IL TURPE GENITORE

Nella tarda primavera del 1945 nella frazione Corte di Aprigliano comincia a circolare insistentemente la voce che il quarantatreenne Giuseppe Mascaro, oltre a sottoporre a continui ed inumani maltrattamenti la moglie, Assunta Ingribelli, e le figlie Raffaella, 17 anni, Rita, 12 anni, e Immacolata, 10 anni, da un anno tentava di deflorare la figlia maggiore. Come è stata messa in giro la voce? I vicini si sono accorti delle lividure sul viso delle vittime le quali, per pietà e per ritegno ne dissimulavano la vera causa. E, purtroppo, è tutto vero.

È la sera del 28 giugno 1945. Giuseppe, ancora più imbestialito per l’ennesimo rifiuto opposto da Raffaella alle sue turpi voglie, la rinchiude in uno stretto magazzino di cui ha inchiodato la finestra e costringe sua moglie ad entrare in uno stipo, a guisa di straccio, addossando ai battenti dello stipo stesso due casse ed un tavolino. Le due donne sono terrorizzate, ma più terrorizzate di loro sono le due bambine che il padre ha lasciato libere. Nel corso della notte, però, Rita e Immacolata si fanno forza e si alzano dal letto senza far rumore per non svegliare il padre che ronfa. Sudano freddo ma con sforzi superiori alle loro possibilità riescono a spostare il tavolo e le due casse quel tanto che basta a fare uscire la madre che, a sua volta, libera Raffaella; poi tutte e quattro le disgraziate scappano e si nascondono nelle vicinanze ad attendere l’alba.

Quando Giuseppe si alza e non trova più nessuno in casa comincia ad urlare come un pazzo che le ammazzerà tutte al ritorno dal lavoro, poi si prepara e si allontana come nulla fosse alla volta della Sila, portandosi dietro la chiave di casa. Ritorna quel pomeriggio, avvinazzato, e trova tutte e quattro vicino casa. Afferra Raffaella per i capelli e la costringe ad entrare, minacciando di ammazzarla se la madre si intrometterà. Assunta, con la morte nel cuore sapendo benissimo ciò che sta per accadere, vede la porta di casa chiudersi alle spalle di Giuseppe e di sua figlia. Poi sente Raffaella piangere e gridare e capisce che non può permettere che accada l’irreparabile. Si butta sulla porta riuscendo ad aprirla e si trova al cospetto del bruto che, con le brache sbottonate e brandendo la scure, tenta di costringere sua figlia alle sue voglie immonde. È un attimo che dura un’eternità. Il bruto, viepiù imbestialito per la preda che gli sfugge, lancia la scure contro sua moglie che riesce ad afferrarla al volo con la mano sinistra e nel contempo, presala anche con la destra, si avventa sul marito e lo colpisce dal basso verso l’alto tra il cranio ed il collo dalla parte destra finché non lo vede abbattersi sul pavimento, esanime in mezzo al proprio sangue. Poi, terrorizzata, corre dai Carabinieri per costituirsi. Sono le 16,00 del 29 giugno 1945 e fa caldo.

– L’ho ucciso per difendere la mia incolumità e l’onore di mia figlia diciassettenne – dice al Maresciallo Guglielmo Galasso, agitata e sconvolta, mentre tormenta tra le mani un fazzoletto. Poi ricostruisce brevemente i fatti.

Quando il Maresciallo Galasso arriva sul posto, Giuseppe Mascaro, steso a terra ad un paio di metri dal letto matrimoniale, boccheggia nel suo sangue che zampilla dalle ferite alla testa. È senza scarpe. Un parente del moribondo si incarica di andare a chiamare il dottor Francesco Quintavalle il quale, occupato nella medicazione e nelle visite di alcuni suoi pazienti, dice di non potere andare a visitare Mascaro e suggerisce di rivolgersi al medico condotto Mariano Grandinetti. Il messaggero ritorna, ma visto che il dottor Grandinetti abita troppo lontano, il Maresciallo decide di medicare egli stesso il ferito e poi di farlo trasportare con urgenza in ospedale.

Quattro ferite in corrispondenza della metà destra del cranio e precisamente: a) la prima, lunga circa 10 centimetri e larga 1, estendentesi dalla regione retro auricolare alla regione temporale di destra, obliqua dal basso in alto, spaccante il padiglione dell’orecchio a metà ed interessante i tessuti molli ed il periostio; b) una seconda ferita, quasi parallela ed al di sotto della prima, lunga circa 10 centimetri e larga da 1 a 3 centimetri circa, estendentesi dalla regione del lobulo dell’orecchio e della mastoide sino alla regione temporo-mandibolare, spaccante il lobulo dell’orecchio quasi completamente e profonda sino all’articolazione temporo-mandibolare che risulta completamente aperta e distrutta; c) una terza ferita al di sotto della seconda lunga circa 2 centimetri ed interessante i tessuti superficiali cutanei; d) una quarta ferita sulla stessa linea della terza, lunga circa 4 centimetri ed interessante soltanto i tessuti superficiali cutanei. È in pericolo di vita.

Assunta viene arrestata e ripete la sua versione dei fatti, confermata da Raffaella e dalle altre due bambine, ma il Maresciallo Galasso, nonostante abbia constatato di persona le lividure presenti sui corpi di Assunta, Raffaella e Rita, è portato a non credere né ai maltrattamenti e né ai tentativi di stupro. Pensa che ci debba essere qualcos’altro sotto, ma ancora non sa cosa.

Intanto Giuseppe, dopo due giorni di agonia, incredibilmente migliora e nemmeno dopo un paio di settimane viene addirittura dimesso e rimandato a casa. Interrogato dal Maresciallo, nega tutto e racconta:

Il pomeriggio del 29 giugno, ritornato alquanto avvinazzato dalla frazione Guarno dove avevo perduto la corsa dell’autocarro che mi doveva trasportare sul luogo di lavoro e dove in una cantina avevo consumato la colazione, bisticciai con mia moglie per futili motivi… mi aveva rimproverato per aver perso la giornata di lavoro. Poi mi coricai e mi addormentai. Fui svegliato dai tremendi colpi di scure infertimi alla testa da mia moglie nel sonno, che mi fecero subito perdere la coscienza

Mente. E sebbene tutto quello che ha passato dovrebbe consigliargli di starsene buono buono, l’assenza di sua moglie carcerata gli fa intravvedere la possibilità di realizzare il suo turpe disegno e si dimostra ancora più protervo nelle sue bestiali voglie. Infatti ci riprova subito. Il 14 agosto Raffaella va dal Maresciallo Galasso e denuncia:

La notte scorsa mio padre ha tentato, con violenza, di congiungersi carnalmente con me – dice imbarazzatissima, mentre mostra un certificato medico a firma del dottor Quintavalle. Il Maresciallo comincia a leggere e, ogni tanto ripete:

– …Una larga macchia ecchimotica alla guancia sinistra – alza lo sguardo per trovare conferma e la trova – …una lieve contusione all’occhio destro – si, c’è anche questa – …una contusione con lacerazione al ginocchio sinistro – questa non può vederla perché Raffaella non alza la lunga gonna – che vuoi farci? È tuo padre…

– Lo voglio denunciare – dice asciugandosi una lacrima, mentre il Maresciallo scuote la testa.

Due giorni dopo, 16 agosto, ad Assunta viene concessa la libertà provvisoria e torna in paese. Passano ancora due giorni e Raffaella si ripresenta dai Carabinieri con un altro certificato medico in mano. Questa volta, però, il Maresciallo Galasso non può credere alle proprie orecchie ed ai propri occhi quando ascolta la ragazza e legge il nuovo referto del dottor Quintavalle:

– L’altro giorno non vi ho detto la verità – dice la ragazza guardando il sorriso di soddisfazione abbozzato sulle labbra del Maresciallo, poi continua – o almeno non vi ho detto tutta la verità… perché mio padre, la notte dell’8 agosto, mi ha costretta con la violenza a congiungermi con lui… mi ha stretto fortemente la gola e ho dovuto cedere alle sue voglie immonde… nel mio letto… e continua a farlo ancora… leggete qua – e porge il certificato medico, quel certificato medico che è un grido di aiuto ed un’accusa terribile allo stesso tempo. Il sorriso sulle labbra del Maresciallo si spegne.

Riscontro sulla persona di Marasco Raffaella, agli organi genitali: a) vulva arrossata con mancanza di peli; b) grandi e piccole labbra iperemiche e dolenti; c) imene lacerato con piaga bene evidente a destra; d) vagina molto dilatata dove entrano comodamente due dita, dolente ed iperemica. Dichiaro altresì che con molta probabilità la deflorazione è avvenuta intorno all’8 agosto ultimo scorso.

– E dov’è la prova che è stato tuo padre? – Galasso si è ripreso dalla sorpresa e parte all’attacco – Magari hai fatto la civetta con qualcuno! Perché non lo hai detto l’altro giorno? Te lo dico io perché… guarda caso tua madre è uscita dal carcere due giorni fa e a te viene subito in mente di accusare tuo padre! Dì la verità, ti ha istigata tua madre! – Raffaella lo guarda con occhi di fuoco, poi si mette a piangere e se ne va.

Quando il 4 settembre Raffaella viene ascoltata dal Procuratore del re di Cosenza, ripete con particolari minuti ed impressionanti tutte le accuse contro suo padre e ne aggiunge un’altra ancora più terribile: ha compiuto atti di libidine sulla minore delle sorelle, Immacolata. Dopo la confessione di Raffaella, sua madre denuncia il marito anche per questo reato. E allora bisogna sentire che cosa ha da dire Giuseppe Mascaro:

L’ha deflorata un altro uomo e mi incolpa per istigazione della madre… – la stessa teoria del Maresciallo Galasso il quale, nonostante tutte le testimonianze raccolte dicano che Raffaella è una ragazza ingenua, seria e onesta, continua a sostenere il contrario.

Terminate le indagini, la Sezione Istruttoria emette la sentenza di rinvio a giudizio e le sorprese non mancano: Assunta Ingribelli sarà processata per lesioni con sfregio permanente del viso; Giuseppe Mascaro per maltrattamenti in famiglia, tentata violenza carnale e violenza carnale continuata ai danni della figlia Raffaella, nonché per atti di libidine violenta ai danni della piccola Immacolata. Poi la sorpresa: ad essere sottoposto a processo sarà anche il dottor Francesco Quintavalle, accusato di non avere osservato un ordine ricevuto dal Comandante della stazione dei Carabinieri di Aprigliano per ragioni di giustizia.

Il 3 ottobre 1946 è il giorno del giudizio. La Corte esamina subito la posizione del dottor Quintavalle, la più semplice, anche perché il reato è estinto per amnistia. Ma Quintavalle, da gentiluomo, rinuncia al beneficio e chiede di essere giudicato. Il dottore, libero medico, non ricevette l’ordine da parte del Maresciallo dei Carabinieri, ma un semplice, per quanto insistente, invito da parte di un cugino della vittima di recarsi a medicare il ferito. E a questo invito egli non aderì non per ragioni di interesse, ma perché occupato in quel momento a medicare un altro ferito. Va assolto.

Poi viene esaminata la posizione di Giuseppe Mascaro per i reati di tentata violenza carnale e di violenza carnale continuata ai danni di sua figlia Raffaella. Padre e figlia vengono messi uno di fronte all’altra in un drammatico confronto in aula e la ragazza, senza tentennamenti, sostiene l’accusa. Il padre non sa fare altro che trincerarsi dietro semplici dinieghi e dietro l’insinuazione, la solita, che un altro uomo ha deflorato sua figlia e che costei incolpi lui per insinuazione della madre. Ed è a questo punto che la Corte fa una durissima reprimenda all’operato del Maresciallo Galasso: né il turpe genitore, né il Maresciallo Galasso – il quale avalla la tesi del mostro – sanno indicare un solo uomo nel ristretto ambiente di Aprigliano con cui ella abbia amoreggiato o soltanto “frascheggiato” o fatto semplici vezzi. La logica più elementare dei fatti e dei sentimenti umani si ribella, poi, ad ammettere che da Raffaella, innocente e pia, e dalla madre buona e laboriosa massaia, tutta dedita a sostenere la famiglia e negletta dal marito e misericordiosa verso costui fino a tollerarne ed a nasconderne per anni il brutale comportamento, possa partire calunniosamente una così mostruosa accusa. Della quale, per converso, i fatti antecedenti, le lesioni varie riscontrate sul corpo e sui genitali di Raffaella e le perizie mediche ribadiscono la esattezza. Questa è ancora più rinsaldata dal fatto cruento del 29 giugno perché non è nell’ordine comune dai fatti umani che una donna dai precedenti morali e psichici normali colpisca volontariamente a morte il proprio marito senza una causa gravissima; e Mascaro Giuseppe ne adduce una banale e futile: il mancato guadagno di una giornata di lavoro!

Il verbalizzante Marasciallo Galasso si erge a paladino di Mascaro ed escogita: la deflorazione non è opera del padre, perché, se così fosse, Raffaella, che il 14 denunziò soltanto il delitto tentato, avrebbe anche denunziato il delitto consumato avvenuto il giorno 8; delitto, questo ultimo, che invece denunzia il giorno 18, dopo che la madre è uscita dal carcere da due giorni, il 16; ergo: macchinazione della madre; ergo: calunnia, tanto più che Raffaella per due notti, nella prima quindicina di agosto, ha dormito fuori casa; ergo ancora: incesto, se mai, di Raffaella col padre!

Senonchè Galasso, oltre a trascurare tutte le risultanze istruttorie e le considerazioni logiche, dimentica questo elemento psicologico di comune comprensione: la ragazza, sola (le due sorelline, vittime anch’esse, non potevano darle alcun aiuto) in balìa di un padre brutale, giunta al limite estremo di ogni umana sopportazione, ha ritegno di denunziare la violenta deflorazione avvenuta, che rappresenta il marchio indelebile della sua sciagura, e denunzia soltanto la violenta deflorazione tentata, la cui verità è confortata da elementi indiscutibili. Poi la madre viene scarcerata e può comprendere le sue pene. Le confida l’ultima irreparabile sciagura e, da lei materialmente e moralmente sorretta, vince il pudore e la ritrosia innati e si fa visitare negli organi genitali contaminati e lacerati dal padre immondo. E così avviene naturale, piena, spontanea la denunzia del più turpe antecedente misfatto.

La realtà, osserva la Corte, è che Giuseppe Mascaro, col suo costante brutale comportamento, aveva incusso un terrore folle alla moglie ed alle figlie che, perciò, tremavano ad un suo cenno torvo. Esse erano, cioè, ridotte in istato di inferiorità psichica del quale egli profittò per sfogare la sua foia sulla vittima incapace di resistergli. Per questo si deve affermare la sua colpevolezza nei delitti di violenza carnale continuata e tentata violenza carnale. Pena congrua, data la gravità e la turpitudine del fatto, che desta sdegno e raccapriccio nella società, è la reclusione per anni 14. Ma ci sono ancora da esaminare altri due reati: i maltrattamenti in famiglia e gli atti di libidine violenta. Il primo reato, essendo stato commesso anteriormente al 18 giugno 1946, è estinto per effetto dell’amnistia del 22 giugno 1946. Per gli atti di libidine violenta commessa ai danni della piccola Immacolata, la Corte dice: si dovrebbe affermare la colpevolezza di Mascaro anche nel delitto di atti di libidine, la cui prova è data dal racconto raccapricciante della bambina, la quale è sicura anche nel drammatico confronto col padre ed è credibile perché, data la sua tenera età ed il conseguente suo stato d’innocenza, non può sapere di nudità invereconde, né inventare che una notte, mentre la madre era in carcere, il padre, recatosi nel suo letto, le aveva messo la “ciotarella” (il pene) fra le cosce. Tuttavia alcuni tentennamenti sul tempo (durante la carcerazione della madre o dopo, o due volte?) e sul luogo (nel letto del padre o di Raffaella?) inseriscono nell’animo della Corte qualche perplessità ed inducono perciò la Corte stessa ad assolvere l’imputato per insufficienza di prove.

Resta solo di esaminare la posizione di Assunta Ingribelli. La Corte scarta la versione che del fatto dà Giuseppe Mascaro ed avallata dal Maresciallo Galasso, cioè che Mascaro fu colpito sul letto mentre dormiva. Questa ipotesi è smentita dalla direzione obliqua, dal basso in alto, delle ferite perché se i colpi fossero stati inferti percuotendo dall’alto il dormiente adagiato sul letto, il solo peso dell’arma, circa 3 chilogrammi, col minimo sforzo di lancio avrebbe, se addirittura non reciso la parte superiore della testa, almeno spaccato in senso normale, sino alla massa cerebrale, mastoide temporale e mandibola ed un sol colpo sarebbe stato mortale. Ciò significa che l’arma colpì di striscio, quasi orizzontalmente, brandita con la sinistra da persona che si trovava di fronte al ferito ed un poco più in basso. Poi c’è la prova più lampante che la ricostruzione fatta da Mascaro e avallata dal Maresciallo Galasso è falsa: né sul letto, né vicino al letto fu trovata la minima macchia di sangue, che pure sgorgava copioso ed istantaneo dalle ferite. E non deve tacersi che fu proprio il Maresciallo Galassi a verbalizzare di aver trovato Mascaro esanime a due o tre metri dal letto. Se le macchie fossero state sul letto o vicino al letto il Maresciallo, che sosteneva la tesi del ferimento sul letto e nel sonno, non avrebbe mancato di rilevarlo.

Nel caso specifico i requisiti della legittima difesa ricorrono tutti imponenti: necessità di difendere l’onore della figlia e la propria incolumità personale, insieme con l’ansia tormentosa di nuovi, imminenti attentati alla figlia. Senza i colpi di scure il marito bestiale avrebbe forse strozzata la moglie come la notte precedente l’aveva chiusa in uno stipo a guisa di un mucchio di stracci!

La Corte, con sicura coscienza, assolve quindi Ingribelli Assunta perché non punibile per avere agito in stato di legittima difesa.

Il 10 luglio 1954, la Corte d’Appello di Catanzaro, applicando il D.P. 19/12/1953, dichiara condonata a Giuseppe Mascaro la residua pena di anni due e mesi dieci di reclusione.[1]


[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.

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