È il 16 novembre 1931. A Sartano piove.
Camillo, sessantenne contadino, è in casa con sua figlia Palmina, ragazza debole e mezzo paralitica. Clementina, sua moglie, ha approfittato della pioggia per andare in chiesa.
Palmina è seduta al fuoco. Suo padre la sorprende da dietro, la solleva come un sacco e se la mette su una spalla. Palmina grida, piange, implora il padre di non farle del male perché ha capito cosa sta per accaderle. Camillo, che da tempo ha concepito il disegno di congiungersi carnalmente con la figlia, senza preoccuparsi di tutte quelle preghiere che avrebbero commosso chiunque, la adagia sulla sponda del letto e, calatosi il pantalone, si accinge a compiere l’atto brutale.
Ma proprio in questo momento, provvidenzialmente, sopraggiunge Clementina la quale, inorridita nel vedere la scena, prende una zappa che trova a portata di mano e per ben due volte, col manico, colpisce suo marito alle spalle, costringendolo in tal modo a desistere da ogni ulteriore violenza contro la comune figlia.
Camillo sbuffa di rabbia, bestemmia ed esce di casa. La situazione torna calma.
Due giorni dopo, il 18 novembre, Camillo e sua moglie vanno in un loro terreno sito in contrada Manca di Farina per raccogliere le olive. Clementina sta battendo i rami con una lunga verga per fare cadere le olive e non si accorge che suo marito le è alle spalle con una scure in mano.
Quando Camillo l’afferra per i capelli e la fa cadere a terra, si mette ad urlare richiamando l’attenzione degli altri raccoglitori che sono nei dintorni, ma di più non può fare perché la scure comincia ad abbattersi sulla sua testa e sul collo. Otto volte. Per sua fortuna i colpi non sono così violenti da frantumarle il cranio e le causano delle ferite guaribili in un mesetto.
Camillo, accecato dall’ira, è riuscito a colpirla solo di striscio senza riuscire ad ammazzarla o ha soltanto voluto darle una lezione? Vedremo.
I Carabinieri, avvisati dell’accaduto, arrestano Camillo e interrogano molti testimoni per capire il movente dell’aggressione. Ovviamente vengono a conoscenza del tentato stupro dei giorni precedenti e lo denunciano anche per questo reato. Ma scavando nel passato della famiglia si scoprono dei fatti orrendi che, tuttavia, non possono essere più perseguiti perché prescritti, che tuttavia contano molto per capire chi è Camillo e come si è arrivati agli ultimi fatti.
Seguendo i suoi istinti bestiali, molti anni fa violentò l’altra figlia Rachele la quale, inorridita per l’onta patita, abbandonò la casa paterna e venne a Cosenza, occupandosi come domestica. Qui, ragazza inesperta e senza nessuna guida e forse anche spinta dal bisogno, ebbe rapporti con altri, a seguito dei quali rimase incinta e morì poi in una casa di maternità nel momento del parto.
Potrebbe già bastare, ma non è così perché al peggio non c’è mai fine: andata via la figlia Rachele, Camillo mise gli occhi addosso all’altra figlia Palmina, deflorandola col dito quando aveva appena dieci anni. Tentò di violentarla quando raggiunse l’età di diciotto anni, senza però riuscirvi per la energica resistenza opposta dalla ragazza. Poi l’aggressione del 16 novembre 1931.
Questi orrendi fatti provocarono, ogni volta, la reazione di Clementina in difesa delle figlie, onde ira, rancore, odio e continue scenate tra i coniugi.
Ma Camillo non ci sta e si difende:
– Sono vittima innocente di una congiura ordita da mia moglie e dai miei figli, sol perché mi sono rifiutato di fare ad essi una donazione di tutta la mia proprietà…
– E quindi gli otto colpi di scure a vostra moglie chi glieli ha dati?
– Io, ma lasciatemi spiegare… sono stati colpi involontari mentre roteavo la scure per allontanare da me mia moglie che, come altre volte aveva fatto, voleva aggredirmi e percuotermi con un lungo bastone del quale si serviva per distaccare le olive dall’albero e farle cadere a terra… la sera prima mi ha minacciato e io ho dormito con un rasoio sotto il cuscino…
– Come vi è saltato in mente di cercare di congiungervi carnalmente con vostra figlia? – insiste il Pretore.
– Mai, mai ho tentato di violentare mia figlia… né il 16 novembre e né prima!
Fesserie. Primo: ci sono quattro testimoni oculari che lo hanno visto afferrare la moglie per i capelli, buttarla a terra e colpirla ripetutamente con la scure. Secondo: quando tentò di violentare Palmina per la prima volta, sua moglie ne informò immediatamente il dottor Antonio Conti, alla presenza di due testimoni, e gli chiese come doveva comportarsi, ma poi finì per perdonarlo e mettere tutto a tacere. Conti e i due testimoni confermano tutto.
Il 6 aprile 1932, il Giudice Istruttore lo rinvia al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza per rispondere di tentato omicidio premeditato in persona della moglie, tentata violenza carnale in persona della figlia e porto di scure senza giustificato motivo.
Il dibattimento si tiene il 26 aprile 1933.
Camillo conferma le sue dichiarazioni, così come sua moglie, sua figlia e tutti i testimoni. A questo punto la Corte deve solo stabilire se ci sia davvero stata la tentata violenza carnale o se Palmina e sua madre hanno simulato per incastrare Camillo. Per quanto riguarda l’accusa di tentato omicidio, i problemi che la Corte è chiamata a risolvere sono se sussista l’aggravante della premeditazione e se vi si sia davvero stata l’intenzione di uccidere da parte dell’imputato.
Riguardo la tentata violenza carnale, la Corte afferma, con sicura coscienza, che Palmina è stata vittima della sensuale brutalità paterna e quindi credibile quando lo accusa perché in siffatta materia, per la natura stessa del reato, anche se sia l’unica fonte di prova si ritiene quasi sempre sufficiente per giustificare una sentenza di condanna. Tale fede scaturisce sia dalla considerazione che una simile accusa importa necessariamente il disonore di chi la fa e non è concepibile, almeno nella normalità dei casi, che una ragazza sacrifichi il suo avvenire se il fatto non fosse vero; sia perché, per quanto depravata si possa immaginare, e Palmina non è tale, ripugna ad ogni coscienza concepire che una figlia sia capace di attribuire al proprio genitore un delitto così abbominevole. È vero che ripugna, altresì, ritenere un padre capace di tanta turpitudine, ma pur troppo questo secondo caso è frequente, mentre il primo si verifica assai di rado, anzi mai. Ma in questo caso non c’è solo l’accusa di una figlia al proprio genitore, c’è anche un testimone oculare, Clementina, che ha visto il proprio marito mentre stava per violentare la loro figlia ed anche questa testimone, per le stesse considerazioni, merita piena fede. In verità ci sarebbero i rapporti di odio e rancore tra marito e moglie a pesare sul ragionamento della Corte, ma tutto viene risolto dimostrando che Clementina non odiava suo marito, tant’è che lo aveva perdonato dopo il primo tentativo di violenza, cosa che non fa chi odia.
Riguardo il tentato omicidio della moglie, la Corte osserva che non si può parlare di premeditazione perché da nessun elemento è risultato che l’imputato abbia da tempo meditato e preparato in ogni suo dettaglio il delitto, provvedendo anche ai mezzi di esecuzione. Né può avere importanza alcuna l’episodio del rasoio che si dice essere stato messo sotto il guanciale la sera precedente il fatto, perché di ciò non si trova traccia né nella dichiarazione resa dalla moglie al Giudice subito dopo il fatto, né nelle posteriori e tanto meno in udienza. si tratta pertanto di un fatto improvviso, determinato o da un subitaneo divampare del dispetto e dell’odio che covava contro la moglie che gli ostacolava l’appagamento dei suoi istinti bestiali o da una delle solite scenate che tra i coniugi continuamente avvenivano. Nessuna premeditazione, quindi.
Ma otto colpi di scure alla testa devono indicare una precisa volontà omicida. Secondo la Corte no. E spiega: data la idoneità dell’arma adoperata ad uccidere, la reiterazione dei colpi, la regione vitalissima colpita si doveva avere necessariamente la morte o, perlomeno, si sarebbe dovuto verificare un fatto indipendente dalla volontà dell’agente che avesse impedito l’evento letale. Siccome tale fatto non vi è stato, e pur non di meno la morte non si è verificata, ne consegue ineluttabilmente che non fu voluto. Difatti, se ben otto colpi di scure tutti alla testa si sono arrestati all’osso senza neanche scalfirlo, vuol dire che o sono di striscio o furono dati con eccessiva debolezza, con la quale non agisce chi vuol sopprimere il suo simile.
E se non vi fu volontà di uccidere, allora non si può nemmeno parlare di tentato omicidio. L’imputazione viene così derubricata a lesioni volontarie commesse con arma, guarite in giorni venti. La contestazione di questa nuova tipologia di reato ha conseguenze serie sul processo perché il reato è estinto per effetto dell’ultimo decreto di amnistia e la Corte deve dichiarare il non luogo a procedere. Camillo se la cava anche per il reato di porto d’arma abusivo che ricade nella stessa amnistia.
Sulla tentata violenza carnale, come abbiamo visto, non ci sono dubbi sulla colpevolezza dell’imputato. Si tratta di stabilire la pena adeguata al caso.
Partendo da anni nove più un terzo per l’aggravante delle relazioni domestiche, si hanno anni dodici, meno un terzo perché trattasi di reato tentato, stimasi in definitiva condannarlo alla pena di anni otto di reclusione, oltre alle pene accessorie e alla perdita della patria potestà.
Camillo non sconterà tutti gli anni della sua pena perché, per effetto del famoso ultimo decreto di amnistia, gli vengono condonati tre anni.[1]
Restano cinque anni. Sono sufficienti?
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.
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