andato a fare visita ai Sanavio e avesse saputo dalla signora che il marito era stato richiamato dopo appena una ventina di giorni dalla sua partenza e che ora si trovava sull’altopiano di Asiago in prima linea. Dopo di allora l’aveva rivista tre o quattro volte per avere notizie del marito e ricordò benissimo di averla trovata via via sempre più triste. Così, tra sé e sé, si maledisse per non aver, nonostante il suo proverbiale intuito, saputo interpretare la tristezza della signora: “Mannaggia a me! Se fossi stato più presente, magari avrei potuto evitare questa tragedia!”.

Valutava, però, quella che gli sembrava un’alterazione sentimentale della donna, forse umiliata nell’anima da quell’uomo, il dottor Giani. Forse era proprio questa la causa della tragedia.

Si girò a guardare il Maggiore e lo vide ancora assorto nei suoi pensieri. Decise di aspettare ancora un po’ prima di iniziare la chiacchierata, convinto che la discussione sarebbe scivolata sullo scabroso. Avrebbe, il Carabiniere, parlato spontaneamente o avrebbe dovuto tirargli le parole di bocca con lo spago di un civile dialogo?

Il Maggiore stava pensando che forse aveva sbagliato ad accettare l’invito del Delegato e che forse la mezza frase che aveva detto era stato già troppo, ma ormai era tardi per tirarsi fuori da quella imbarazzante situazione. Doveva o no raccontare a Stanganelli che una volta, chiacchierando col suo amico, lo aveva quasi spronato a intraprendere una relazione con quella donna? Doveva o no raccontare ciò che era avvenuto circa un mese prima quando cercò di aiutare il suo amico Giani a togliersi di torno quella donna? Si, era proprio una brutta storia e forse un brutto guaio anche per lui. Una smorfia di disappunto si disegnò sulle sue labbra, storcendogli i folti baffi neri.

– Allora… signor Maggiore, che mi racconta? – gli chiese Stanganelli approfittando del mutamento nella sua espressione – che rapporti aveva con la signora Giulia Moro Sanavio?

Il Maggiore trasalì.

2.

Giulia guardava, affacciata al parapetto del piroscafo, verso Messina. Lasciava una città martoriata dal terremoto, dove le baraccopoli erano ancora l’unico sistema abitativo del nuovo insediamento urbano. Solo qualche edificio pubblico e qualche casa borghese era stato riedificato, per il resto i sopravvissuti e i nuovi cittadini, provenienti dalla provincia e dalla Calabria, dovevano accontentarsi di quelle casupole di legno donate dagli americani o dagli svizzeri. Il governo italiano era troppo impegnato in quegli anni a saccheggiare le donazioni internazionali per conquistare la gloria, prima in Libia e poi nella Guerra Mondiale, invece di occuparsi seriamente di loro.

Faceva freddo la mattina del 10 marzo 1916. Il cielo era terso ma soffiava la tramontana che sferzava i visi dei passeggeri e faceva ondeggiare il piroscafo più del solito.

Giacinto, il marito di Giulia, si teneva un fazzoletto sulla bocca per reprimere il senso di vomito provocatogli dal mal di mare. Lei gli stava amorevolmente vicino tenendogli una mano sulla fronte imperlata di gocce di sudore gelido.

Anche se avevano dovuto vivere gli ultimi due anni in quella terra martoriata, privi di ogni comodità, le dispiaceva lasciare la cura degli orfanelli ai quali dedicava molto tempo e andarsene a Cosenza, ma Giacinto era stato trasferito e non c’era stato niente da fare.

Giacinto Sanavio, trentasettenne padovano, era geometra, applicato all’Intendenza di Finanza come cartografo e dal 1909 quello era già il terzo trasferimento che subiva. Giulia, trentacinquenne, era anche lei veneta ma di Sannazario in provincia di Vicenza ed aveva fatto la maestra elementare, poi nel 1911 dopo il matrimonio celebrato in quel di Rimini, aveva lasciato il lavoro e aveva sempre seguito il marito in giro per l’Italia. Insieme a loro viaggiava anche la cameriera, Ida Filippi, una ragazzina riminese di 16 anni molto vivace, che Giulia conteneva a stento.

Una folata di vento più forte delle altre le spostò il cappellino scompigliandole i capelli. Giacinto, bianco come un lenzuolo per il mal di mare, sorrise divertito ai goffi tentativi della moglie di ravviarsi i capelli, armeggiando con forcine e pettinisse.

Giulia si poteva definire, senza esagerare, una bella donna. Formosa, alta più della media ma non appariscente, dimostrava meno degli anni che aveva. Capelli castano scuro, occhi di un marrone brillante, era sempre perfettamente acconciata e vestita, seppure con abiti modesti. Intelligente, le piaceva leggere e mantenersi informata sulle questioni di attualità; agli uomini risultava ancora più desiderabile tanto per la sua capacità di mantenere viva una discussione sui più disparati argomenti, quanto per quel suo civettuolo, adorabile, marcato, accento veneto. Molte donne, al contrario, tendevano a detestarla per gli stessi motivi. Ma il suo viso solare era quasi costantemente velato da una nota di malinconia che spesso sconfinava nella tristezza. Erano questi i momenti che al marito facevano più paura perché quando Giulia si sentiva triste era molto facile che diventasse ansiosa, insofferente, apprensiva, addirittura nevrastenica, come la definiva Giacinto.

Subito dopo il matrimonio l’aveva fatta visitare da un medico che le aveva prescritto una cura di calmanti di cui, ormai, pensava di non poter più fare a meno. Ma questo era ormai un vezzo, perché l’amorevole e costante presenza di Giacinto aveva via via diradato le assunzioni di farmaci. Quello che veramente le mancava e che, nei momenti in cui ci pensava più intensamente, la intristiva, era la mancanza di un figlio.

E la voglia di amore materno lo riversava su Giacinto che sentiva tanto come un figlio, quanto come padre ideale, in potenza se non in atto. Il possibile padre di un figlio sperato.

Giacinto, dal canto suo, era un uomo pacato. Scrupoloso sul lavoro, gli si prospettava una brillante carriera. Di una spanna più alto della moglie, robusto, aveva folti capelli biondicci tirati all’indietro. Gli piaceva bere un buon bicchiere di vino, qualche volta anche un mezzo litro, e allora si scioglieva in grasse risate per quanto bonarie. Amava la caccia e il suo setter che si portava sempre dietro e al quale, spesso, confidava quello che di più intimo aveva e ne aveva.

Finalmente stavano affrontando l’ultimo tratto di strada ferrata, quello che dal mare, arrampicandosi sulle montagne della catena costiera calabrese, arrivava a Cosenza. Erano estasiati da quell’opera di ardua ingegneria appena inaugurata e nello stesso tempo ne restarono impauriti quando entrò in funzione la cremagliera per aiutare la locomotiva a superare quelle pendenze impossibili. Giulia e Giacinto se ne stavano incollati al finestrino, quasi abbracciati, guardando quei paesaggi selvaggi, dove il verde dell’erba nuova si mischiava, a tratti, con l’ultima neve rimasta. Lungo la discesa verso la città qualche contadino in groppa al suo asino, qualche piccolo gregge di pecore o un calesse con un medico che andava a visitare i pazienti furono motivo di intrattenimento per Giulia e Giacinto. Alla stazione di Rende una chiassosa comitiva di giovinastri, precipitosamente usciti da una trattoria vicina, prese di mira il treno con sberleffi e oscenità.

Il fischio del treno li avvisò che stavano entrando nella stazione di Cosenza, dove una moltitudine di gente di tutti i ceti sociali era ammassata sotto la pensilina. I facchini, per lo più bambini o al massimo adolescenti, litigavano per accaparrarsi i clienti. Militari in divisa controllavano le merci che venivano scaricate e i ferrovieri lavoravano alacremente per rifornire la locomotiva e controllarne il perfetto funzionamento.

Il sole caldo che annunciava la primavera stava lasciando il posto a grosse nuvole nere gonfie di pioggia che arrivavano veloci dal mare.

Giacinto riferì il nome dell’albergo ai due ragazzini che si erano offerti di portare i bagagli, porse il braccio a Giulia e, seguendoli, si avviarono lungo la strada principale con Ida che li seguiva un passo più indietro.

– Mi scusi, dov’è Palazzo Ferrari? – chiese Giacinto a un cocchiere che sostava sonnacchioso lungo il corso.

L’uomo sembrò svegliarsi dal suo torpore, li guardò un po’ seccato e gli indicò il palazzo alla sua destra, senza proferire parola.

– La ringrazio! – gli fece, divertito da quell’atteggiamento mentre accennava ironicamente a scappellarsi. Giulia represse una risatina stringendosi al braccio del marito e affondandovi la faccia.

Guardarono il palazzo di tre piani che sembrava essere stato costruito abbastanza recentemente e Giacinto indicò a Giulia il secondo piano. Il cavaliere D’Angelo, suo prossimo capo ufficio, gli aveva telegrafato giorni prima a Messina che il quartino preso in affitto per conto loro era proprio al secondo piano di quel palazzo. Si guardarono negli occhi e si sorrisero soddisfatti.

La casa era bella, più di quanto si fossero aspettati, il quartiere era nuovo, ma il palazzo era sistemato nel bel mezzo di tre chiese. Giulia detestava amabilmente il suono martellante delle campane che, dalle sei di mattina, proveniva da San Domenico, da San Nicola e dalla chiesa del Carmine, accompagnato inesorabilmente dagli squilli di tromba che annunciavano la sveglia ai soldati del Ventunesimo Reggimento Fanteria, di stanza accanto al loro palazzo. Ogni mattina sembrava una gara: avrebbe scampanato prima il sagrestano di San Domenico o di San Nicola? O li avrebbe anticipati il trombettiere? Inevitabilmente ficcava la testa sotto al cuscino e lo comprimeva forte con le mani per cercare di riprendere sonno almeno per un’altra mezzoretta. Tutto inutile. Appena tornato il silenzio ci pensavano Ida col rumore ritmato dei suoi zoccoli e Felio col suo latrare stanco da cane anziano a farla decidere che era venuto il momento di alzarsi. Come ogni mattina pensava che si sarebbe coricata di nuovo dopo che Nicola il barese avesse portato il latte fresco e che Giacinto fosse uscito di casa per andare al lavoro.

La primavera era ormai alle porte e nella villa comunale cominciarono i concerti domenicali della banda cittadina e nel pomeriggio gli spettacoli cinematografici all’aperto, che Giulia e Giacinto avevano cominciato a frequentare assiduamente. Qualche sera, accompagnati dal cavaliere D’Angelo e signora, che passavano a prenderli con il loro carrozzino, andavano a mangiare alla trattoria della Pergola, proprio sotto il castello svevo che dominava tutta la città, potendo ammirare il panorama della miriade di tetti sotto di loro e la confluenza dei fiumi Crati e Busento che brillavano illuminati dalla luna.

Ma questa felicità durò poco.

– Nemmeno tre mesi… nemmeno tre mesi mi hanno lasciato in pace qui! – Giacinto si accasciò su una sedia della cucina, lasciando cadere sul tavolo un telegramma e prendendosi la testa tra le mani.

Giulia, che aveva capito subito ciò che stava accadendo, guardava il marito mentre le lacrime cominciavano a riempirle gli occhi. Aveva nelle mani la sensazione di aver lasciato cadere qualcosa e si sorprese nel vedere la pentola sul tavolo; il vapore bollente che ne usciva la spaventò e, dopo un grido di disperazione, finalmente scoppiò in lacrime. Giacinto la abbracciò per calmarla, ma era disperatamente triste. Giulia lo guardò ma non riuscì a dirgli niente. Solamente ricambiò l’abbraccio posandogli la testa sul petto.

Giacinto avrebbe voluto che quel momento finisse subito, non avevano molto tempo a disposizione, avrebbero dovuto parlare, organizzare, fare l’amore selvaggiamente perché già la sera successiva sarebbe stata l’ultima a casa.

Mille pensieri e mille paure gli attraversarono la testa. Che ne sarebbe stato di lui? Che ne sarebbe stato di Giulia, così fragile e bisognosa di continue attenzioni a causa dei suoi disturbi psicologici? E che ne sarebbe stato di Ida? Si, Ida, perché tra loro due da poco c’era del tenero. Tutto era successo un pomeriggio durante il quale Giulia era uscita con la moglie del cavaliere D’Angelo e adesso Giacinto soffriva il doppio, combattuto tra le due donne, ma forse sarebbe morto in battaglia e il problema si sarebbe risolto da sé.

Quello stato di agitazione gli fece tornare, fortissimo, il suo dolore di stomaco. Prese da un armadietto una fiala di stricnina (Nella prima metà del Novecento, piccole dosi di stricnina erano usate in medicina come stimolanti, come lassativi e come rimedi per altri disturbi dell’apparato digerente, nda.) e se ne versò alcune gocce in bocca. Una smorfia di disgusto gli impedì di parlare, così fece segno a Giulia di rimettere a posto la fiala, poi, ripresosi, le disse:

– Dobbiamo ricordarci di metterne qualcuna nelle cose che dovrò portarmi dietro… non credo che me ne daranno al fronte.

– Ci penso io – gli rispose accarezzandolo sulla testa, quindi riprese la fiala e la posò sulla toletta, dove già era sistemata un po’ di roba per il viaggio.

– Giulia… Giulia – la chiamò – vieni, ti faccio vedere dove nascondo la rivoltella… spero non debba mai servirti…

– Non la voglio! So badare a me stessa senza quella cosa!

– Lo so… lo so… scemotta – disse Giacinto in tono scherzoso, cingendola alla vita da  dietro.

– Oh! Pisito… mi fai perdere la testa…  – così lo chiamava nell’intimità – dai… smettila… c’è Ida di là…

– Mandala a fare una passeggiata… ho voglia di te… – insistette, forse mentendo, mentre la baciava sul collo.

La notte prima della partenza di Giacinto la passarono a fare l’amore. Quando lui si alzò piano per andarsi a lavare la guardò dormire. Non resistette. Andò da Ida. Sembrava trasparente con la luce rosea dell’aurora che l’attraversava. Poi tornò ancora un po’ a letto e quando fu il momento, in fretta si prepararono e uscirono che il sole era già alto e caldo.

Al treno baciò sua moglie, quasi nascondendosi davanti a tutta quella gente, come si bacia una sorella.

– Scrivi – gli disse Giulia – scrivi appena hai bisogno di qualcosa… tornerai presto, vedrai.

Il macchinista, nero di carbone, si sporse ad osservare il segnale di via libera mentre il suo aiutante, nero anch’esso, impalava carbone nella fornace. Poi il sibilo e lo stridio delle ruote di ferro sui binari. Giulia piangeva già.

 

3.

Da quando il marito era partito in guerra, aveva quasi imposto a Ida di coricarsi nel letto matrimoniale illudendosi, così, di lenire l’ansia che l’assaliva di notte. Poi, non appena dalla fessura aperta in una gelosia della finestra della cucina cominciavano a filtrare le prime luci dell’alba che,  insinuandosi lungo il corridoio fino al suo letto, rischiaravano la stanza e non appena il suono delle campane, finora detestato, si distendeva nell’aria, i fantasmi e le paure della sua solitudine in quel letto svanivano.

Aveva anche cominciato ad amare, contrariamente al recente passato, l’ascoltare, distesa nel letto, le voci delle ortolane che, nella piazzetta sotto casa, magnificavano con parole che non capiva ma che avevano un suono allegro, la propria mercanzia, le donne che sospiravano vuotando i borsellini sui banchi e le contadine che frettolosamente riponevano quegli spiccioli dentro i fazzoletti custoditi nei grandi seni. Poi si alzava e osservava da dietro le gelosie socchiuse l’andirivieni degli operai che scendevano dal treno delle 7,15 e frettolosamente raggiungevano il proprio posto di lavoro con la colazione stretta sotto l’ascella e il berretto calato sugli occhi come per continuare il sonno interrotto ormai da ore.

Come ogni mattina, una fila di donne stava appoggiata al muro della caserma dei Carabinieri, in attesa che qualche caporale le scegliesse e decidesse, lui per loro, la paga per il lavoro che avrebbe assegnato; lo spazzino aveva quasi finito di raccogliere gli involti con le immondizie che ogni notte volavano dalle finestre; qualche cavallo scalpitava davanti alla selleria di Gaetano Florio mentre i loro padroni entravano a ristorarsi nel Caffè Roma e pian piano che il quartiere andava animandosi, Giulia aspettava gli strilli dello stagnino  e dello scialapopolo con le sue stoffe e i suoi bottoni. Le piaceva osservare quest’ultimo nell’atto di far cadere i bottoncini di finta madreperla da una mano all’altra soffiandoci sopra come per ripulire il grano dalla pula. E sorrideva quando lo vedeva fare la corte a qualche servetta che si attardava a toccare un taglio di vestito, sapendo bene che non avrebbe potuto permetterselo, ma offrendo la promessa di chissà quale sconto.

 

Quindi apriva i vetri e volgeva lo sguardo alla sua destra, dall’altra parte della piazzetta di San Nicola. Lo sguardo le andava ai vicini finestroni dell’ospedale aperti per cambiare l’aria ancora fresca dei primi di giugno. Nella penombra riusciva a distinguere la sofferenza dei malati più poveri nella squallida camerata del primo piano; al secondo piano, sempre alla stessa ora, si apriva la finestra della stanza di un medico, doveva essere un pezzo grosso, forse un primario. L’uomo in camice bianco aveva sempre un sigaro in bocca e prima di mettersi al lavoro si affacciava dalla finestra poggiando entrambe le mani sul davanzale, guardava distrattamente a destra e a sinistra, tirava qualche profondo respiro e rientrava. Era un bell’uomo sulla quarantina, alto, capelli castano scuro e due grandi baffi gli conferivano un’aria imponente.

Il richiamo dello scialapopolo la riportò dall’altra parte, verso San Domenico. “A proposito, dov’è finita Ida?”, pensò. “Come mai tarda tanto?”. In effetti, Ida, mentre era intenta a far fare la solita passeggiata al vecchio setter di Giulia, si era fermata a chiacchierare con Paolo Marroccia il soldatino catanese che le faceva la corte da sotto la finestra quando era in libera uscita. Quella mattina, chissà come, era riuscito ad evitare le manovre in Piazza d’Armi e, bel bello, si accompagnava al suo amorazzo.

– Oggi mi devi dire di si e devi uscire con me – le diceva insistentemente con un sorrisetto malandrino – altrimenti di te non ne voglio sapere più niente.

– Ma come faccio? – gli rispondeva, imbronciata, Ida – La padrona non si sa mai se esce o resta in casa… come faccio? – si era già scordata di Giacinto?

– Affari tuoi… ricorda… o usciamo o addio – replicò in tono perentorio.

– Facciamo così – rispose tentando di allentare la tensione – tu oggi pomeriggio verso l’ora dell’Ave Maria vieni sotto le finestre, se la padrona è uscita ti prometto che ti faccio salire in casa e succeda quel che deve succedere. E se non potremo oggi, potremo domani! – gli occhi le brillavano per quella pazza promessa – Adesso fammi correre altrimenti dovrò sopportare la sfuriata che mi farà se tardo ancora… a dopo… – terminò strattonando il cane intento ad annusare una carta oleata lasciata cadere da un passante.

– A dopo tesorino – la salutò ringalluzzito e ammiccante, pregustando le grazie della ragazza.

E la sfuriata ci fu. Giulia, ignara di tutto, sentiva forte la responsabilità per la ragazza, quasi la considerasse quella figlia che non aveva mai avuto, e non voleva in nessun modo che Ida potesse cadere, facile preda, nelle mani di qualche furbastro. Povera ingenua! Per questo le tenne il broncio per il resto della mattinata e Ida, da parte sua, forse per rancore o per orgoglio, si sentiva sempre più determinata a mettere in atto il suo piano d’amore. Il pomeriggio, Giulia, ancora nervosa, decise di andare alla farmacia Feraco per farsi dare qualcosa che la calmasse un po’.

La ragazza non stava più nella pelle vedendo la padrona cambiarsi e prepararsi per uscire; i suoi occhi erano sempre puntati fuori dalla finestra, ansiosi di incontrare lo sguardo di Paolo per dargli il segnale di via libera, poi si sarebbe data a lui, completamente, incurante delle conseguenze. “Mi ama”, pensava, “dice sempre che vuole sposarmi, così facciamo le cose più in fretta e me ne andrò da qui… chissà com’è Catania… tanto con Giacinto non ho speranze…”.

– Che fai lì imbambolata? – le disse Giulia facendola sobbalzare – Vado e torno… mi raccomando.

– Stia tranquilla signora…

Giulia mise il guinzaglio al cane ed uscì, proprio mentre Paolo fischiava per richiamare l’attenzione di Ida.

Il sole era una enorme palla che cominciava la sua discesa dietro i monti, la luce accecante. Giulia cercava riparo all’ombra dei palazzi, ascoltando incuriosita la notizia del giorno che dal negozio del sellaio rimbalzava al caffè e, di bottega in bottega, di bocca in bocca, finiva per essere amplificata dalla voce squillante e senza vergogna della fornaia vicina alla chiesa del Carmine: si diceva che una donna fosse stata uccisa dal marito, precipitosamente tornato dalle Americhe per salvare il proprio onore macchiato dalla gravidanza adulterina di quella donna, poveretta, lasciata da sola per anni.

Giulia si fermò ad ascoltare la fornaia che raccontava come la morta lavorasse nel suo forno e che lei aveva visto il marito, un bel giovane in abiti nuovi, che convinceva con mille belle parole la moglie a tornare al paese natio con lui che, quant’è vero Iddio, le aveva perdonato l’onta e che avrebbero ricominciato una nuova vita all’America. Raccontava dei timori iniziali della donna e del suo successivo convincimento sulle buone intenzioni del marito; la loro partenza, a piedi, per il paese lontano e, infine, della tragica notizia appresa dal Maresciallo dei Carabinieri che era andato da lei a raccogliere informazioni.

Poi continuò per la sua strada, ma non era entusiasta di andare proprio in quella farmacia.

Conosceva il farmacista Feraco perché abitavano nello stesso caseggiato e ogni volta che si incontravano per le scale, lui la guardava con sguardi lascivi e quei suoi occhi gialli le si appiccicavano addosso illuminandosi sinistramente. Non cambiava atteggiamento nemmeno quando era, raramente in verità, a passeggio con la moglie e questa, scambiata con lei qualche parola di circostanza, strattonava il marito e ricominciavano la passeggiata. Sapeva di non aver fatto nulla che avesse potuto causare il minimo sospetto nella signora Feraco e la benché minima aspettativa nel farmacista, ma quel loro modo di fare le dava molto fastidio e cercava sempre di evitare i due. Però Feraco era l’unico a Cosenza ad avere il Veronal che le serviva per calmare la sua ansia e dormire tranquilla e siccome aveva finito le due boccette che Giacinto le aveva procurato prima di partire, giocoforza non poté evitare di sopportare quello sguardo untuoso da pesce fritto.

Dopo un veloce saluto di circostanza passò subito al sodo chiedendo ciò che le serviva ma, inaspettatamente, il farmacista le rispose di no:

– Non posso darglielo, signora, ci vuole la ricetta medica… – disse con uno stupido sorrisetto sulle labbra.

– Ma… mi scusi… mio marito prima di partire me ne aveva comprati due flaconi… pensavo… – cercò di insistere, imbarazzata.

– Suo marito mi ha portato una ricetta del dottor Ranieri – obiettò con sarcasmo – si faccia fare la ricetta, torni e sarà servita.

– Sa meglio di me che Ranieri mancherà una settimana o più – protestò infastidita, sapendo che il medico, suo dirimpettaio, era partito con la moglie.

– Già… – fece il farmacista, sempre con quell’odioso sorrisetto – in verità un modo più sbrigativo ci sarebbe…

– Cioè? Si spieghi meglio – chiese innocentemente, rinfrancata da quella possibilità.

– Cioè… – restò senza parlare per qualche lungo secondo e poi, all’improvviso, prese tra le sue la mano di Giulia – cioè, se sarà buona con me le darò tutto il Veronal che vuole…

Giulia restò un attimo senza sapere cosa dire o fare, sbigottita dall’impudenza di Feraco, poi esplose:

– Brutto porco che non è altro! Mi lasci immediatamente o comincio a urlare! Io sono una donna sposata e onesta e lei farebbe bene a rivolgere le attenzioni a sua moglie. Mi lasci, ho detto! – ripeté dando uno strattone e riuscendo a liberarsi dalla presa, quindi si diresse verso l’uscita, furibonda – io non sono una di quelle sue eleganti amiche, senza tanti scrupoli per la testa che pensano solo a divertirsi. Io sono molto, molto diversa da loro, lo ricordi bene! – terminò con gli occhi fiammeggianti di rabbia e poi, senza più guardarlo, aprì la porta e uscì.

– Onesta! Una veneta onesta! – sbottò inviperito, lasciandosi andare a dei gesti molto eloquenti.

Per la strada Giulia si sentì mancare. Si appoggiò per un attimo al palazzo del Banco di Napoli per riordinare le idee e decise che aveva assolutamente bisogno di qualcosa per calmarsi. Quella brutta avventura l’aveva agitata più di quanto già non fosse agitata. “Ah! Se fosse qui Giacinto, il mio povero Pisito,  nessuno si permetterebbe di mancarmi di rispetto!”

Facendosi forza si diresse verso il ponte di San Domenico, lo attraversò e nella piazza dei Valdesi che le si apriva davanti cercò con lo sguardo la farmacia di Berardelli.

– Beva un bicchiere d’acqua, l’aiuterà a distendersi. Come calmante blando potrei consigliarle dell’acqua di cedro ma credo che sia meglio il bromuro di sodio che è molto più robusto – le consigliò il farmacista – e anche se non ha lo stesso effetto del Veronal, la calmerà comunque, l’importante è non andare oltre la dose che le consiglierò. Sentirà un rilassamento generale dei muscoli, si metta a letto e domani mattina starà molto meglio – continuò, entrando nel retrobottega.

Quando rientrò a casa era ancora così sconvolta che non si accorse nemmeno dell’agitazione di Ida. Sciolse nell’acqua il preparato e si mise subito a letto, in attesa degli effetti. Non ricordò neppure di chiamarla per farla coricare, poi un piacevole torpore l’avvolse.

Ida quel pomeriggio aveva deciso di darsi al soldato, convinta dalle insistenti promesse di un matrimonio che l’avrebbe portata lontana da quella casa dove ormai si sentiva prigioniera. Gli si buttò addosso e le trecce sbatterono sul viso del giovane.

– Perché mi guardi così? Sembri scontento…

– Ce l’ho per come porti i capelli, con quelle trecce sembri una bambina…

– Ma… la signora non vuole… che ci posso fare?

– La signora non vuole… la signora così… la signora cosà… fai solo quello che dice lei, a me non mi ascolti mai… ma quando saremo sposati… guai a te! – disse mentre l’abbracciava e la baciava sul collo.

– Oh! Amore… quando saremo sposati… si… – acconsentì retrocedendo alla cieca, persa nel suo abbraccio, verso il lettino.

Il corpo di Ida fremeva ancora dopo che con un rantolo di piacere Paolo le si abbandonò addosso, esausto. Non si era accorto di nulla, non si era accorto che era già stata di un altro.

Con i corpi confusi e madidi di sudore, con gli occhi socchiusi e le teste che si toccavano, Ida lo sentì ritirare il braccio dalla sua vita, districare le gambe intrecciate e sgusciare fuori dal letto per rivestirsi velocemente. Le diede un leggero bacio sulla fronte e le disse:

– Sbrigati ad alzarti e vieni a fare la guardia alla finestra. Non voglio fare butti incontri.

Lei cercò di trattenerlo dicendogli che avrebbero dovuto affrontare insieme la padrona e metterla al corrente della decisione di sposarsi.

– Tu sei babba – le rispose picchiandosi l’indice sulla tempia e strattonando l’altro braccio per liberarsi dalla stretta della ragazza – non è il momento… poi, poi glielo diremo… – le disse mentre richiudeva l’uscio alle sue spalle.

“E adesso? E domani?” pensò confusamente la ragazza. Si sentiva stanchissima, la testa le pulsava. Sentimenti contrastanti l’assalirono quando, passando davanti allo specchio, vide il suo viso sfatto e i capelli arruffati: istintivamente si coprì il viso con un braccio e pianse. Capì di avere sbagliato, di avere mentito a sé stessa perché lei amava con tutte le sue forze Giacinto e prima o poi una soluzione l’avrebbero trovata.

FINE PRIMA PARTE

 

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