LE MOINE DELL’UOMO MATURO

Nel 1933, Luigi Bombino, contadino di Rota Greca, ha 72 anni. Circa dodici anni prima, abbandonato dalla moglie e non avendo altra persona al mondo che potesse assisterlo, chiese ed ottenne, previa donazione di una casetta, i favori di Teresina, che ebbe per il vecchio affetto e premure infinite. I due vivono more uxorio per circa nove anni nella massima armonia e nel più perfetto accordo, durante i quali nascono anche quattro bambini, ai quali Luigi dona tutto ciò che gli è rimasto, cioè un’altra casetta e un piccolo appezzamento di terreno.

Ma le insidie sono dietro l’angolo. Nell’estate del 1932 questo idillio senile si incrina fino al punto che, allettata dalla guardia campestre Giuseppe Olivieri, o forse perché alle moine del vecchio preferì quelle dell’uomo maturo, aitante ed esuberante di salute, Teresa abbandona Luigi e i figli per darsi completamente a Giuseppe, nonostante sia a conoscenza che è sposato con figli.

Luigi è sconvolto e ne soffre immensamente specie perché, essendosi spogliato di tutto, gli sono venuti a mancare i mezzi per vivere. E così vive insieme ai figli per oltre un anno una vita di miseria e di abbrutimento, cibandosi, e cibando i figli, come meglio può e dormendo su di un pagliericcio sporco e pieno di insetti di ogni specie.

Luigi ha perso tutto, ma non la speranza di far tornare Teresa a casa, tanto che fa parecchi tentativi interessando amici e persino il Brigadiere dei Carabinieri, ma senza alcun risultato.

Con l’animo sempre angosciato e col corpo in via di disfacimento per la mancanza di nutrizione, la mattina dell’11 novembre 1933 prende il suo vecchio fucile ad avancarica a due canne, lo carica con l’ultima polvere e gli ultimi pallettoni rimastigli e va in campagna a caccia, un po’ per distrarsi e ricordare le battute fatte in gioventù, ma soprattutto per cercare di procurare della carne per sé e per i figli.

Camminando, arriva in contrada Cozzo Marchetto. In lontananza vede un uomo vestito da guardia campestre con il fucile a tracolla, deve essere Giuseppe Olivieri, l’autore di tutte le sue sofferenze.

Mala ventura! Immediatamente spinto dall’odio profondo che nutre contro il rivale, si nasconde in mezzo ad un piccolo gruppo di alberi a poca distanza e aspetta, sperando che Giuseppe, che non si è accorto della sua presenza, si diriga verso di lui.

L’attesa non è molto lunga; Giuseppe, con passo lento, si avvia verso il suo destino. Luigi arma tutti e due i cani del fucile e punta l’arma. Cinquanta metri, troppo lontano per potergli fare male. Trenta metri, può certamente colpirlo, ma la polvere è ancora buona? Dieci metri: ora o mai più.

– Giuseppe Olivieri! – lo chiama. La guardia campestre si gira di scatto e lo vede solo per qualche attimo, poi i lampi, il fumo e il dolore acuto.

Le due detonazioni sono quasi contemporanee e centrano in pieno Giuseppe che si accascia al suolo gemendo di dolore, colpito in varie parti del corpo, tra cui il fegato, lo stomaco e tutto il pacchetto intestinale, causandogli una imponente emorragia.

Il vecchio si allontana indisturbato mentre il genero di Giuseppe, che sta zappando nelle vicinanze, udite le detonazione e i lamenti, accorre sul posto, non sapendo di trovare suo suocero in fin di vita, col fucile accanto.

Cristosanto! – urla, sollevandogli la testa – chi è stato? Avete visto chi è stato?

Figlio mio… Luigi Bombino mi ha ucciso… – sono le uniche parole che riesce a pronunciare, poi muore.

Quando Luigi Bombino si siede davanti al Brigadiere, non ha difficoltà ad assumersi la responsabilità del fatto.

– Stavo andando a caccia e l’ho visto. Ho deciso, mi sono nascosto tra gli alberi e ho aspettato che mi arrivasse a tiro, una decina di metri, poi gli ho sparato tutti e due i colpi e l’ho ammazzato…

Una indagine facile facile, c’è il reo confesso, c’è l’arma e c’è il movente: omicidio premeditato.

Però, quando ad interrogare il vecchio è il Giudice Istruttore, i fatti vengono raccontati in modo diverso:

Ho sparato senza avere l’intenzione di uccidere, in seguito alla grave offesa che Giuseppe mi aveva fatto, pronunziando le parole: “Che vai camminando, cornuto?”

Il cambio di versione non gli giova e il 5 marzo 1934 Luigi Bombino viene rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza con l’accusa di omicidio volontario aggravato dalla premeditazione.

Il vecchio conferma la dichiarazione resa al Giudice Istruttore e la difesa aggiunge che si è trattato di legittima difesa in quanto il fatto che il fucile di Giuseppe Olivieri sia stato ritrovato accanto al cadavere e non a tracolla, dimostrerebbe che la vittima stava per sparare al vecchio. Ma da tutto il dibattimento emerge chiaramente che è stata raggiunta la prova piena e precisa che in quel momento Luigi Bombino ebbe la precisa intenzione di uccidere e pertanto non può dubitarsi della sua responsabilità.

Piuttosto, emergono seri dubbi sulla premeditazione, tanto che il Pubblico Ministero propone di modificare il titolo del reato, derubricandolo ad omicidio volontario. La Corte accoglie la richiesta motivando che il fatto fu improvviso in quanto non risulta che Bombino ebbe mai a manifestare propositi omicidi contro il suo rivale, anzi si ha la prova contraria nel fatto che per oltre un anno aveva interessato amici e si era rivolto persino ai Carabinieri per indurre Teresa a tornare presso di lui, unica sua aspirazione. Indubbiamente non poteva nutrire per Olivieri sentimenti benevoli, ma ciò non basta a concretare l’aggravante, senza poi dire che se Bombino avesse premeditato l’omicidio, non avrebbe certamente scelto quel posto perché sapeva che a poca distanza si trova un castagneto comunale ove in quell’epoca si recava molta gente per raccogliere castagne.

C’è un’altra questione da risolvere: non avendo premeditato l’omicidio, può avere agito in preda all’ira per un fatto ingiusto commesso dalla vittima? La questione non è da poco perché il riconoscimento dello stato d’ira comporterebbe la concessione della relativa attenuante con uno sconto di pena pari ad un sesto di quella totale.

La Corte osserva che Luigi Bombino agì in stato d’ira e con animo profondamente travagliato nel vedersi da oltre un anno in uno stato di completo abbandono e ridotto in condizioni tali da destare la nausea del Brigadiere dei Carabinieri che penetrò nel tugurio in cui viveva e vide il lurido giaciglio su cui passava le notti insonni, macerandosi lo spirito e la carne. E tutto ciò ad opera di Olivieri che gli aveva tolto la donna che lo assisteva e gli rendeva in tal modo più sopportabili gli ultimi anni della sua vita.

Si obietta che Luigi e Teresa non erano sposati ma convivevano more uxorio, quindi nessun diritto aveva il vecchio di tenere legata a sé la donna, che era libera di fare quello che voleva. La Corte non è d’accordo e chiarisce: Poco monta che Bombino non fosse unito da legittime nozze con Teresa perché anche senza il vincolo legale, il fatto materiale della convivenza per oltre dieci anni non si può distruggere e restano, pur troppo, le dolorose conseguenze che sono derivate dall’abbandono, provocato e determinato da Olivieri. Non può, pertanto, non ritenersi ingiusta l’opera malefica di costui e giustificare, nei limiti consentiti dalla legge, la reazione di Bombino.

Dopo quest’ultima espressione, la Corte aggiunge: oltre che dall’ira verso Olivieri, l’imputato fu spinto ad agire anche da un sentimento di immensa pietà verso i figli che, per opera dello stesso Olivieri, si erano ridotti in uno stato di completo abbrutimento. È la giustificazione per la concessione di una seconda attenuante al vecchio: compete a costui anche l’attenuante di avere agito per motivi di particolare valore morale e sociale perché incide sul sentimento affettivo di un padre e sull’avvenire dei fanciulli.

A questo punto la Corte ammette di avere esaminato il delitto commesso da Luigi Bombino con la benignità e la umanità che il caso pietoso richiedeva, senza peraltro decampare dalle disposizioni di legge.

Non resta che determinare la pena da infliggere al responsabile dell’omicidio: devesi affermare la responsabilità dell’imputato per omicidio volontario, esclusa l’aggravante della premeditazione e con le attenuanti; avuto riguardo alle modalità del fatto ed ai suoi precedenti penali, partendo da anni 21, meno anni 4 e mesi 6 per ciascuna attenuante, stimasi condannarlo, in definitiva, ad anni 12 di reclusione, ad un mese di arresto pel porto abusivo di fucile, più le pene accessorie.[1]

Luigi Bombino passerà gli ultimi anni della sua vita in una cella, in condizioni certamente migliori di quelle in cui visse nell’ultimo anno di libertà.

Ma i suoi figli e i figli di Giuseppe Olivieri, le altre vittime di questa brutta faccenda?


[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.

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