ANGELA LA RIBELLE

Angela Napoli, essendo l’unico fiore muliebre nato, in mezzo a una nidiata di altri quattro maschi di lei maggiori, nella casa di onesti e agiati contadini residenti in Caulonia, trascorre lieta la sua prima età e forse anche un po’ viziata dalle carezze dei suoi genitori e dei suoi fratelli, che trovavano in lei inesausta sorgente di tenerezza e di orgoglio. Ma, appena superata l’adolescenza, allorché le prime voci misteriose dell’amore cominciarono a battere alla porta della sua anima, cadde presto in peccato, con grande dolore e mortificazione dei suoi genitori e dei fratelli, ai quali la notizia dell’onta subita pervenne mentre, travolti anch’essi nella bufera della guerra tuttora in corso, si trovavano lontani dal nido ed alcuni, come il fratello Domenico, si trovava a combattere in estranee terre.

Nullameno i genitori della fanciulla e gli stessi di lei fratelli. Dopo la sventura toccata ad essa, non disperarono di porvi riparo perché pensavano fondatamente di potere un giorno o l’altro indurre il seduttore – che frattanto era partito anch’egli per la guerra – a sposarla, sia pure fornendo alla stessa una dote superiore alle loro finanze. Senonché anche una tale speranza venne presto frustrata dalla fanciulla perché, avendo ella ormai assaporato una prima volta il dolce frutto d’amore, si accrebbe in lei, forse anche per una congenita sua morbosa sensualità, il desiderio di addentarlo ancora. Onde ella, profittando della lontananza dei fratelli, si diede a correre la cavallina, concedendosi più volte ora a questo ed ora a quell’altro giovane del paese nei casolari, a ridosso delle siepi e nelle forre, incurante del fiero dolore che con la sua condotta sregolata cagionava ai suoi vecchi genitori e tanto ribelle ai loro rimproveri, che non si peritava di rivoltarsi, almeno contro la madre, con morsi e percosse. Ultimamente, la condotta dell’Angela era divenuta così dissennata che il padre, per intimorirla, aveva inoltrato al Pretore un’istanza per ottenere l’internamento della medesima in una casa di custodia e di cura. Tale istanza, però, non ebbe poi alcun seguito, avendo la giovinetta assicurato il padre che avrebbe cambiato tenore di vita. Invece ella, soltanto dopo pochi giorni dacché aveva fatto tale promessa, veniva sorpresa dalla madre mentre si congiungeva carnalmente con un giovane del paese.

Tale novella prova della incorreggibile scostumatezza della loro figliuola non fece che aumentare la costernazione dei genitori tanto che, essendo alcuni giorni dopo tornato in paese, in breve licenza, il loro figliuolo primogenito a nome Francesco, che è già ammogliato con figli, questi li trovò in tale stato di avvilimento che, saputane la ragione, ne restò anch’egli accorato e mortificato in sommo grado.

Alcuni giorni dopo, e precisamente il 10 ottobre 1942, l’altro figliuolo Domenico – ancora celibe – fece ritorno a casa per godere di una breve licenza concessagli dal suo Comandante di Battaglione. Rientrando in casa, invece di trovarvi la festosa accoglienza che si attendeva dopo una sì lunga e perigliosa assenza, vi trovò i genitori che erano entrambi in uno stato di profondo abbattimento. Chiestane la ragione, la madre, dopo aver molto esitato, finì col raccontare al figlio, tra le lagrime, che giorni prima ella aveva sorpreso l’Angela proprio mentre si congiungeva carnalmente col giovane e ciò nonostante le molte promesse da lei avute di cambiare condotta. A tale notizia il giovane restò assai dispiaciuto e si allontanò da casa, senza passarvi la notte.

Ritornato a casa ed avendo ivi trovato la sorella sola nell’ultima stanza, le rivolse la parola, pregandola di abbandonare una volta per sempre, per l’onore della famiglia, la cattiva via da lei intrapresa:

Tu non conti nulla nella mia vita, l’ho fatto e lo farò sempre! – gli risponde in modo arrogante.

Tali parole, che suonavano offesa a lui ed alla sua famiglia, fecero scendere un velo al cervello di Domenico e, impossessatosi di una scure che si trovava sopra una cassa, accecato dall’ira, si diede a colpire ripetutamente la sorella, facendola stramazzare a terra. Ciò fatto scappò via di casa e, imbattutosi sulla porta esterna di casa nel padre che in quel momento sopraggiungeva dall’orto, l’abbracciò e dopo averlo informato che aveva ucciso la sorella, prese da lui commiato.

Accorso il padre con altra gente sul luogo del delitto, fu trovata la povera giovinetta, non ancora diciottenne, immersa nel proprio sangue, a terra, già cadavere per effetto di ben nove tremendi colpi di scure infertile in gran parte sulla testa e alla nuca, quasi tutti mortali.

Interrogati subito i genitori, rivelano di aver raccontato a Domenico del comportamento della sorella Angela la sera prima, appena arrivato in licenza, e che il figlio uscì di casa e passò la notte fuori.

Domenico, da parte sua, si costituisce la sera stessa nelle mani del Procuratore del re di Locri e fornisce la sua versione dei fatti:

– Mia madre mi ha raccontato di Angela ieri sera appena arrivato e questa mattina mio padre, nella stalla, mi disse che dopo il primo fallo commesso qualche anno prima, si era ancora concessa ad altro giovane pochi giorni innanzi che io arrivassi in paese; io mi allontanai da casa e, volendo dimenticare ogni cosa mi portai in Piazza, ove restai circa un’ora ed ove ebbi ad incontrare e salutare qualche amico. Poscia, ritornai a casa ed avendo ivi trovato mia sorella la pregai di cambiare vita, ma ella si rivoltò contro di me in modo arrogante. Accecato dall’ira ho preso una scure e l’ho colpita non so quante volte… – termina prendendosi il viso tra le mani.

Fratricidio volontario è il reato che gli viene contestato e per il quale viene rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Locri.

Il primo febbraio 1944 si tiene il dibattimento e c’è subito un colpo di scena: il padre di Domenico ritratta la sua prima dichiarazione narrando che a dare al figlio la notizia della tresca tra Angela ed il giovane è stato lui e che tale notizia la dette soltanto nel mattino dell’11 ottobre mentre si trovavano insieme nella stalla sottostante alla casa, ove il figlio era andato a raggiungerlo allo scopo, appunto, di chiedergli ragione dell’afflizione sua e della madre.

Questo offre lo spunto ai difensori di Domenico per chiedere di cambiare il titolo di reato in omicidio per causa d’onore (pena prevista da 3 a 7 anni di reclusione contro la reclusione da 24 a 30 anni prevista per l’omicidio del proprio fratello o sorella) perché il fatto sarebbe successo nell’immediatezza della scoperta del disonore causato dalla sorella.

Ma la Corte non è d’accordo: non pare che nella fattispecie possa parlarsi di omicidio per causa d’onore, pure dovendosi riconoscere che nel fatto commesso dall’imputato ricorrono all’evidenza entrambe le attenuanti del motivo di particolare valore morale e dello stato d’ira che della predetta forma attenuata di omicidio costituiscono i presupposti. Ma non bastano questi due presupposti se la reazione delittuosa non segua nell’atto in cui si scopra la illegittima relazione della moglie, della figlia o della sorella. Fa d’uopo, altresì, un rapporto di immediatezza tra la scoperta dell’unione illegittima e la reazione omicida, appunto perché il legislatore ha pensato che soltanto una reazione la quale segua immediatamente dopo la tremenda sferzata emotiva (shock) cagionata dalla scoperta della illegittima relazione carnale della moglie, della figlia o della sorella può giustificare la speciale mitigazione di pena prevista. Nel caso in esame sembra di tutta evidenza la mancanza del cennato rapporto d’immediatezza. Il prevenuto ebbe dalla madre la notizia del secondo fallo commesso dalla sorella la sera avanti che seguisse la sua reazione omicida, cosi che egli poté dormirci sopra una notte e poi decidersi alla strage orrenda (ben nove tremendi colpi di scure egli vibrò sul capo e sul fragile corpo della sorella, appena diciottenne) senza che le mille voci del sentimento fraterno sorgenti da tanti dolci e teneri ricordi della vita trascorsa insieme valessero a fugare il fosco sentimento del suo orgoglio ferito per il peccato carnale commesso dalla sorella. Vero è che egli, comprendendo la necessità di accorciare il tempo trascorso tra la notizia avuta del nuovo fallo di costei e la sua reazione, ha tentato accortamente, d’accordo col padre, di far credere nella sua dichiarazione resa davanti al Giudice Istruttore che egli ebbe dal padre, nella stalla, notizia del nuovo trascorso della sorella, soltanto il mattino dell’11 ottobre in cui consumò il delitto. Ma a prescindere che neppure in questo caso sussisterebbe il rapporto d’immediatezza in quanto egli, dopo la informazione avuta dal padre  nella stalla, si recò nella piazza del paese intrattenendosi per una buona ora a discorrere con amici, le sue asserzioni al riguardo sono comunque nettamente smentite dalla madre la quale, anche al dibattimento, ha confermato che ella, fin dalla sera del 10, ebbe a informare il figlio del nuovo peccato commesso dalla sorella e che il figlio, a tale notizia, si allontanò da casa senza più ritornarvi la notte. Poi la stoccata finale: d’altronde ogni discussione a riguardo potrebbe dirsi anche ultranea, dal momento che lo stesso imputato ha dichiarato che quando il mattino dell’11 ottobre rientrando in casa vi trovò sola la sorella, nessuna intenzione aveva di ucciderla, ma si determinò a farlo solo quando ai suoi consigli e alle sue preghiere di cambiar vita, ella si sarebbe ribellata.

Guai in vista.

Va affermata la colpevolezza dell’imputato in ordine al delitto di omicidio volontario ascrittogli. Vanno, però, riconosciute in favore dell’imputato sia l’attenuante dello stato d’ira determinato dal contegno arrogante della sorella, sia l’attenuante del motivo di particolare valore morale, che trova fondamento nella grave offesa arrecata dalla vittima all’onore del fratello e della intera famiglia.

La Corte, partendo dal minimo della pena, 24 anni di reclusione, ne toglie un terzo per lo stato d’ira, arrivando a 16 anni di reclusione, e poi un altro terzo per il motivo di particolare valore morale, fissando così la pena a 10 anni e 8 mesi di reclusione.

La qual pena gli sta bene perché non si può indulgere di più a un fratello il quale, ormai superato il primo momento di scompiglio psichico sopraggiunto all’inopinata scoperta del peccato carnale commesso dalla sorella, si arroga il diritto di rendersi giustiziere di essa e giudice dell’onore famigliare.

Ma ancora non è finita, il reato rientra tra quelli che possono beneficiare del sovrano indulto N° 1156 del 17 ottobre 1942 e bisogna condonargli 3 anni della pena, che scende a 7 anni e 8 mesi.

Dovremmo aver finito, ma l’8 marzo 1950 la Corte d’Appello di Catanzaro dichiara condonato un altro anno: 6 anni e 8 mesi.[1]

Praticamente come se fosse stato considerato un delitto per causa d’onore.


[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Locri.

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