DON MIMI’ DONNAIOLO IMPENITENTE

Domenico Marullo fa l’ufficiale postale a Palermiti. Domenico Marullo, quando entra nell’ufficio una donna che gli garba, fa l’ufficiale postale a modo suo. Questa, secondo l’opinione comune, sarebbe la definizione più appropriata.

Si, perché Mimì Marullo, vecchio scapolo sessantatreenne, è un donnaiolo impenitente che sente ancora molto gli stimoli della carne. E deve essere anche abbastanza fastidioso perché molte donne si rifiutano perfino di andare a riscuotere i vaglia che i mariti mandano dall’America.

Ludovica Marrella racconta che, invitata ad andare in ufficio passando dal portone di casa, si è rifiutata comprendendo che questo invito avesse avuto fini illeciti. E ne potremmo citare altri di casi come questo.

Ad un certo punto, tra la primavera e l’estate del 1930, don Mimì si invaghisce della ventiseienne Caterina Turrà, donna da tutti ritenuta onestissima e innamoratissima del marito emigrato in America. Non c’è niente da fare, tutti gli sforzi del maturo libertino vanno a vuoto, Caterina non ci sta.

– È arrivato il vaglia… venite in ufficio… da sola… che ve lo cambio…

– Don Mimì il vaglia me lo vengo a cambiare in compagnia di chi pare a me!

Ma quando Caterina si presenta in ufficio accompagnata, don Mimì trova sempre una scusa per non pagare il vaglia: una volta non ha contanti, un’altra volta è colpa di un timbro che manca, un’altra volta ancora manca l’accento sulla a, un mal di testa feroce e mille altre scuse. Così i vaglia che il marito manda dall’America restano nell’ufficio postale non pagati. Questa situazione non può durare in eterno. Quando Caterina finisce il contante che ha a casa, manda a dire a don Mimì che, in attesa di risolvere i problemi burocratici, le avesse almeno anticipato 50.000 lire del totale che il marito le aveva mandato.

– Sono pronto, ma a condizione che venga personalmente a prenderle. Le devi dire così, hai capito? – è la risposta che le manda.

– Me ne fotto del denaro, non ci andrò mai da quel porco!

Del denaro se ne può infischiare perché nel frattempo è tornato il marito e don Mimì non può fare questioni quando Caterina si presenta con lui per riscuotere i vaglia arretrati, ma non si dà per vinto e continua la sua corte serrata, sempre e comunque respinta dalla donna.

La mattina del 24 novembre 1930 don Mimì sta andando in una sua proprietà, limitrofa a un pezzo di terra del marito di Caterina. Vede arrivare la donna e si ferma davanti ad una bottega dove vendono piatti, con la scusa di domandarne il prezzo. Caterina passa con la colazione del marito in mano e don Mimì temporeggia ancora qualche secondo, poi esce e la segue a distanza. Quando sono fuori dal paese affretta il passo e la raggiunge sul limitare del suo castagneto.

– Caterì… Caterì… mi fai impazzire… per te farei non so che cosa… vieni con me nel bosco che ci divertiamo… – sbava. Caterina non reagisce, sta ferma pensierosa – dai… vieni… – insiste.

– E va bene, andiamo! – dice risoluta, entrando nel bosco. Ma come, proprio adesso che suo marito è tornato? E l’onore?

Don Mimì non crede ai suoi occhi e alle sue orecchie: Caterina oggi sarà sua!

I due si inoltrano per un buon tratto nel bosco, camminando in silenzio. Poi don Mimì si ferma, è quello il posto.

– Spogliamoci – le dice.

Mi vergogno di spogliarmi davanti a voi, don Mimì, e accoppiarmi davanti al vostro sguardo

– E quindi come facciamo? Ormai siamo arrivati fino a qui… – dice tentando di abbracciarla, ma Caterina si ritrae e risponde.

– Toglietevi i pantaloni e le mutande, coricatevi pancia all’aria e mettetevi il cappello sulla faccia così non mi vedete… ho soggezione e vergogna… non ho mai fatto queste cose, io…

– Si… si… tutto, tutto per te – dice, già eccitato per quel nuovo gioco erotico. Via le scarpe, via i pantaloni, via i mutandoni. Il gilet è sbottonato come la camicia. Si stende a terra e porge la mano a Caterina.

– Don Mimì… il cappello sugli occhi…

– Si, si… il cappello – farfuglia mentre si copre gli occhi. Il suo sesso è ormai al massimo dell’erezione, Caterina si avvicina.

– Eccomi, don Mimì – dice piegandosi sull’uomo che è ormai in suo potere. Ma don Mimì non si accorge che Caterina ha in mano un affilatissimo rasoio e gli sta vibrando un terribile colpo sul membro, aprendoglielo in due.

All’inizio non sente nemmeno dolore, poi sente il sangue schizzare dappertutto, si toglie il cappello dagli occhi e urla come un animale ferito. Caterina sta già correndo via. Don Mimì cerca di tamponare il taglio che va dal pube fino al glande e dal quale il sangue che fuoriesce sembra una fontana.

Corre, don Mimì, verso il paese, senza scarpe, senza pantaloni e con i mutandoni premuti sull’asta virile o che virile lo era stata. Che vergogna! Passare per la strada in quelle condizioni! Per don Mimì la vergogna dovrebbe essere l’ultimo dei problemi perché rischia di lasciarci davvero la pelle. Il medico lo ricuce, ma ovviamente non sarà più come prima.

Superando la vergogna, don Mimì sporge querela contro Caterina che viene arrestata, ma le versioni dei fatti fornite dai due protagonisti della vicenda, non coincidono.

– Eravamo già in relazioni intime, poi lei ha voluto fare quel gioco di coprirmi gli occhi… non so perché…

– Ero stufa delle sue proposte illecite, io sono una donna seria, e allora ho voluto dargli una lezione e l’ho ferito…

– Come mai avevate il rasoio? Non lo sapete che è un’arma e non si può portare in giro?

– Si, lo sapevo, ma avevo paura che incontrandomi da sola avesse potuto aggredirmi… voi non lo conoscete… se incontra una donna sola, perde la testa, è un vero maniaco!

– Quindi, se ho capito bene, gli avete fatto coprire gli occhi per fargli intendere che eravate disposta a…

– Si, esattamente.

Il reato, lesioni gravissime, è serio e comporta l’arresto. Caterina finisce in carcere, mentre, giorno dopo giorno, don Mimì peggiora. La ferita si è infettata e non ci sono medicine che funzionino. Ma don Mimì pensa ancora alla vergogna e, a chi va a trovarlo, racconta dei particolari sulla sua ultima “conquista”:

– La rasoiata me l’ha tirata dopo… ma prima… – racconta, accompagnando le parole con un gesto inequivocabile della mano.

– Ve lo dicevo io che don Mimì non perdona! – commenta un amico, suscitando l’ilarità degli altri presenti.

Poi, il 15 dicembre, don Mimì muore per l’infezione e per Caterina le cose si complicano: il passaggio dall’accusa di lesioni gravissime a quella di omicidio preterintenzionale è consequenziale. Ed è per questo reato che viene rinviata al giudizio della Corte d’Assise di Catanzaro che, l’11 giugno 1932, la ritiene colpevole e la condanna a 10 anni, 10 mesi e 5 giorni di reclusione, più pene accessorie, applicando il codice penale vigente all’epoca dei fatti.

I difensori di Caterina ricorrono per Cassazione sostenendo che la Corte non ha sufficientemente motivato il rigetto della richiesta della difesa di concedere l’attenuante della provocazione. La Corte di Cassazione ritiene fondato il ricorso e annulla la sentenza, rinviando gli atti alla Corte d’Assise di Cosenza, che dovrà valutare meglio gli atti.

La Corte, per verificare se esistano o meno i presupposti per la concessione dell’attenuante richiesta o, al contrario, per motivare il diniego, pensa sia necessario analizzare alcune dichiarazioni della vittima. Non è credibile don Mimì Marullo quando ha affermato di essere in intime relazioni con Caterina perché non ci sarebbe stata vergogna da parte della donna a mostrarsi nuda davanti ad un uomo che già in passato l’aveva vista nuda. E non è credibile la voce che ha messo in giro, perché di una voce si tratta in quanto la dichiarazione non è mai stata fatta davanti all’autorità giudiziaria, di avere posseduto Caterina immediatamente prima di essere ferito perché, come egli stesso ammise, non era possibile che si fosse consumato il coito ed egli avesse continuato a rimanere ancora col cappello sulla faccia e col membro in erezione. Queste affermazioni possono, invece, essere spiegate col desiderio di mostrarsi meno sciocco di come era stato, di fronte alle persone con cui parlava. E poi c’è il fatto più lampante: le continue e fastidiose proposte oscene, continuate anche dopo che il marito di Caterina tornò dall’America.

Per tutte queste ragioni, la Corte ritiene che si debba concedere, concordemente alla richiesta del Pubblico Ministero, l’attenuante della provocazione. E motiva così:

Non si è di fronte, invero, all’agire passionale di un innamorato che dichiara il suo amore ad una donna, anche onesta e maritata, e che chiede solo una corrispondenza di amorosi sensi che possono rimanere platonici, fatto che turba la donna, ma mantenendo il dovuto rispetto alla sua onorabilità, non può offenderla. Non si ha neppure la proposta azzardata del libertino ad una donna che vorrebbe conquistare e ritirata subito che costei la respinga; che, se l’offende, trova subito riparazione e la dovuta soddisfazione nel ritiro del dongiovanni, che costituisce riconoscimento della sua onestà. Ma si ha, da parte del Marullo, la reiterazione delle proposte all’accoppiamento adultero, per mercede, gravemente offensivo per l’onore della donna, addimostrandole con questa proposta stessa e con la sua reiterazione, che la riteneva una persona disonesta e che l’aveva in tanto spregevole conto, da crederla capace di fare il mercimonio dei suoi amplessi, tradendo la fede coniugale come donna da trivio. E se la donna, così gravemente e reiteratamente offesa, giustamente adirata, pensò ed attuò quel modo crudele di vendicare tale offesa, le compete evidentemente il beneficio della provocazione, e provocazione grave, avendo agito in uno stato d’animo di grande ira determinata da quell’ingiusto e grave fatto provocatore.

Ma la Corte non ritiene di accogliere l’altra richiesta della difesa: condannare l’imputata al minimo della pena. Ritiene giusto, invece, ridurre la condanna inflitta dalla Corte di Assise di Catanzaro a 5 anni, con le già concesse attenuanti generiche, eliminando anche la libertà vigilata, che con questa pena non è obbligatoria, né ricorre il caso di applicarla facoltativamente.

E non finisce qui: essendo il fatto avvenuto prima del 5 novembre 1932, e la Turrà incensurata, le compete il condono di anni 3 di detta pena e l’assoluzione per il porto abusivo di rasoio, reato amnistiato.

Di contro, Caterina dovrà pagare le ulteriori spese processuali, il suo mantenimento in carcere e le spese delle parti civili. È il 27 febbraio 1934.[1]

Caterina Turrà, arrestata il 24 novembre 1930, ha scontato un anno e tre mesi in più della condanna inflittale.


[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.

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