DOLLARI, SUDORE E SANGUE

C’è un fondo agricolo, in quel di Lago, che i fratelli Antonio e Giuseppe Porco vorrebbero acquistare. Il prezzo è fissato in 300.000 lire e ai fratelli Porco mancano una cinquantina di migliaia di lire per coronare il loro sogno. Che fare? L’unica strada percorribile è chiedere la somma mancante in prestito al loro zio affine Giuseppe Naccarato. È il 1929.

Bisogna, prima di raccontare la storia, sapere che Antonio Porco vive a Lago, suo fratello Giuseppe è emigrato a New York da qualche anno e lo zio Giuseppe Naccarato ha prima, dal 1899, sputato sangue e sudore nelle miniere di rame e di oro in Arizona ed ora ha messo su un bisinisso che lo ha reso agiato.

I fratelli Porco si mettono d’accordo per chiedere due distinti prestiti a zio Giuseppe: Antonio chiede 1.137 dollari, pari a lire 21 mila italiane secondo il cambio in allora corrente, mentre Giuseppe chiede 1.700 dollari, pari a circa 31.400 lire. La garanzia offerta dai nipoti – e accettata dallo zio – è l’iscrizione di una ipoteca sul fondo da acquistare.

Il guaio è che sull’atto di acquisto del terreno, concluso da Antonio sia per conto proprio che in qualità di procuratore del fratello, non c’è traccia dell’ipoteca.

Ma se Antonio sembra avere dimenticato il proprio debito e nemmeno risponde alle sempre più pressanti richieste dello zio, Giuseppe restituisce, nel 1930, un acconto di 1.200 dollari, per i quali zio Giuseppe gli rilascia regolare quietanza.

Poi, nel 1932, Antonio raggiunge il fratello a New York, anno in cui Giuseppe Naccarato, poiché il clima dell’Arizona non giova a sua moglie, decide di farla partire per l’Italia insieme all’unica loro figlia, coll’intesa ch’egli le avrebbe colà raggiunte non appena avesse liquidato i suoi affari in America. Attraversato il continente da un capo all’altro, le due donne arrivano a New York, dove incontrano i fratelli Porco i quali, ben presto, persuadono la zia e la giovane cugina a celebrare le nozze tra quest’ultima e il primo di essi, Giuseppe.

Molti telegrammi e telefonate vengono scambiati tra New York e l’Arizona e non pare che di tale matrimonio sia soddisfatto il Naccarato perché egli vagheggia il disegno di condurre la sua unica figlia in Italia. Comunque, avvenuto il matrimonio, mentre la figlia resta a New York, i genitori ritornano, verso la fine del 1933, nella terra natia di Lago, prendendo alloggio in una casa di campagna di pertinenza della madre del genero.

Verso la fine del mese di marzo del 1934 Antonio Porco torna a Lago e zio Giuseppe, che già da più tempo andava lagnandosi coi parenti dell’inadempienza ostinata di costui nel pagamento dei 1,137 dollari a lui prestati fin dal 1929, pensa sia opportuno incaricare una cognata di Antonio, Giuseppina Politano, di persuaderlo a soddisfare il suo debito. Giuseppina accetta l’incarico, ma Antonio non ne vuole sapere:

– Io non gli devo niente. Semmai il debito è di mio fratello Giuseppe, che ormai è suo genero…

– E cosa c’entra adesso Giuseppe col debito contratto da te?

– C’entra, c’entra perché il fondo agricolo l’ho acquistato per lui: mi ha mandato pure la procura da New York!

Giuseppina, non sapendo cosa replicare, se ne va e nel pomeriggio del 2 aprile riferisce tutto a Giuseppe Naccarato, mentre questi è ancora a tavola:

– Guarda, guarda qui! – le dice l’anziano, visibilmente contrariato, mentre prende alcune lettere da una cassa e gliele mostra.

La donna non sa leggere e va a chiamare sua figlia che conferma quanto sostenuto da Naccarato, cioè che i 1.137 dollari sono stati inviati ad Antonio dietro sua espressa richiesta e non a nome del fratello.

Proprio in questo momento bussa alla porta proprio Antonio Porco, accompagnato da un suo zio, Vincenzo Naccarato e dal fratello di zio Giuseppe, Domenico.

Zio Giuseppe non fa scenate e accoglie gli ospiti con oneste e liete maniere. Va a prendere due bottiglie di vino, di quello speciale, per offrirlo ai visitatori, ma dopo che tutti hanno bevuto fa allontanare i figli di Giuseppina e affronta il nipote Antonio:

– Io i dollari che ho li ho sudati sangue nelle miniere, come un pioniere, i dollari li ho mandati a te perché tu me li hai chiesti. Tu hai proposto l’iscrizione dell’ipoteca e tu sei il debitore. È ora che tu mi restituisca il 1.137 dollari! – gli dice, sventolandogli sotto il naso la lettera con la richiesta del prestito. Antonio prende la lettera e comincia a leggere ma poiché, o per malizia o per scarsa capacità nel leggere, altera il contenuto della lettera, a un certo punto zio Giuseppe gli toglie di mano la lettera e comincia a contestargli tutte le circostanze relative al debito verso di lui contratto.

– Io non ti devo niente, veditela con Giuseppe che adesso è tuo genero!

– Giuseppe i suoi 1.700 dollari li ha già restituiti, restano i tuoi 1.137 dollari!

– Allora non vuoi capire. Io non ti devo niente, il debito è di Giuseppe, per conto del quale io ti ho chiesto il prestito! – si ferma per qualche secondo, poi aggiunge – zio Giusè, tu hai soldi ed io ce n’ho più di te… tu scegli un avvocato ed io me ne troverò un altro e… il giudice deciderà!

A sentire queste parole Giuseppe Naccarato diventa paonazzo per lo sdegno di vedersi negato – e in che modo e con quali toni – il suo sacrosanto diritto alla restituzione di una cospicua somma ch’era il frutto del suo lungo lavoro di solitario pioniere nelle miniere dell’Arizona. Si alza in piedi e tuona:

– Togliti dalla mia vista, Carolla! – l’epiteto di “Carolla” è particolarmente offensivo nella zona di Lago perché si riferisce ad un celebre brigante vissuto nei tempi andati in quelle contrade. Anche Antonio Porco si alza in piedi e tuona a sua volta:

– Semmai sei tu che te ne devi andare, visto che questa casa  non ti appartiene perché è di mia madre!

Giuseppe Naccarato, di fronte a questa ennesima mancanza di rispetto da parte del giovane nipote, perde i lumi della ragione e corre verso un lettino che si trova in quella stanza. Fruga sotto il cuscino e la sua mano ne esce armata di una grossa rivoltella che spiana contro il nipote, pronto a fare fuoco. Ma Vincenzo Naccarato è lesto ad afferrare la mano armata del forsennato per impedirgli di sparare. Antonio Porco, da parte sua, è terrorizzato e si nasconde dietro il corpo dello zio Vincenzo, facendosene scudo. Tutto ciò, però, serve solo in parte a impedire che zio Giuseppe faccia fuoco. Infatti, nonostante la sua mano sia nella morsa di quella del paciere, riesce a sporgerla prima al di sopra della spalla di costui e poi al di sotto del braccio, facendo fuoco per ben tre volte e dopo ogni detonazione tutti i presenti sentono distintamente le urla di dolore di Antonio Porco, colpito alla mano destra, al fianco sinistro e all’ascella sinistra.

Zio Giuseppe, esausto per la furibonda lotta ingaggiata con Vincenzo Naccarato, sembra calmarsi e il nipote Antonio ne approfitta per lanciarsi fuori dalla casa. Zio Giuseppe ha ancora tre colpi a disposizione e potrebbe con facilità ammazzare Antonio, ormai allo scoperto, ma invece desiste da ogni ulteriore violenza, posa la rivoltella sul tavolo e va dai Carabinieri a costituirsi.

Per fortuna le ferite riportate da Antonio non sono particolarmente gravi e se la caverà, senza postumi, con un paio di mesi di cure e riposo. Zio Giuseppe, nel frattempo, viene rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza con l’accusa di tentato omicidio e il dibattimento si tiene nelle udienze del 3 e 4 dicembre 1934.

La Corte affronta subito il problema se sia fondata o meno la tesi che si sia trattato di un tentato omicidio e conclude che l’accusa per la quale Giuseppe Naccarato è davanti ai giurati non è fondata. Non è fondata, in primis perché, secondo la Corte, i colpi furono esplosi mentre l’imputato aveva i movimenti della mano con cui impugnava l’arma grandemente ostacolati dalla energica stretta di Vincenzo Naccarato e quando si ponga mente, inoltre, al fatto che i detti colpi furono diretti dalla mano ondeggiante di Giuseppe Naccarato contro un bersaglio anch’esso mobile, quale era il corpo del suo avversario che si teneva rannicchiato e si spostava, con movimenti istintivi di difesa, dietro la persona del paciere. Ma anche la causale, assolutamente inadeguata al proposito di spegnere la vita del nipote, lascia fortemente dubitare che a tale evento estremo fosse diretta la volontà di Giuseppe Naccarato. Ognuno vede che resta fuori dagli ordinarii processi psicologici di un uomo normale e di ottimi precedenti, qual è il Naccarato, l’insorgere improvviso di un’idea omicida contro un proprio congiunto – verso cui per lo innanzi si è sempre usata benevolenza – sol perché questo si fa, a un dato momento, a negare la sussistenza di una sua obbligazione di debito. D’altronde, ad aggravare il dubbio circa la volontà omicida non va trascurato il dubbio, pur esso apprezzabile, che nella specie trattasi di un delitto d’impeto, nel quale l’ideazione criminosa è quasi sempre vaga e indeterminata così che, secondo la scuola, essa è d’ordinario determinabile soltanto in base all’evento.

Determinante, poi, è il fatto che Giuseppe Naccarato ha desistito dal reiterare i colpi proprio nel momento in cui avrebbe potuto facilmente uccidere il nipote. Esclusa, quindi, in maniera categorica l’intenzione omicida, è chiaro che resta in campo solo il proposito generico di ferirlo, nonostante i tre colpi sparati in rapida successione. Per motivare quest’ultima affermazione, la Corte usa questo ragionamento: il fatto che il Naccarato abbia ostinatamente ripetuto i colpi e cercato ostinatamente di vincere la energica resistenza di chi gli ostacolava i movimenti della mano armata di rivoltella, se dimostra la sua ostinata volontà di sparare contro il nipote fedifrago, tal fatto non è ancora da solo prova sicura che con quei colpi egli volesse ucciderlo, giacché è ovvio il rilievo che la volontà generica di colpire è cosa diversa dalla volontà specifica di uccidere.

Il reato, così, è derubricato da quello più grave di tentato omicidio, in quello minore di lesioni guarite oltre il 40° giorno con l’aggravante dell’arma (rivoltella), ma con l’attenuante, di giustizia, di avere agito in istato d’ira determinato da fatto ingiusto da parte dell’offeso, perché non c’è dubbio che la condotta di Antonio Porco fu veramente ingiusta e tale da muovere a sdegno l’animo di ogni animo onesto.

E qui la Corte pronuncia una dura reprimenda nei confronti di quell’Antonio Porco che, dopo aver con lo zio contratto in nome e per conto proprio un debito per somma abbastanza rilevante, si fece poi, con metodo truffaldino e non scevro neppure di un certo scherno esasperante, ad imbrogliare le carte, pretendendo di assegnare allo zio un altro debitore nella persona del fratello, forse nella speranza losca, sua e del detto suo fratello, di frodare lo zio, visto che ormai il fratello Giuseppe era divenuto genero dello zio Giuseppe.

A questo punto la Corte ritiene equo condannare Giuseppe Naccarato, considerata prevalente l’attenuante concessa sull’aggravante contestata, a 3 anni di reclusione. Ma l’imputato rientra nei beneficiari dell’indulto concesso con R.D. 25 settembre 1934 e gli vanno condonati anni due della pena. La pena effettiva quindi è di solo un anno di reclusione e di conseguenza a Giuseppe Naccarato, detenuto dal 2 aprile 1934, restano da scontare solo altri 4 mesi. Ovviamente zio Giuseppe dovrà pagare le spese processuali, quelle della propria detenzione, nonché i danni a suo nipote Antonio Porco che, in linea di equa approssimazione, si ritiene di liquidare definitivamente ed in complesso in lire seimila, comprese lire duemila e cinquecento per onorario di difesa di parte civile.[1]

Seimila lire. Trecentoventicinque dollari, al cambio dell’epoca, e quindi Antonio resta ancora debitore.


[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.

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