
Quando, nel 1926, Franceschina Cuzzetto muore a Grimaldi, lascia suo marito, Angelo Voltura, e tre figlie quasi adolescenti: Michelina, Enerina ed Ermelinda. Per Angelo lavorare e badare alle ragazzine senza che corrano il rischio di “mettersi nei guai” è un impegno troppo gravoso, così, col consenso della famiglia della sua povera moglie, sposa sua cognata Rosina Cuzzetto e sarà lei a badare alle figlie.
Dopo qualche mese dalle seconde nozze per Angelo si aprono le porte della speranza di un futuro migliore: l’America! Non ci pensa due volte e parte, lasciando moglie e figlie in paese. Angelo si dimostra subito molto premuroso non trascurando di provvedere, con periodiche rimesse di denaro, al mantenimento di quei suoi congiunti.
Passa qualche anno e arriva la prima gioia perché Michelina, la figlia maggiore, si sposa e va a vivere per conto suo, mentre Rosina e le altre due ragazze vanno ad abitare in una casa vicina a quella dove hanno abitato finora. La nuova casa, al primo piano del fabbricato di Via Timpone 19, ha un vano all’ingresso ed altri due vani, di cui uno adibito a cucina, al secondo piano, tutti con accesso dalla medesima scala, a piè della quale è un piccolo andito con unica porta d’ingresso.
Siamo ormai nell’estate del 1933, il 21 luglio per essere precisi. In casa Voltura, oltre alle tre donne che la abitano, ci sono due ospiti: Giovanna Muraca, un’amica di Rosina, ed una nipotina di quest’ultima, venuta da Cosenza sin dal precedente mese di aprile presso la zia per ragioni di salute. Tutte e cinque passano tranquillamente la serata nella stanza del secondo piano in attesa della solita visita del fidanzato di Enerina e non essendo costui venuto perché impedito da un improvviso malessere, verso le 23,00 le due sorelle e Giovanna Muraca scendono al primo piano per andare a letto, mentre Rosina e la nipotina vanno a letto nella stanza al secondo piano.
Forse nessuno ci ha badato, ma la porta d’ingresso è rimasta accostata mediante un lucchetto che può essere manovrato dall’esterno. Un paio di ore dopo, verso le ore 1 e 30, Giovanna, Enerina ed Ermelinda vengono svegliate di soprassalto dalle detonazioni di due colpi di arma da fuoco. Le tre donne non sono ancora riuscite a rendersi conto delle detonazioni e sono terrorizzate, quando sentono Rosina che le chiama dalle scale. Aprono la porta e se la trovano davanti, spaventata anch’essa, con la nipotina in braccio, che adagia su un letto. È in questo momento che vedono nella mano destra di Rosina una rivoltella. Lei le guarda e dice:
– Sopra c’è un morto… informate i Carabinieri – poi scappa con l’arma in mano.
I militari arrivano mezz’ora dopo e constatano che nella cucina al secondo piano giace per terra, con la testa in una pozza di sangue, il cadavere del pregiudicato Beniamino Jachetta, vestito di maglia, calzoni, calze e scarpine con suole di gomma e non anche della giacca, che si trova nella stessa cucina appesa alla spalliera di una sedia, sulla quale si trova pure un berretto. Accanto al cadavere, che tiene al collo a mo’ di sciarpa un fazzoletto non annodato, ci sono uno accanto all’altro due scannetti di legno, di cui uno rovesciato Su una piccola mensola presso il focolare vi è un mozzicone di sigaretta ed in un piatto un po’ di busecca cruda. Tutto il resto nella cucina e nella stanza attigua è in ordine.
Osservando il cadavere si nota una ferita alla regione occipitale destra con fuoriuscita di materia cerebrale, prodotta da proiettile da arma da fuoco di piccolo calibro, esploso quasi a bruciapelo, ed altre due simili ferite, in comunicazione fra loro, rispettivamente alla regione posteriore ed a quella anteriore dell’articolazione della spalla destra, rappresentante la prima il foro di entrata e la seconda il foro di uscita di un unico proiettile. La morte è stata istantanea ed è evidente che chi ha sparato a Jachetta lo ha fatto standogli alle spalle. Quasi un’esecuzione.
Intanto Rosina Cuzzetto è irreperibile, ma dopo appena 24 ore dal fatto, alle ore 1 e 30 del giorno 23 luglio, si presenta in Questura a Cosenza.
– Sono stata io a uccidere Beniamino Jachetta – dice al Commissario che la interroga, consegnandogli la rivoltella contenente tre cartucce cariche e due esplose. Poi spiega –. Avendo avuto occasione, nel febbraio di quest’anno, di avvicinare il Jachetta per pregarlo di indurre il di lui amico Antonio Joele a troncare una campagna diffamatoria che avea iniziato contro la memoria della propria moglie, Michelina Voltura mia nipote, Jachetta ne profittò per manifestarmi, addirittura, che intendeva possedermi, né seppe rassegnarsi alla mia recisa ripulsa poiché, convinto di potermi piegare ai suoi voleri compromettendo la mia fama di donna onesta di cui godo, cominciò a farmi una corte ostentata e senza riguardi, anche diffamandomi propalando di essere in intime relazioni amorose con me. Anche questi espedienti, però, risultarono vani ed allora Jachetta, la sera del 21, dopo le 23, mentre accudivo alle ultime faccende della giornata e pensavo di andare a chiudere l’uscio che era rimasto, fino allora, accostato in attesa del fidanzato di Enerina e mettermi a letto, è entrato clandestinamente e si è spinto fino a me senza essersi fatto sentire. Mi ha aggredito e ha cominciato a usarmi violenza per impedire che gridassi e per costringermi a congiunzione carnale. In siffatte condizioni mi sono mostrata disposta a contentarlo e così, apparentemente d’accordo, siamo passati nella cucina dove Jachetta, spogliatosi della giacca, che insieme alla rivoltella di cui era armato ha posato sopra una sedia. Si è seduto su uno scannetto di legno, trattenendosi a fumare una sigaretta accanto a me. Emozionata dall’accaduto e di quanto stava per accadere, mi sono seduta su un altro scannetto… a un certo punto, dopo un paio di ore, mi sono alzata per andare a bere in un momento in cui, girando alle spalle di Jachetta, ho avuto a portata di mano la rivoltella. Istantaneamente l’ho impugnata e ho esploso due colpi contro quel prepotente, rendendolo all’istante cadavere…
Sembra, tutto sommato, una ricostruzione credibile, ma i Carabinieri, indagando, hanno motivo di credere, al contrario, che Rosina Cuzzetto e Beniamino Jachetta erano da molto tempo in intime relazioni e la notte del 21 luglio, dopo averlo accolto in casa come altre volte, lo ha ucciso a tradimento per ragioni imprecisate, ma certamente diverse dalla pretesa necessità di sottrarsi ad una violenza carnale. I Carabinieri sono portati a pensare che le cose siano andate così perché scoprono che il fratello di Rosina, Emilio Cuzzetto, tre mesi e mezzo prima avea sparato contro Jachetta un colpo di rivoltella che andò a vuoto. E chi ha raccontato questi particolari? La fresca vedova Rosina Fioretti la quale, scappata da Grimaldi il 14 giugno per sottrarsi ai maltrattamenti del marito, è ritornata dopo l’omicidio.
– La notte del 3 aprile – racconta la vedova – rincasato ad ora molto tarda in stato di grande emozione, mi marito mi informò che poco prima in Via Timpone, uscendo dalla casa di Rosina Cuzzetto, era stato fatto segno ad un colpo di rivoltella esploso da persona che non poté conoscere… mi spiegò che era stato in quella casa perché da molto tempo era in intimi rapporti con quella donna e che era convinto che autore dell’attentato non poteva essere stato che Emilio Cuzzetto, fratello della sua amante, il quale avea interesse a sopprimerlo anche pel motivo che, sapendolo a conoscenza di una impresa delittuosa, temeva che avesse potuto comprometterlo. Da quel momento in casa nostra non vi è stata più pace perché siccome la tresca andava propagandosi in paese, mio marito ne attribuiva a me la colpa e, ossessionato come era dal timore che Emilio Cuzzetto non lo avrebbe lasciato vivere a lungo, sfogava contro di me il proprio nervosismo con continui dispetti, violenze e minacce, costringendomi ad abbandonarlo ed a ritirarmi con i miei figli a Cleto.
Ma nonostante queste precise accuse contro Emilio Cuzzetto, i Carabinieri ritengono che la confessione di Rosina (ripetuta sempre nello stesso modo in tutti gli interrogatori), pur costellata di bugie, sia credibile e non richiedono alcun provvedimento restrittivo contro il fratello, che resta comunque indagato per tentato omicidio e concorso in omicidio.
Il 3 aprile 1934, il Giudice Istruttore proscioglie Emilio Cuzzetto dalle accuse per non aver commesso il fatto e rinvia a giudizio Rosina con l’accusa di omicidio premeditato, sebbene non sia ben chiaro il movente.
Il 22 luglio 1935 inizia il dibattimento presso la Corte d’Assise di Cosenza e Rosina conferma ancora una volta la sua versione dei fatti: ha ucciso Jachetta per la necessità di difendere il proprio onore, ma è del tutto evidente che continua a mentire, sia perché oltre alle dichiarazioni della vedova se ne aggiungono altre che confermano la relazione tra i due, sia perché adesso si scopre che dopo il 3 aprile – data del presunto attentato a Jachetta – e sino a tutto il successivo mese di maggio, i due amanti ebbero motivi di contrasti e diffidenze per cui la loro relazione, già in crisi, finì per manifestarsi a diverse persone e certamente a Michelina D’Alessio ed ai suoi figli i quali, avendo avuto nelle mani una lettera che Rosina le aveva consegnato per farla recapitare a Jachetta, ne lessero il contenuto dal quale rilevarono che Rosina, mostrandosi risentita contro Jachetta perché sebbene invitato mediante i convenuti segnali disposti alla finestra, non era andato a trovarla a casa, gli dava appuntamento per l’indomani in un suo fondo. La teste aggiunge anche di avere assistito in casa sua ad un alterco tra i due amanti che non furono abbastanza riserbati sui rapporti che erano corsi tra loro.
Ne volete di più? In udienza emerge anche che Rosina, lamentandosi con alcuni paesani che Jachetta la insultava, li pregò di sollecitare costui ad andare a trovarla a casa e di fargli sapere che aveva pronto un pugnale per usarlo contro di lui se non avesse aderito all’invito.
Viene fuori, poi, che Beniamino Jachetta, rispondendo ad un amico che lo esortava a troncare la relazione con Rosina, gli disse che non poteva più allontanarsi da quella donna, accennando anzi al proposito di fuggire con lei da Grimaldi e di questa progettata fuga non ebbe ritegno di parlare anche alla propria moglie, cui lasciò intravvedere che avrebbe saputo ricavarne qualche biglietto da mille per sollevare, a spese dell’amante, le misere condizioni della famiglia.
Beniamino, quindi, cautamente operava per attuare la fuga, cominciando col sospendere le visite all’amante per evitare occasioni che avessero potuto, per la suscettibilità dei parenti di costei, compromettere l’esito della progettata impresa; Rosina, invece, con lettere ed imbasciate continuava ad invitarlo a segreti colloqui in casa di lei, che non risulta siano avvenuti. Tutto ciò manifesta all’evidenza, sostiene la Corte, che i due amanti non erano più di accordo fra loro e poiché è certo che Jachetta mirava a legarsi più intimamente alla Cuzzetto fuggendo con lei, è da convenire che questa, appunto perché in quel tempo stesso era in contrasto col Jachetta, mirasse invece a sciogliersi da costui, ma aveva ancora bisogno di parlargli per tentare d’indurlo, nell’interesse comune, a troncare quella loro relazione così che, cedendo certamente a reiterati analoghi inviti dell’imputata, Jachetta si trovò con lei la notte del 21 luglio 1933. E questo rappresenta, per la Corte, il movente. Ma ora c’è da risolvere il problema della premeditazione: Rosina fin dall’inizio dichiarò che l’arma di cui si era servita per uccidere Jachetta apparteneva a lui stesso, che l’aveva posata sopra la sedia sulla quale aveva posato anche la giacca e che lei l’aveva presa facilmente nel momento in cui si decise a commettere il delitto. Per la Corte su questo punto Rosina non ha mai mentito perché se lo avesse fatto, le indagini avrebbero potuto svelare il suo mendacio. E se è stato così, è evidente che l’omicidio non fu premeditato.
Ma v’ha di più: poiché la Cuzzetto, che da zitella non avea mai dato motivo a sospettare della sua onestà e poi da sposa avea dato costante prova della sua fedeltà coniugale per ben nove anni, sino a quando non ebbe la debolezza di cedere alle male arti di Jachetta, non potea, solo per questo fallo, perdere tanto della sua pudicizia, del suo senso morale, della sua stima verso il marito, che pur da lontano non le faceva nulla mancare, da non sentire l’imprescindibile necessità di astenersi da tutto ciò che avesse potuto, comunque, influire a rendere di pubblica ragione la sua colpa. Per ciò, non potendo costei comprendere che un grave fatto di sangue da lei commesso nel cuore della notte, nella propria casa, contro un uomo che non avea legittimo motivo di trovarsi solo con lei e per giunta in maniche di camicia, non avrebbe potuto trovare nel pubblico altra spiegazione che quella di una reazione più o meno giustificata contro un amante, non avrebbe mai in siffatte condizioni, sol che avesse avuto tempo di riflettervi, ucciso Jachetta.
La Corte ritiene che non si possa dubitare che in quella notte fatale, al contrasto fra i due determinato dal dissenso circa la continuazione della tresca, se ne sia aggiunto un altro per una richiesta di congiunzione carnale respinta, perché è naturale che i due vi siano scivolati per coerenza ed in conseguenza del contratto, principalmente perché, del resto, è perfettamente verosimile che Jachetta, separato da oltre un mese dalla moglie, avesse voluto concludere con qualche cosa di concreto una visita in cui si erano fatte molte parole.
Quindi non può disconoscersi che Rosina Cuzzetto abbia agito per motivi di particolare valore morale ed in stato d’ira determinato da fatto ingiusto di Jachetta e le competono entrambe le relative attenuanti, le quali nella specie sono compatibili perché fondate su fatti distinti. L’illecita relazione corsa tra i due non poteva mai pregiudicare il diritto di quest’ultima alla propria libertà sessuale così da autorizzare quell’uomo a poter disporre dell’amante, anche nolente, per il soddisfacimento della sua libidine. Jachetta, dunque, agiva ingiustamente ed in modo offensivo al diritto di libertà sessuale di quella donna e ciò basta ad attenuare la reazione di costei.
In cifre fanno 9 anni e 4 mesi di reclusione, più pene accessorie.[1]
È il 22 luglio 1935 e un Tribunale calabrese afferma che la donna ha diritto alla propria libertà sessuale.
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.
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