Agli inizi del 1947 l’autista di Cosenza Celestino Mauro è fidanzato con Agata Cirolia e i due innamorati pensano di sposarsi. Il giovane, previdentemente, consegna alla fidanzata qualche suo risparmio per raccogliere il denaro occorrente al matrimonio e consegna, nello stesso tempo, seimila lire al mese anche a sua madre per far fronte alle necessità della sua numerosa famiglia, in gravi angustie economiche poiché il padre ricava assai poco dal suo mestiere di infermiere e da una pensioncina di invalidità, essendo affetto da tubercolosi fin dalla Prima Guerra Mondiale. Il problema è che la madre di Celestino ritiene che seimila lire al mese siano troppo poche in rapporto alla necessità della famiglia e ai guadagni del figlio e nello stesso tempo non vede di buon occhio il fidanzamento con Agata perché vorrebbe che Celestino, prima di pensare a sposarsi, pensasse alla sistemazione di sua sorella Lucia. Proprio di questo più volte si è lagnata col figlio e più volte lei e Lucia hanno manifestato e manifestano il loro malanimo contro la povera Agata.
Giuseppe Mauro, il padre, no. Lui si è sempre comportato da genitore affettuoso sia verso Celestino che verso tutti gli altri numerosi figli. Nessun rimprovero per il contributo alle spese familiari e nessun malanimo verso la fidanzata. Tuttavia, stretto dalle angustie familiari e dalle lagnanze di moglie e figlia, la sera del 3 marzo 1947 decide di parlare con Celestino per convincerlo ad assecondare le due donne:
– Andiamo nella camera da pranzo, ti devo parlare – dice al figlio appena questi mette piede in casa. Celestino toglie il cappotto e lo poggia sopra una sedia, si sfila la rivoltella che porta con sé per motivi di lavoro e la poggia sul tavolo. Poi ascolta ciò che suo padre ha da dirgli –. Tu sai le prove di affezione che ti ho sempre dato e sai i bisogni della nostra famiglia… – Celestino capisce l’antifona e comincia ad infastidirsi. Il padre lo guarda negli occhi e continua – ti prego, per l’anima dei morti, dai a tua madre qualcosa di più…
– Papà, sentimi, te lo dico ora e poi non ne voglio parlare più: se mamma non si contenta delle seimila lire, non le darò più niente! – risponde con tono risentito.
– Ah! Così la pensi? Allora ti dico che se non fai il tuo dovere, questa storia la finisco io perché vado a casa della tua fidanzata e faccio un bordello! Sono pronto anche a rompere il culo a tuo suocero!
A queste parole, Celestino, invaso dalla collera, prima picchia violentemente un pugno sul tavolo e poi sferra un potente calcio sull’addome del padre, che si piega in due per il dolore. Dal colloquio all’alterco il passo è stato brevissimo e i toni si sono alzati al punto da richiamare l’attenzione, non solo dei familiari, ma anche dei vicini.
Adesso è Giuseppe ad essere imbestialito per il gesto del figlio e, fattosi forza per rimettersi dritto, impugna la rivoltella che il figlio aveva posato sul tavolo, e da circa un metro di distanza gli spara un colpo al petto.
– Ahi! Mi hai ammazzato! – urla Celestino portandosi la mano al petto dal quale comincia a schizzare il sangue. Poi guarda il padre e gli legge negli occhi il ghiaccio della morte. Scappa via inseguito dal genitore che protende ancora la mano armata e mentre Celestino corre giù per le scale, il padre gli spara un altro colpo che va a vuoto, ma continua a corrergli dietro e dietro di lui Lucia che riesce a raggiungerlo, fermarlo e portargli via l’arma, poi corre a nasconderla sotto il cuscino di un divanetto. Ora la ragazza, con i vicini sopraggiunti, si muove sulle orme del fratello, seguendo le abbondanti macchie di sangue che dall’interno della camera in cui è avvenuto il diverbio, continuano sulla scala, in un atrio, sull’ingresso dell’abitazione, in un altro atrio e sopra una gradinata esterna. Trentacinque metri, fino al punto in cui trova Celestino, già morto.
Lucia lascia il fratello lì e corre subito in casa, ha un pensiero che la terrorizza: la rivoltella che ha tolto a suo padre è quella di Celestino e in casa c’è un’altra rivoltella. Teme che suo padre possa fare qualche altra sciocchezza. Apre il cassetto dove dovrebbe essere l’arma e tira un sospiro di sollievo. È ancora lì, così la prende e la consegna ad una vicina perché la nasconda, poi cerca suo padre, che è accasciato sopra una sedia, attorniato dai vicini, ai quali racconta:
– Celestino, a seguito del diverbio, mi ha sparato un colpo di rivoltella all’addome… vedete? – dice tirandosi su la maglia e mostrando una vasta macchia nera sulla pelle – e quindi si è dato alla fuga…
– Ma è morto! E come è morto? – gli chiede qualcuno.
– Gli hai sparato tu! – dice un altro.
– No! Io non ho fatto uso di armi! – mente – si sarà suicidato…
Lo portano in ospedale e, incredibilmente, riesce a far credere al medico di guardia che la lesione, effettivamente rilevabile sul suo corpo alla regione addominale, sia stata prodotta da un proiettile d’arma da fuoco corta, ritenuto in cavità, e viene rilasciato un referto medico in tal senso. Ma ben presto quel medico si accorge del suo errore e si affretta a riferire che la lesione non è da arma da fuoco, ma da corpo contundente.
Giuseppe viene arrestato e, nonostante l’evidenza, continua a ripetere la sua versione dei fatti, sostenuto dalle dichiarazioni di sua moglie e di sua figlia Lucia, che ritratta le dichiarazioni rilasciate in un primo tempo alla Questura, nelle quali diceva di aver visto il padre sparare a Celestino mentre questi scappava giù per le scale.
Anche non volendo considerare la perizia balistica ordinata dalla Procura e le testimonianze di comodo, troppo evidente è il mendacio di Giuseppe Mauro perché bisognerebbe capire come sia possibile che un suicida si spari un colpo di rivoltella in pieno petto da un metro di distanza e che il proiettile gli trapassi da parte a parte un polmone e poi si metta a correre inseguito dal padre armato, perciò Giuseppe Mauro viene rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza.
Nel dibattimento, stretto dalle risultanze istruttorie e dalle contestazioni mossegli, Giuseppe Mauro finalmente confessa, raccontando ciò che è avvenuto, ma nega di aver sparato il secondo colpo volontariamente.
– Celestino si è allontanato verso la scala, io l’ho seguito con la rivoltella in mano e, senza volerlo, nel buio e nella concitazione in cui mi trovavo, è partito un altro colpo…
No, non può essere andata così. La Corte sostiene che non può ammettersi che il colpevole abbia esploso volontariamente contro il figlio un solo colpo, mentre l’altro sarebbe partito dall’arma accidentalmente e, comunque, senza sua volontà. Risulta dagli accertamenti eseguiti e dalle dichiarazioni rese dalla figlia Lucia in un primo momento alla Pubblica Sicurezza – le sole credibili poiché le ulteriori modificazioni e ritrattazioni, rimaste sempre senza una plausibile giustificazione, costituiscono evidentemente uno scusabile sforzo della figlia per attenuare le responsabilità del proprio padre – che Giuseppe Mauro, dopo aver sparato una prima volta contro il figlio, lo inseguì, sempre armato della rivoltella, e mentre quegli cercava di porsi in salvo scendendo per le scale, gli sparò un altro colpo che fallì il bersaglio, ma pel posto dove la pallottola attinse il muro, un metro in alto del corrispondente gradino, risulta essere stato diretto proprio contro il figlio.
Sembrerebbe una questione poco rilevante perché, oltre alle prove raccolte, la Corte ha anche la confessione del colpevole, ma non è così. Se il secondo colpo fosse partito accidentalmente, la difesa potrebbe cercare di dimostrare che Giuseppe Mauro sparò anche il primo colpo senza la volontà di uccidere. Nell’altro caso è evidente la volontà omicida e l’imputato rischia seriamente di essere condannato all’ergastolo per l’aggravante del vincolo di parentela.
Infatti la Corte osserva: Pertanto, appena si consideri che il primo colpo fu esploso da Giuseppe Mauro stando di fronte al figlio, a breve distanza, e dirigendo un’arma micidiale a parte vitalissima; che egli lo inseguì e reiterò il colpo pur essendo certo, per le parole dette dalla vittima, di averlo già attinto; che altri colpi non poté sparare perché fu privato dell’arma; che la causa del delitto non può giudicarsi lieve se si rapporta , come è logico, non ai precedenti ed alla pretesa di un maggiore contributo da parte del figlio, ma all’alterco ed alla violenza di Celestino usata contro il padre, non può dubitarsi che il colpevole abbia agito con l’intenzione di uccidere.
Grossi guai in vista.
Ma la Corte ammorbidisce i toni: È giusto ritenere in favore di Giuseppe Mauro l’attenuante della provocazione. È giusto anche concedergli le attenuanti generiche poiché non può negarsi che nel caso concreto sussistano in favore del colpevole, oltre lo stato d’ira provocato da fatto ingiusto del subietto passivo, altre circostanze che, considerate in sé stesse e in correlazione con quelle contrarie, costituiscono una particolare caratteristica del reato e consigliano di irrogare la pena in misura anche minore del minimo edittale.
Poi arriva quasi un vero e proprio elogio: Per vero, mentre il reato non presenta per le modalità dell’azione, per il danno prodotto, per l’intensità del dolo, una gravità maggiore di quella insita naturalmente nel parricidio (genericamente l’omicidio di un parente stretto in linea ascendente o discendente), assai scarsa deve giudicarsi la capacità a delinquere del colpevole e degno di benigna considerazione il suo stato, quando si considerino i suoi ottimi precedenti di cittadino, di padre di famiglia, i motivi del delitto che fin dalla pretesa di un maggior aiuto da parte del figlio si colorano di giustizia e di scusabilità, la grave infermità contratta in guerra che da tanti anni travaglia Giuseppe Mauro.
E, infine, la pena: Pena giusta pel Mauro pare dunque alla Corte quella di anni 14 di reclusione, cui si perviene sostituendo, per effetto della provocazione, alla pena dell’ergastolo la reclusione per vent’anni e diminuendo ancora di anni sei per le attenuanti generiche.
La Corte d’Appello di Catanzaro, il 23 giugno 1952, conferma la sentenza di primo grado, ma dichiara condonati anni tre di reclusione.
La parola fine viene scritta dalla Suprema Corte di Cassazione il 20 giugno 1953 quando dichiara inammissibile il ricorso proposto dall’imputato.[1]
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.
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