LE BOMBE DI DON CALÒ

La mattina del 12 luglio 1954 un’autoambulanza parte a sirene spiegate da una clinica palermitana, diretta a Villalba in provincia di Caltanissetta. Sta riportando a casa un anziano di 77 anni, gravemente ammalato, che ha espresso il desiderio di morire nel suo letto. Ad un certo punto del percorso, però, l’autista spegne la sirena: l’anziano è morto.

L’uomo era Calogero Vizzini, industriale dello zolfo, ricchissimo possidente agrario e, soprattutto, capo della mafia siciliana, quella mafia ancora legata al latifondo e al potere patriarcale degli agrari.

Un paio di giorni dopo ai suoi funerali, colorati da centinaia di corone di fiori provenienti da tutta Italia,  partecipano, fianco a fianco, politici e boss mafiosi. Ai due lati della bara camminano i boss Paolino Bontade e Giuseppe Genco Russo, l’uomo che gli succede al comando.

Due anni e mezzo dopo, il 9 gennaio 1957, la Suprema Corte di Cassazione annullerà per estinzione del reato a causa della morte dell’imputato la sentenza della Corte d’Appello di Catanzaro con la quale, il 10 aprile 1954, don Calò aveva visto confermata la condanna a 6 anni di reclusione per i fatti accaduti a Villalba il 16 settembre 1944.

Ma cosa accadde il 16 settembre 1944?

Un po’ di pazienza, prima bisogna fare un ulteriore passo indietro per capire chi era e cosa rappresentava Calogero Vizzini, da tutti conosciuto come don Calò. Nasce nel 1877 da genitori contadini e mentre i suoi due fratelli intraprendono la carriera ecclesiastica, lui rimane un semianalfabeta e comincia a dedicarsi al contrabbando e al furto di bestiame nella cosca di Francesco Paolo Varsallona. Arrestato e condannato a 20 anni di reclusione, viene assolto in appello grazie a testimonianze di favore. Nel giro di pochi anni riesce prima ad entrare nella proprietà della zolfara di Gessolungo e poi a prendere in gabella parte del feudo Belici. Nel 1931 il Prefetto Mori lo invia al confino a Chianciano dove rimane fino al 1937, continuando indisturbato a gestire i suoi affari nel tranquillo relax delle terme. Quando nel 1943 sbarcano in Sicilia gli americani, l’Autorità Militare Alleata lo impone come Sindaco di Villalba. In questo stesso periodo don Calò aderisce al Movimento Indipendentista Siciliano, che abbandona molto presto per aderire alla Democrazia Cristiana. Detto questo, è chiaro che a Villalba pronunciare il nome di don Calò equivale a pronunciare la parola “potere”. E siccome per esercitare il potere è meglio avere le mani libere, don Calò mette al posto di Sindaco suo nipote Beniamino Farina dei Separatisti.

Questo per quanto riguarda la Pubblica Amministrazione. Ma il potere deve essere esercitato anche nell’anima e di questo si occupa uno dei due fratelli preti, nominato Arciprete del paese (qualche maligno dice che è l’Arciprete il vero capo e don Calò solo una specie di portavoce). Il potere economico lo esercita in prima persona essendo un grossissimo gabelloto (la figura del gabelloto in Sicilia trascende lo schema del fittuario di campi e ha caratteristiche proprie e inconfondibili: egli è colui che ha mezzi finanziari e autorità bastevoli per interporsi tra i proprietari di estesissimi latifondi e i contadini che li debbono coltivare, sfruttando, praticamente, gli uni e gli altri ed esercitando per mezzo dei suoi “campieri” e con l’assegnazione delle terre, un potere cui in vario modo è interessata la vita di quella tenebrosa associazione la quale adaggia tuttora la vita della Sicilia) e presidente di una cooperativa agricola con alle dipendenze ben settecento contadini.

Come abbiamo già visto, don Calò aveva ottenuto in gabella una buona parte del latifondo Belice e ora, siamo tra il 1943 e i primi del 1944, per mezzo di una complessa operazione finanziaria non solo riesce ad assicurarsene direttamente un’altra buona parte, ma anche il rimanente facendolo acquistare, a credito, dai contadini della cooperativa. E, attraverso la cooperativa, diventa anche il gabelloto del feudo Miccichè della principessa di Trabia. È su questo feudo che cominciano a sorgere i problemi perché è ambito anche da una cooperativa di socialisti e comunisti, presieduta dall’ingegner Luigi Michele Pantaleone.

 E così a Villalba abbiamo tre partiti politici: i separatisti capeggiati dal Sindaco Beniamino Farina, i democristiani con a capo don Calò e il Blocco del Popolo di socialisti e comunisti uniti il cui segretario è Michele Pantaleone; i contrasti tra i primi due e il terzo parrebbero, dunque, necessariamente stabiliti dal conflitto delle diverse ideologie.  Ma chi ha qualche pratica della vita dei piccoli paesi del mezzogiorno d’Italia, e specialmente della Sicilia, sa che sotto la vana apparenza dei partiti e delle ideologie, sostanzialmente gli schieramenti politici e i contrasti sono determinati soltanto da interessi, inimicizie e conflitti meramente personali.

Per esempio, querele corsero tra il Farina e il Pantaleone per pubblicazioni diffamatorie; l’avvocato Michele Farina, cugino del Sindaco, fu sollecito a patrocinare la causa di un tale che reclamava in confronto del Pantaleone lo stato di figlio naturale del di lui genitore.

In questo clima la sezione del Blocco del Popolo di Villalba organizza un comizio con l’intervento del dottor Girolamo Li Causi, Ispettore del partito comunista. Il Li Causi era certamente spinto dal desiderio di diffondere le sue idee anche nella roccaforte di don Calò, ma all’organizzazione del comizio certo non fu estraneo l’astio di Pantaleone. E la cosa non poteva, certo, tornar gradita a don Calogero e ai suoi parenti, non per ragioni politiche, ma per il contrasto con Michele Pantaleone e perché era naturale una preoccupazione: di che avrebbe parlato il dottor Li Causi ai contadini di Villalba? Delle teorie di Carlo Marx o dei gabelloti sfruttatori?

La mattina del 16 settembre 1944 dalla sezione del Blocco di Villalba alcuni attivisti partono con secchi di colla e manifesti per tappezzare il paese con l’emblema della falce e martello.

Il cugino del Sindaco, Michele Farina, adotta subito la contromossa: Rosario Calderone e Rosolino Landolina vengono mandati con un secchio di calce bianca a cancellare i manifesti dei social-comunisti, ma vengono sorpresi dal Maresciallo Bernardini, comandante la stazione di Villalba, che interrompe l’operazione per chiedere al Sindaco se la cancellazione è fatta per disposizione di legge o per ordine dell’autorità

Questi quattro imbecilli provocano la reazione e noi reagiamo! – ammette con arroganza il Sindaco

Presente al dialogo tra il Maresciallo e Farina è il dottor Vincenzo Immordino, esponente comunista (successivamente diventerà Commissario di Pubblica Sicurezza) che protesta duramente, scatenando la violenta reazione del Sindaco che lo schiaffeggia, ritenendo così di tutelare il proprio prestigio. Non solo. In questa operazione è aiutato da due suoi accoliti: Angelo Farina e Rosolino Guarino. Dopo qualche attimo di indecisione, il Maresciallo Bernardini interviene e seda la lite.

Don Calò è sempre più preoccupato per il comizio e manda a chiamare un suo picciotto, Salvatore Giglio, e gli dà l’ordine di organizzare il boicottaggio del comizio. Giglio riferisce tutto ad Amerigo Angelo Pantaleone

Carusi, state attenti che hanno brutta intenzione e cioè di fischiare ed ostacolare il comizio con qualunque mezzo!

E Angelo Pantaleone va a parlare con don Calò

Il comizio si può tenere, purché non si faccia accenno a questioni locali e personali… capiscisti?

A Villalba, come in molti altri posti, non c’è nemmeno libertà di parola, don Calò non la concede.

In paese comincia a correre la voce che alle 18,00, ora prevista per l’inizio del comizio, l’Arciprete Vizzini l’avrebbe disturbato facendo suonare le campane della vicina chiesa, così i dirigenti del Blocco decidono di anticiparlo alle 17,00 e gli oratori cominciano a parlare nella piazza principale del paese stando in piedi su di un tavolo posto nel marciapiede antistante alla sede  del Banco di Sicilia, in prossimità di Vico Nazario Sauro. Intorno al tavolo un numeroso gruppo di socialisti e comunisti, parte di Villalba, parte (circa 40) venuti da Caltanissetta con un autocarro, che resta parcheggiato nella piazza. C’è molta altra gente che però si tiene lontana da quel gruppo. Ci sono anche don Calò, fermo vicino al camion a circa 20 metri dagli oratori, e il Sindaco Farina con molti suoi seguaci, fermo davanti alla sede della Democrazia Cristiana. La cosa strana è che non è presente alcun Carabiniere o altro agente dell’ordine.

Per primo prende la parola Michele Pantaleone che, indisturbato, si limita a confutare gli argomenti esposti alcuni giorni prima dall’onorevole Finocchiaro Aprile in un comizio separatistico. Poi parla il professor Cardamone che si intrattiene anch’egli su un argomento politico e neanche lui viene disturbato. Quindi è il turno di Girolamo Li Causi il quale, ben presto, tocca il punto nevralgico, accennando all’opera dei gabelloti e al feudo Trabia.

Non è vero! Non è vero! È falso! È falso! – tuona don Calò, visibilmente contrariato

– State calmo, don Calogero, appena finisco di parlare facciamo un contraddittorio pubblico io e voi – replica Li Causi, ma don Calò è sempre più nervoso e allora Calogero Geraci, esponente comunista e amico del boss, pensa di avvicinarsi, sperando di non essere male accolto, per calmarlo e convincerlo a non disturbare l’oratore.

Geraci è un uomo robusto ma molto miope e per camminare si aiuta con un bastone, ma Luigi Scarlato, del gruppo di don Calò, pensa che possa avere intenzioni ostili, così non appena gli è a tiro lo colpisce proditoriamente con una bastonata. Subito un altro del gruppo, Rosario Calderone, tira fuori la rivoltella e spara un colpo in aria. È il segno che i picciotti stanno aspettando per tirare fuori le armi e cominciare una nutrita sparatoria. Vengono, addirittura, lanciate quattro bombe a mano, delle quali una, per fortuna, non esplode. Tutto dura un minuto, forse un minuto e mezzo e quando la sparatoria cessa, a terra restano, leggermente feriti dalle schegge delle bombe Vincenzo Immordino, Giuseppe Giglio, Pietro Costa, Salvatore Alfano, Vincenzo Guttuso, Cosimo Cravotta, Calogero Nalbone, Vincenzo Selvaggio, Giovanni Carelli, Giuseppe Garofalo. I colpi di arma da fuoco invece centrano, ferendoli più seriamente, Girolamo Li Causi, Calogero Sciortino e Salvatore Pillitteri.

Secondo gli accertamenti subito compiuti dalla Polizia Giudiziaria, resta accertato che la bomba inesplosa era caduta all’angolo di Vico Nazario Sauro, mentre le altre erano esplose una ad un metro dal tavolo degli oratori, un’altra tra il tavolo e il Vico Nazario Sauro e la terza in vicinanza del marciapiede, in prossimità del radiatore dell’autocarro, che ne restava danneggiato. Impronte di proiettili furono trovati sulle porte e sui muri dei locali del Banco di Sicilia, sulla facciata della chiesa, sulla casa di Giuseppe Giglio in Vico Nazario Sauro.

Ma quanti colpi sono stati sparati? Su questo punto c’è discordanza tra l’accertamento eseguito dal Sottotenente di Artiglieria Silvio Tosato tre giorni dopo il fatto e la perizia formale eseguita il 25 novembre successivo (più di due mesi dopo i fatti), poiché in questa si parla di un minor numero di impronte, delle quali alcune trovate anche sulla facciata della sede della Democrazia Cristiana. Nella prima, invece, si parla di 29 impronte, nessuna delle quali sulla facciata della Democrazia Cristiana. Gli inquirenti si affidano al primo accertamento, eseguito da persona tecnica, quando ancora non si era potuta compiere nessuna opera di alterazione dello stato delle cose, opera che certamente non è mancata, come può desumersi non solo da argomenti logici, avendo presenti le possibilità della famiglia Vizzini, ma anche da qualche prova specifica.

Le indagini portano alla denuncia di 20 persone, compresi don Calò, il Sindaco Beniamino Farina e l’avvocato Michele Farina. Prima della chiusura dell’istruttoria, viene incriminato anche l’esponente socialista Luigi Michele Pantaleone perché anche lui avrebbe sparato.

Il 30 giugno 1945 il Giudice Istruttore presso il Tribunale di Caltanissetta rinvia tutti e 21 imputati al giudizio di quella Corte d’Assise, lasciandoli, nonostante le accuse di tentata strage, tentato omicidio e lesioni personali, a piede libero.

Ma a Caltanissetta non ci sono le condizioni per celebrare serenamente il processo e la Suprema Corte di Cassazione, il 15 febbraio 1947, sposta il dibattimento presso la Corte d’Assise di Cosenza per legittima suspicione. Il dibattimento comincerà negli ultimi giorni del mese di novembre 1949.

La Corte cosentina pone un quesito da risolvere nel dibattimento: se è certo che non può non vedersi una preordinata aggressione del Vizzini, del Farina e dei loro seguaci contro i socialisti e i comunisti convenuti nella piazza di Villalba per il comizio, è altrettanto certo che gli aggrediti fossero tutti disarmati e che, come giura Michele Pantaleone (adesso Deputato dell’Assemblea Regionale Siciliana), il dottor Li Causi (nel frattempo eletto Senatore della Repubblica Italiana) si fosse di ciò accertato? Secondo la Corte questa è una menzogna di Pantaleone, sia perché nel dibattimento lo smentisce lo stesso Senatore Li Causi, sia perché lo stesso Pantaleone risulta certamente armato. E molto probabilmente anche altri villalbesi erano armati, anche in conseguenza dei precedenti della mattina. Non solo. Molto probabilmente qualcuno degli aggrediti usò le armi che aveva a disposizione, così è possibile che la bomba esplosa davanti al radiatore dell’autocarro non sia stata lanciata dal Farina o da qualcuno dei suoi accoliti – se essa fu l’ultima ad esplodere (il che non si è potuto accertare) – perché nei primi momenti della sparatoria presso quel radiatore vi era proprio il Calogero Vizzini. Così non può escludersi che la bomba trovata inesplosa sia stata là abbandonata da uno di quelli che stavano intorno al tavolo e non lanciata in quel punto. Sembra che si stia mettendo in atto una perversa strategia per mettere sullo stesso piano aggressori ed aggrediti. Ed è lecito sospettarlo, visto che la Corte non ha il coraggio di chiamare le cose con il loro nome: non scrive mai la parola mafia, ma usa giri di parole per disconoscerne perfino l’esistenza: una tenebrosa associazione la quale adaggia tuttora la vita della Sicilia.

Se c’è una strategia per mettere tutti sullo stesso piano, allora è logica la delegittimazione del maggiore esponente del Blocco del Popolo di Villalba, Michele Pantaleone, definito amico di don Calò fino a non molto tempo prima dei fatti in questione e venuto a contrasto perché il boss (allora Sindaco) si sarebbe rifiutato di concedergli un autocarro del Comune per effettuare un trasporto di merce nel proprio interesse. Naturalmente il Pantaleone divenne il leader di un partito contrario e da qui le querele di cui abbiamo già parlato. Pantaleone in aula non nega di essere stato in buoni rapporti con don Calò, ma di essergli diventato ostile quando si accorse che amministrava la Cosa Pubblica nel proprio interesse e dopo aver trovato tra le carte del suo defunto padre, che era avvocato, da cui risultava che don Calò era stato qualificato dai Comandi dei Carabinieri e del Procuratore del re di Caltanissetta come persona pericolosa e mafiosa. Pantalone in aula ha il coraggio di pronunciare la parola impronunciabile, ma la Corte quasi lo irride e lo taccia di mendacio perché è evidente che per conoscere don Calogero, il Pantaleone, villalbese al par di lui, non aveva proprio bisogno di consultare le carte paterne e perché, se l’esperienza comune può insegnare qualche cosa, non v’è da dubitare che in Villalba, come in tutti i piccoli centri del mezzogiorno, è assai difficile che alcuno abbia mai amministrato la Cosa Pubblica se non nel proprio interesse. Tutti colpevoli, nessun colpevole. Ma la storia personale e politica di Michele Pantaleone è di tutt’altro spessore che non quello di una specie di mafioso tra i mafiosi: 14 libri (Mafia e politica del 1962, Mafia e droga del 1966 e Antimafia: occasione mancata del 1969 sono i volumi più famosi, pubblicati per Einaudi) 11 opuscoli, più di 5000 articoli, 965 conferenze e numerose prefazioni a libri di altri autori è il patrimonio culturale che ha lasciato. Per quanto riguarda l’impegno politico negli anni più duri delle lotte contadine, bisogna ricordare che subì 39 querele per diffamazione a mezzo stampa, 3 denunce per occupazione di terre, 1 denuncia per occupazione di miniera. Da ricordare che in una di queste cause, querelato con l’editore Giulio Einaudi, riuscì a far dichiarare, per la prima volta nella storia, un politico, ex Ministro della Repubblica, “mafioso”. Processato nei tribunali di Torino, Milano, Roma, Palermo, Caltanissetta, non fu  mai condannato (dati ricavati da https://it.wikipedia.org/wiki/Michele_Pantaleone il 2 luglio 2019).

Ma torniamo al processo.

Enumerati i dubbi sulle bombe a mano e sui colpi eventualmente esplosi dai socialisti e dai comunisti e portato l’affondo contro Michele Pantaleone, la Corte candidamente ammette che socialisti e comunisti subirono un’aggressione preordinata, perché senza preordinazione mal si spiega la disponibilità che gli aggressori ebbero, non solo di numerose armi da fuoco, ma anche di bombe a mano. A rafforzare questo concetto, la Corte ricorda che la sparatoria cominciò non appena don Calò protestò ad alta voce e Rosario Calderone esplose un colpo in aria a guisa di richiamo, segno che il comizio non doveva proseguire.

Una lunga serie di testimoni si avvicenda per raccontare di aver visto gli imputati sparare, da quale posizione e contro chi. Così il Sindaco Beniamino Farina viene indicato come colui il quale partecipa materialmente all’azione lanciando verso il tavolo degli oratori una o due bombe. Ma subito dopo la maggior parte dei testimoni ritratta. Poco importa sostiene la Corte, che aggiunge: in verità sarebbe stato meraviglioso che, sotto la pressione della famiglia del Farina e specialmente di don Calogero, tutto ciò non fosse avvenuto.

La Corte adesso pone altri due argomenti da dibattere: il fatto ebbe un movente politico? Costituisce il reato di strage o altro delitto?

Alla prima domanda la Corte arriva a concludere che no, non fu una questione politica che provocò i fatti di Villalba e per spiegarne i motivi certifica l’autorità criminale che don Calò esercita: La figura del Vizzini, i rapporti che gli erano propri, i suoi avvertimenti, il momento in cui ebbe ad intervenire e l’occasione del suo intervento dimostrano che se gli oratori del comizio si fossero continuati ad occuparsi di ogni qualsiasi questione politica che non toccasse il prestigio e l’interesse personale del “gabelloto” del feudo Miccichè, nulla quel giorno sarebbe avvenuto. Come se parlare delle condizioni dei contadini e degli imbrogli di don Calò non fosse politica! Ma bisogna dire che un aiuto sostanziale a questa impostazione lo danno anche le parti civili che sostengono non esserci stati motivi politici.

Per quanto riguarda la seconda domanda, anche in questo caso la Corte risponde negativamente: i fatti di Villalba non possono configurarsi nella fattispecie della strage per la mancanza del dolo specifico, consistente nel fine di uccidere. E spiega, arrendendosi a don Calò: Si suole insegnare che tale fine si deduce legittimamente dalla natura degli atti compiuti e dei mezzi adoperati; e ciò è vero nella maggior parte dei casi, così quando gli atti manifestano per sé stessi, necessariamente ed univocamente,  una volontà omicida, come avviene negli attentati terroristici o nei delitti che non possono avere altro contenuto che l’eliminazione di una o più persone, quando i mezzi abbiano le potenzialità di nocumento che dall’uso di essi altro non sia da aspettarsi che eventi letali, come avviene se bombe ad alto tasso di esplosivo si facciano esplodere tra molte persone o queste sian fatte bersaglio di armi automatiche a ripetizione (mitragliatrici, fucili mitragliatori ecc.). ma fuori di questi casi di palese evidenza, il fine di uccidere deve essere ricercato con riguardo a tutti i criteri che generalmente servono di guida nello stabilire il dolo del delitto di omicidio. Ora, nella specie, appena si consideri la personalità del Vizzini e i mezzi di cui egli poteva disporre in Villalba, è subito certo, per necessità logica, che se egli, se il Farina, avessero voluto effettivamente la fine del Li Causi o di altro del suo partito, assai difficilmente quella fine non si sarebbe verificata. Occorre appena dire che dall’impiego delle quattro bombe non è lecito desumere in alcun modo una volontà omicida perché si trattava di bombe O.T.O. le quali, come tutti sanno, per la scarsa carica e per la leggerezza dell’involucro non hanno alcuna efficienza micidiale, salvo il caso rarissimo che colpiscano in pieno il bersaglio. Restano i colpi di arma corta da fuoco che dovettero essere numerosissimi se di essi tante impronte potettero essere rilevate. E qui vien subito da domandarsi: come può essere avvenuto che con tanti colpi sparati a breve distanza con armi di precisione e da gente tra cui, certamente, non poteva mancare chi fosse abituato a farne uso, contro un bersaglio rappresentato da molti uomini raccolti in gruppo intorno a un tavolo, siano rimaste ferite da proiettili soltanto tre persone, che per giunta non si trovavano neppure vicine al momento in cui furono colpite? La verità è che v’era già in tutti la preoccupazione che qualche incidente sarebbe sorto: appena il comizio fu interrotto e nei brevi istanti tra l’interruzione e il primo colpo di pistola sparato in aria da Rosario Calderone quasi tutti, comunisti e non comunisti, meno quelli dei gruppi intorno a Vizzini e al Farina, cercarono salvezza nella fuga, sicchè quando furono esplosi i molti colpi di arma corta da fuoco essi non furono indirizzati né indiscriminatamente contro una moltitudine di persone, né particolarmente contro determinati individui, bensì a scena vuota per mantenere e accrescere il panico e impedire definitivamente il comizio. Appare estremamente improbabile che il Vizzini , il Farina e i loro accoliti abbiano pensato di “far fuori” (come ormai si usa dire e spesso anche fare) il dottor Li Causi o il Pantaleone o altri. Non avevano bisogno di tanto! A loro bastava affermare ancora una volta che contro la volontà di don Calò non si poteva andare in Villalba, che il prestigio e gli interessi di don Calò e dei suoi amici non potevano essere vulnerati e per questo era più che sufficiente interrompere violentemente il comizio e impedirne la prosecuzione. Quindi, né i mezzi adoperati, né gli atti compiuti dai colpevoli portano dunque alla convinzione che essi abbiano agito col proposito di uccidere.

Escluso il fine di uccidere, nel fatto non può ravvisarsi che il delitto di violenza privata continuata, aggravata per l’uso delle armi e per il numero delle persone che insieme parteciparono all’esecuzione. Per vero è evidente che i colpevoli, con violenza e minaccia, costrinsero il dottor Li Causi e gli altri a interrompere il comizio e sciogliere la riunione e allontanarsi. Concorre il reato di lesioni volontarie continuate, aggravate per l’uso di armi e per il numero delle persone in rubrica.

In verità, da quanto scrive la Corte, sembra di capire che se non ci scappò il morto non fu tanto per la mancanza di volontà omicida degli aggressori, ma dalla prudenza dei presenti che, capita l’antifona, scapparono prima che iniziasse la sparatoria.

A questo punto la Corte, modificando la rubrica, ritiene Vizzini Calogero, Farina Beniamino, Guarino Rosolino, Calderone Rosario, Farina Michele, Scarlato Luigi, Scarlato Giuseppe, Farina Angelo, Calderone Angelo, Zoda Giuseppe colpevoli di concorso nel delitto di violenza privata continuata e aggravata, nonché colpevoli del delitto di lesioni continuate e aggravate. Le pene più pesanti vengono comminate a don Calò e a suo nipote Beniamino Farina, condannati a cinque anni di reclusione, mentre gli altri vengono condannati a quattro anni di reclusione.

La Corte assolve Colletti Giuseppe, Fraterrigi Luigi, Lardonino Rosolino, Lardolino Biagio, Scarlata Antonino e Colletti Raffaele per insufficienza di prove. Assolve Spera Gaetano per non aver commesso il fatto. Assolve Pantaleone Luigi Michele dal reato di violenza privata, in modificazione del reato di strage, per non aver commesso il fatto e dalla imputazione di minaccia con arma per avere agito in stato di legittima difesa.

Tutti i condannati restano a piede libero.

Il 4 febbraio 1952 la Suprema Corte di Cassazione accoglie il ricorso del Pubblico Ministero limitatamente al motivo concernente la qualificazione del fatto e rinvia gli atti alla Corte di Assise di Appello di Catanzaro.

Il 10 aprile 1954 la Corte di Assise di Catanzaro riconosce il reato di strage in seguito a suggestione della folla in tumulto e riformula le condanne, infliggendo a tutti gli imputati sei anni di reclusione, ma riconosce a ciascuno degli imputati il beneficio di due condoni di tre anni ciascuno che, in pratica, annullano le condanne.

Il 9 gennaio 1957 la Suprema Corte di Cassazione annulla senza rinvio la sentenza 10 aprile 1954 della Corte di Assise e di Appello di Catanzaro nei confronti di Vizzini Calogero per estinzione del reato a causa della morte dell’imputato predetto. Nella stessa udienza rigetta il ricorso degli altri imputati.[1]


[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza. Per approfondire: IL MAMMASANTISSIMA di Arcangelo Badolati e Stefano Dodaro, Pellegrini 2005.

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