ACCIARDI IL MALVAGIO

Finalmente, all’imbrunire, un po’ di venticello rinfresca l’aria di una calda giornata di giugno, domenica 15 giugno 1919.

Domenico Abruzzini esca da casa sua nella frazione Grupa di Aprigliano e va nella bottega del compaesano Rocco Savoia, sita nell’incrocio che fa la via rotabile di Aprigliano con quella di Pietrafitta. I due si mettono a chiacchierare del più e del meno davanti alla porta e, nel frattempo arrivano altre due persone che si fermano con loro. Ridono, si danno pacche sulle spalle, mentre il sole ormai è solo un lampo rosso dietro le montagne.

Poi un lampo i quattro lo vedono molto vicino a loro e quella specie di tuono contemporaneo li fa sobbalzare, mentre Abruzzini si accascia a terra trapassato da parte a parte da una scarica di pallettoni. Morirà nel giro di pochi minuti per la grave emorragia interna causata dalla perforazione dello stomaco e di un polmone.

La fucilata è partita dal giardino di prospetto, dove è un muro di cinta a fabbrica, lesionato, ed a traverso la lesione si era posata la canna del fucile, tenendo così ferma la mira.

I vicini, spaventati, non si preoccupano di chi si sia potuto nascondere dietro il muro e sparare, ma cercano di trovare riparo temendo altri colpi. Sono solo pochi ma eterni istanti, poi i tre che erano con Abruzzini lo prendono e lo riportano a casa, mentre la voce dell’attentato si sparge in tutto il paese e subito arrivano i Carabinieri che cominciano ad indagare.

Siccome l’Abruzzini teneva l’esercizio del magazzino di approvvigionamenti del Comune, molti risentimenti si erano accumulati contro di lui e molte minacce gli si facevano dagli scontenti. Sarà molto difficile districarsi in un ginepraio di sospetti,ma si ebbe presto a scartare l’opinione che fosse stata la causale immediata la distribuzione di generi alimentari. Piuttosto, è l’opinione del Giudice Istruttore  e del Pretore, è il caso di scavare nella vita privata della vittima che, è notorio, aveva una forte passione per le donne. Una in particolare: la sua concubina Franceschina Vetere che aveva avuto, nei giorni precedenti al delitto, gravi motivi di gelosia e, soprattutto, gravi timori che passando l’Abruzzini a nuovi amori avrebbe modificato alcune disposizioni testamentarie a di lei favore. Nessuno pensa a lei come esecutrice materiale del delitto, ma piuttosto come mandante di un suo cugino, forse anche suo segreto amante, Francesco Acciardi, meglio conosciuto come Cicciu ‘e maremare, che avrebbe soppresso l’Abruzzini per questo e forse per altri motivi personali.

La donna viene tratta in arresto ad Aprigliano, ma di Francesco Acciardi, ventiseienne Sergente del 47° Fanteria, pregiudicato per reati contro la persona e per diserzione, non si hanno notizie. Poi il 17 giugno mattina due Agenti di P.S. lo riconoscono nei pressi dell’Ufficio di Pubblica Sicurezza e lo arrestano nonostante il precipitoso tentativo di fuga.[1]

– Non sono stato io… la sera del 15 giugno ero impegnato in altro…

– E cosa stavi facendo? Parla, ne va della tua vita futura, qui c’è l’ergastolo!

– Ero con una donna…

– Il nome

– Ida Celestino… la mia fidanzata…

 Ida Celestino nega di avere passato alcune ore in compagnia di Ciccio Acciardi e nega anche di essere fidanzata con il giovane. E pare proprio che sia come dice Ida. Molti testimoni, compresi i genitori della ragazza, raccontano, anzi, che Ciccio Acciardi ha motivi di rancore contro la famiglia Celestino perché gli era stata rifiutata la mano di Ida, essendo egli di umile condizione sociale e per nulla amante del lavoro ed essendo evidente che vagheggiava di sposarla  col miraggio di vivere alle spalle di lei e della famiglia e per questo starebbe cercando di trascinarla in questa brutta faccenda. I guai si fanno seri. E si fanno ancora più seri quando gli fallisce l’alibi su altre circostanze affidati ad altri testimoni che lo smentiscono pienamente. Poi si scopre che nei giorni precedenti l’omicidio ha acquistato a Cosenza un fucile dello stesso calibro usato per ammazzare Domenico Abruzzini e di questo fucile non c’è traccia. Il colpo di grazia se lo assesta praticamente da solo quando confessa a condetenuti il delitto specificandone i particolari che costoro ignorano e sol da lui apprendono e così depongono.

Nonostante ciò continua a sostenere disperatamente la sua tesi difensiva contro tutto e tutti, ma l’evidenza delle prove a suo carico gli è contro. Così, mentre Franceschina Vetere  viene prosciolta da ogni accusa, Ciccio Acciardi viene rinviato a giudizio per omicidio premeditato. Il 20 dicembre 1923, dopo un vivace dibattimento, la Corte d’Assise di Cosenza, esclusa l’aggravante della premeditazione e concesse le attenuanti generiche, lo condanna a 16 anni di reclusione, più a 300 lire di multa, al pagamento delle spese processuali,  al rimborso dei danni verso le parti civili e a due anni di vigilanza speciale. Stando così le cose, Acciardi dovrebbe uscire dal carcere nel 1935, ma con provvedimento 24/1/924 gli vengono condonati anni sette di reclusione per l’indulto R.D. 2/9/919 e 5/10/920 e considerati gli sconti di pena per la buona condotta, la sua detenzione termina agli inizi del 1928.

Il rancore nei confronti della famiglia Celestino, durante la detenzione è stato ben nutrito ed è cresciuto in modo preoccupante. Non appena torna in paese comincia a manifestare propositi di vendetta, fino a che il 2 ottobre 1929 si apposta nelle vicinanze della casa dei Celestino e spara un colpo di fucile caricato a pallini contro Ida, ferendola. La ragazza lo denuncia e chiama a testimone dei fatti una vicina di casa, Clementina Aquino, che racconta agli inquirenti le minacce di morte nei confronti di tutti i Celestino, fatte da Ciccio Acciardi in sua presenza. Il risultato è che Acciardi viene condannato a 10 mesi e 10 giorni di reclusione.

Esce dal carcere il 18 agosto 1930 e, ritornato ad Aprigliano, dimostra subito di essere persona socialmente pericolosa: anziché dedicarsi al lavoro, pretende di vivere alle spalle della gente e poiché continuamente trasgredisce gli obblighi a cui è sottoposto in quanto vigilato speciale, a questa misura cautelare viene aggiunta la cauzione di buona condotta di £ 4.000, avendo lo stesso Acciardi proposto di versare tale somma mediante lo sconto di una cambiale rilasciatagli dal padre naturale di Emilia Savaglia, una fanciulla sedicenne da lui condotta a nozze meno di un anno prima. Ma non potendo realizzare la somma ed avendo poi offerto di prestare la garanzia mediante ipoteca su alcuni immobili del suocero ed insistendo, d’altra parte, sempre più l’Arma dei Carabinieri nel prospettare la particolare gravità delle trasgressioni agli obblighi della libertà vigilata commesse da Acciardi, il ripetersi di esse, nonché l’estrema pericolosità di lui, il Giudice di Sorveglianza accoglie le proposte avanzate dal comandante la stazione dei Carabinieri e dal Questore di Cosenza, con rapporti 10 settembre e 10 ottobre 1931, di assegnarlo ad una casa di lavoro.

Ma uno come Ciccio Acciardi non può accettare il provvedimento e comincia, armato, a battere le campagne seguito dalla sua giovanissima moglie che con lui divide i rischi e le fatiche della vita randagia. A questo punto viene emesso nei suoi confronti un mandato di cattura e i Carabinieri si mettono sulle sue tracce ma, nonostante le serrate ricerche coordinate dal Capitano Giacinto Scichilone, passano alcuni mesi senza che si riesca a rintracciarlo, non mancandogli gli aiuti e i favori che i latitanti son soliti procacciarsi, anche con la prepotenza.

È il pomeriggio del 18 maggio 1932. Acciardi, nascosto nel bosco, viene visto da Teresa Canaris che sta passando sue vicinanze. Siccome il latitante ritiene la donna una confidente dei Carabinieri e teme di essere denunciato, la affronta e la minaccia schiaffeggiandola e percuotendola sul ventre con la canna del fucile.

– Se dici che mi hai visto, torno e ammazzo te e i tuoi. Hai capito? – la donna, terrorizzata, fa cenno di si col capo e se ne va, ma il problema è che è incinta e tra lo spavento e le botte sul ventre, abortisce dopo qualche ora. A questo punto lo denuncia per lesioni personali gravissime e minaccia aggravata, con l’immediata conseguenza che quella zona di bosco se l’è giocata perché i Carabinieri la mattina successiva vanno a pattugliarla e per poco non lo sorprendono vicino ad una casa colonica in contrada Acqua Vignosa. Acciardi, che ha passato la notte in quella casetta con la moglie, li vede ad un centinaio di metri e, nascosto dietro un albero, spara una fucilata contro il Carabiniere Garasto ch’è in abito borghese (ma da lui ben conosciuto), scomparendo subito nel folto del bosco. Il colpo, per fortuna, va a vuoto e nessuno questa volta si è fatto male, ma parte un’altra denuncia per tentato omicidio.

Ciccio Acciardi non si preoccupa più di tanto perché ha trovato un favoreggiatore ubbidiente nel modo più assoluto, Salvatore Musso, che esegue i suoi ordini e procura in un baleno tutto ciò che serve a lui ed alla moglie. Il latitante, sapendo di averlo in suo pieno potere, decide di confidargli il progetto di voler uccidere il Carabiniere che più di ogni altro gli dà preoccupazione, il Brigadiere Picariello, e gli ordina di portare il graduato, con una scusa, sotto il tiro del suo fucile. Ma a Musso questa cosa gli sembra troppo grande, troppo rischiosa. Ammazzare un Carabiniere no, non gli va affatto a genio. Dal Brigadiere Picariello ci va, ma non per farlo ammazzare, ci va per raccontare il progetto di Acciardi e metterlo in guardia. È la metà del mese di luglio 1932.

Poi si rende conto di essersi cacciato in un guaio, un brutto guaio. Da una parte ci sono i Carabinieri che spingono per convincerlo a tradire definitivamente Acciardi, pena la galera, dall’altra c’è Acciardi che se, non sia mai, venisse a sapere che ha parlato con la Legge lo ammazzerebbe senza ombra di dubbio. Che fare?

L’unica soluzione possibile, per Musso, è ammazzare Acciardi, prendendo due piccioni con una fava: toglierselo di dosso e fare anche la figura dell’eroe che ha liberato la società da un uomo pericoloso e temuto da tutti.

L’idea di Musso è che bisogna approfittare della circostanza che da qualche tempo i coniugi Acciardi si aggirano per la contrada “Veronica” e la sera dormono all’aperto, non lontano da una casa colonica dove vivono le famiglie di Gaetano Tedesco e Luigi Vigna e dove abita Musso stesso, quale aspirante alla mano di una figlia di Vigna.

L’occasione potrebbe presentarsi il 22 luglio quando Ciccio Acciardi e sua moglie Emilia, stanchi ed affamati vanno nella casa colonica e si fanno cuocere della pasta dalle figlie di Vigna. Dopo di avere avidamente mangiato, si allontanano ma non appena si fa buio tornano nei pressi della casa per prendere lì un po’ di riposo e si coricano per terra sotto un albero di gelso, a distanza di un centinaio di metri da quella casa.

Elena è stanchissima e, nonostante sia piena estate, sente freddo. Ciccio si toglie la giacca e gliela mette addosso, stringendola a sé per infonderle maggior calore e così si addormentano profondamente.

Salvatore Musso è in agguato. Strisciando per terra si avvicina cautamente al giaciglio dove la coppia riposa. Nel cielo una gibbosa luna calante a stento penetra tra il fitto fogliame del gelso. Musso scorge la sagoma con la giacca proprio a tiro davanti a lui. Non può sbagliare. Sfila il fucile dalla spalla, prende accuratamente la mira e scarica tutti e due i colpi sulla sagoma.

L’urlo straziante di un uomo che si solleva da terra imbracciando il fucile copre il rimbombo dei colpi. Acciardi  è illeso e furente. Si china su Elena che, colpita da entrambe le scariche al perineo, è morta sul colpo. La prende in braccio urlando con una bestia feroce del bosco. Sbuffa come un toro infuriato. Posa il cadavere della moglie adolescente, prende tutte le armi e tutte le munizioni che ha e si allontana, cercando di capire chi possa essere stato a fargli quella cosa orribile di uccidergli la moglie e meditando vendetta immediata, tremenda vendetta immediata.

Cammina senza meta per tutta la notte e tutta la mattina seguente mentre i Carabinieri cominciano le indagini, poi verso le 18,00 va nelle campagne di Pietrafitta dove sa che villeggia la famiglia Celestino. Se vendetta deve essere, se dovrà morire ammazzato o finire i propri giorni in galera, allora meglio regolare definitivamente tutti i conti che crede di avere in sospeso con persone che nella sua mente sono colpevoli, ma in realtà del tutto innocenti.

Ecco, la casa dei Celestino è davanti a lui. Sulla porta c’è Ida. Il viso di Ciccio Acciardi si storce un ghigno satanico, gli occhi, iniettati di sangue, diventano due fessure, mentre le narici si allargano. Con gesti calmi sfila il fucile dalle spalle e lo imbraccia. Passi felpati lo avvicinano alla sua preda. Ormai Ida è a pochi passi da lui e ancora non si è accorta di niente, poi un leggero fruscio la fa girare mentre Ciccio le sta puntando l’arma contro. I due sguardi sembrano incrociarsi per un attimo. La ragazza lo guarda attonita con la bocca aperta per la sorpresa, incapace di urlare: la fiammata e la detonazione della scarica la investono in pieno senza lasciarle scampo. Poi la belva ricarica il fucile ed entra in casa proprio mentre i genitori di Ida, Gennaro e Giulia Fasanelli, stanno correndo a vedere cosa sia accaduto. Due colpi, uno dietro l’altro, li abbattono senza pietà.

Acciardi sputa in terra e se ne va con il suo ghigno sulle labbra. Torna verso Aprigliano camminando con calma e inspirando tutta l’aria che può, soddisfatto di quel bagno di sangue che, forse, aspettava da tempo.

Sta camminando da una mezzoretta quando s’imbatte in Clementina Aquino. Si guardano e la donna è terrorizzata da quel ghigno satanico. Cerca di capire, sbirciando a destra e sinistra, se ha la possibilità di scappare

– Perché hai testimoniato contro di me? – le chiede, ma la risposta non gli interessa perché fulmineamente imbraccia il fucile e lo scarica sulla donna, uccidendola all’istante. Poi sputa di nuovo a terra e si allontana. Fatti pochi metri incontra i tre figlioletti della donna che ha appena ammazzato e, con un cinismo inaudito, annunzia loro la morte della madre.

Nella sua testa adesso c’è solo una domanda: l’infame che ha ammazzato sua moglie chi è? Chi lo ha mandato? Certamente i Vigna e i Tedesco devono entrarci qualcosa, visto che il fatto è accaduto a cento metri da casa loro. Musso non gli viene in mente, lo ritiene troppo fidato per essere capace di una cosa del genere. Con questo chiodo fisso in testa, cammina senza meta per ore. Poi, esausto, si stende e si addormenta di quel sonno visitato da incubi che scuotono, fanno tremare, sudare freddo, piangere, chi ne è preda.

 Si risveglia alle prime luci dell’alba, affamato ma senza possibilità di soddisfare il suo bisogno. Sa che deve rimettersi in marcia per sfuggire alla Legge che sicuramente lo sta braccando e come un animale braccato si nasconde nei boschi e negli anfratti per tutto il giorno. Verso sera, però, ritorna dove gli hanno ammazzato la moglie e si presenta a casa dei Vigna e dei Tedesco. Il suo aspetto è davvero terrificante

– Chi ha ammazzato Emilia? – domanda ad Alberto e Giovannina Vigna, urlando. I due fanno timidamente cenno di no con la testa, non lo sanno. Poi Alberto farfuglia

– Non… non sappiamo niente…

Ciccio non insiste. Guarda Alberto Vigna con i suoi occhi da demonio. Come un fulmine imbraccia il fucile e spara un colpo a bruciapelo contro l’uomo, uccidendolo all’istante. Spara anche l’altro colpo contro Giovannina ma per fortuna la palla viene deviata da una casseruola e colpisce la donna di striscio. Poi si gira verso la sua destra dove ci sono Angela Gallucci,  la moglie di Gaetano Tedesco, e la figlia Amalia Tedesco. Con calma toglie le cartucce esplose e ricarica l’arma, puntandola contro Angela, proprio mentre la figlia si butta ai piedi dell’assassino e, singhiozzando, implora la salvezza della madre.

– No, Ciccio, no! Per l’anima dei morti, per l’anima di Emilia, non ammazzare mamma, non sappiamo niente..

Con sublime gesto di amor filiale, tenta di farle scudo con la propria persona, ma l’assassino la respinge e la getta a terra, quindi fa fuoco, freddando la donna sul colpo. Sputa per terra e se ne va.

A seguito dei cennati delitti, i Carabinieri cercano di stringere più dappresso l’Acciardi e, venuti con lui in immediato contatto nella contrada  Timpone in agro di Aprigliano il 27 luglio 1932, poco manca che nel conflitto non perdano la vita, vittime del dovere, il Capitano Scichilone, il Brigadiere Picariello, l’Allievo sottufficiale Blasone e il Carabiniere Losito, contro i quali Acciardi spara a vicinissima distanza due colpi di fucile e tutti quelli della rivoltella di cui è pure armato.

Il suo obiettivo principale, il Brigadiere Picariello, se la cava per miracolo, colpito al braccio sinistro. I Celestino, raccolti in gravissime condizioni e trasportati in ospedale, muoiono nel giro di qualche giorno.

La caccia continua senza tregua, ma di Ciccio Acciardi si perdono le tracce e intanto i Carabinieri hanno capito che ad ammazzare Emilia Savaglia è stato Salvatore Musso, ma nemmeno di lui si hanno notizie. Si temono altri morti in questa caccia all’uomo incrociata, ma per fortuna non accade niente. Che Ciccio Acciardi cerchi Musso per ammazzarlo è certo anche perché si costituisce spontaneamente pochi giorni dopo che, il 16 settembre 1932, i Carabinieri arrestano Musso.

Tutto ciò risulta dagli atti dell’istruttoria formale, verbali dei Carabinieri, dichiarazioni di parti lese e testimoni e dalle stesse quasi complete confessioni dei due imputati

– Perché l’ho fatto? Il dolore per la morte della mia povera moglie, trucidata nel più crudele dei modi mentre riposava accanto a me, turbò così profondamente il mio animo e mi sconvolse talmente il cervello che mi diedi a correre come un pazzo per le campagne senza meta… dopo qualche ora mi trovai davanti la casa dei Celestinoricordai che, non avendo voluto essi deporre a mio favore nel processo Abruzzini, erano stati la causa della mia ingiusta condanna, l’origine di tutte le mie disgrazie, e perciò li ho ammazzati! È stata la fatalità, poi, a far si che di lì a poco m’imbattessi in Clementina D’Aquino, contro la quale sparai rimembrando che pure ella aveva deposto contro di meinfine ritornai dove era stata trucidata mia moglie per conoscere il nome del suo uccisore e vendicarla e ho ammazzato Alberto Vigna e Angela Gallucci perché ebbi la convinzione che anche costoro erano responsabili dell’assassinio

Troppo facile addebitare al turbamento d’animo il barbaro assassinio dei Celestino e di Clementina D’Aquino. Troppo facile pretendere di ergersi a giudice supremo e condannare a morte senza appello Alberto Vigna e Angela Gallucci.

Salvatore Musso confessa di avere ucciso Emilia Savaglia per errore perché il suo obiettivo era Ciccio Acciardi.

Il Giudice Istruttore, il 24 marzo 1933, ordina il rinvio a giudizio di Acciardi e Musso per rispondere dei reati loro rispettivamente ascritti.

La Corte d’Assise giudicante sarà quella di Cosenza, ma il dibattimento, per questioni di ordine pubblico, si terrà a Catrovillari.

La difesa punta sull’infermità mentale e chiede una perizia psichiatrica, ma la Corte non la concede, motivando che si tratta di un vero azzardo difensivo volere confondere i sentimenti di dolore, disperazione e ira provati da Acciardi sia per l’uccisione della moglie che per l’attentato contro di lui col vizio totale o anche solo parziale di mente, perché la capacità di intendere o di volere, che è posta come base e fondamento della responsabilità penale, rimane integra quali che siano gli stati emotivi o passionali dell’agente.

L’analisi di tutti i precedenti di Acciardi e l’insieme dei fatti accertati, portano la Corte a definire il carattere dell’imputato il quale risulta essere d’istinti brutali, prepotente, di natura collerica, facile agli odii e pronto a volerli sfogare anche con le azioni le più atroci. Tutto ciò lo indica perfettamente come quella figura tipica di delinquente per tendenza che, appunto, fu specificata nei lavori preparatorii del codice avendo la sua tendenza a delinquere, come vuole il legislatore, salde radici nella sua indole malvagia e particolarmente perversa. Onde la Corte ritiene di dichiararlo delinquente per tendenza.

Poi la Corte esamina le cause scatenanti questa serie di delitti di cui Francesco Acciardi è reo confesso:

La uccisione di Emilia Savaglia non fornisce da sola la spiegazione della immane strage perpetrata dal giudicabile. La tragica morte della moglie fu la causa che fece esplodere l’indole malvagia e perversa dell’Acciardi e determinò i delitti di lui, nel senso che risvegliò gli odii che da tempo erano profondamente radicati nell’animo di lui contro i componenti della famiglia Celestino e Aquino Clementina e nel tempo istesso ne mise in moto i naturali impulsi di violenza ed aggressività, dipendenti dalla sua particolare tendenza ai delitti, cui egli fu indubbiamente sospinto dal proposito di dare libero sfogo ai vecchi rancori che, per quanto si riferisce alle azioni delittuose in persona dei Celestino, indubbiamente trassero origine da motivi che non possono non reputarsi assai riprovevoli ed addirittura abietti.

L’enormità dei delitti commessi da Acciardi fa quasi passare in secondo piano la posizione  di Salvatore Musso che aveva preveduto e voluto l’uccisione dell’Acciardi, scatenando con il suo errore la furia omicida del bandito.

Il 28 aprile 1934 la Corte emette la sentenza di condanna per entrambi gli imputati. Salvatore Musso viene condannato, considerata l’attenuante di avere agito in stato d’ira per fatto ingiusto dell’Acciardi (il timore per l’ipotetica vendetta nel momento in cui fosse venuto a conoscenza della sua delazione), alla pena di 18 anni di reclusione, dei quali gliene vengono condonati 5, più le pene accessorie.

Francesco Acciardi viene condannato:

  1. Anni 7 di reclusione per l’unico delitto di lesione gravissima alla Canaris, aumentati ad anni 9 e mesi 4 per la recidiva;
  2. Mesi 8 di reclusione per la minaccia grave con arma alla stessa Canaris, aumentati a mesi 11 per la recidiva;
  3. Anni 1 e mesi 6 di reclusione per la minaccia grave con arma al Carabiniere Garasto;
  4. Ergastolo per l’omicidio aggravato continuato dei tre della famiglia Celestino;
  5. Anni 24 di reclusione per l’omicidio della D’Aquino Clementina, che si elevano ad anni 30 per il concorso della recidiva;
  6. Anni 24 per l’omicidio continuato di Vigna Alberto e Gallucci Angela e le lesioni in persona di Vigna Giovannina;
  7. Anni 24 di reclusione per il tentato omicidio aggravato in persona del Capitano Scichilone (all’epoca dei fatti Tenente) ed altri funzionari dell’Arma, pena che si eleva ad anni 30 per la recidiva;
  8. Mesi 6 di arresto per il porto abusivo delle armi e mesi 4 di arresto per la detenzione senza denunzia di esse.

Cumulando le dette pene, si ha la pena unica dell’ergastolo con isolamento diurno che si ritiene di fissare nel massimo di anni 4, oltre le pene accessorie.

Il 21 gennaio 1935 la Corte di Cassazione rigetta i ricorsi del Pubblico Ministero e di Francesco Acciardi, mentre dichiara inammissibile il ricorso di Salvatore Musso.[2]

Una mattina della fine di giugno del 1945 gli apriglianesi si svegliano con una grossa novità: Cicciu ‘e maremare è tornato in paese!

– L’hanno graziato! – è la voce che gira in paese. E sembra davvero che sia così perché la prima cosa che Acciardi fa appena arriva ad Aprigliano è presentarsi alla caserma dei Carabinieri e dire al Maresciallo Guglielmo Galasso che è stato graziato. Il fatto di non avere documenti con sé che lo attestino e che nessuna comunicazione ufficiale sia arrivata, dovrebbe suscitare qualche dubbio, ma con l’Italia spaccata in due e la guerra che ancora infuria, gli credono. Comincia, così, una nuova vita, sia per lui che per qualcuno che ha ancora paura di lui.

Ma Ciccio Acciardi pare davvero cambiato, i quasi 23 anni di reclusione scontati a più riprese sembrano averlo condotto a più miti consigli e adesso per i paesani ci sono solo pacche sulle spalle. Addirittura va d’accordo con i Carabinieri, con i quali è facile vederlo passeggiare per le vie del paese. L’unica cosa che ancora non si è messa a posto è la mancanza di una casa dove poter mettere radici, così dorme ora da un amico, ora da un altro e spesso all’aperto, dato che è estate.

Acciardi stringe una forte amicizia con i fratelli Giuseppe, Rocco ed Emilia Schiavo, con la quale inizia una relazione, e la loro casa diventa, praticamente, la sua.

 Sono passati circa tre mesi da quando ha fatto ritorno in paese. La mattina del 29 settembre 1945 Ciccio Acciardi passeggia tranquillamente per le strade del paese, quando gli si para davanti il Maresciallo Galasso con due Carabinieri ai lati

– Acciardi Francesco, in nome di Umberto Primo, Luogotenente del regno d’Italia, vi dichiaro in arresto per l’evasione dal carcere di Portolongone

Cicciu ‘e maremare sembra sorpreso, forse non se lo aspettava, o forse è solo una mossa per prendere qualche secondo di tempo e tentare l’ennesima, rocambolesca e disperata fuga. Quando si accorge che alle sue spalle ci sono altri due Carabinieri, non fa resistenza e si fa mettere i ferri ai polsi.

Non è chiaro come il Maresciallo Galasso sia venuto a sapere dell’evasione, vero è che finiscono nei guai Rocco e Giuseppe Schiavo, arrestati per favoreggiamento. In casa loro vengono ritrovati alcune cose appartenenti ad Acciardi che dovrebbero far riflettere su come abbia potuto un ergastolano evaso dal carcere dell’Isola d’Elba durante la Seconda Guerra Mondiale e sotto il controllo dei nazisti, procurarsi

Pantaloni a colore N° 1

Camicie di colore N 2 di cui una di seta

Calze paia N 4 (quattro) di cui due di lana e due di seta

Scarpine paia N° 1 a colore

La spiegazione, forse, potrebbe trovarsi nelle tentate estorsioni ad opera di ignoti – sedicenti sbannati siciliani, secondo le lettere minatorie sequestrate – denunciate ad Aprigliano, nei mesi di permanenza di Acciardi, ai danni di Francesco Piscitelli e Nicola Cosentino e molto probabilmente ai danni di altri che non denunciarono.

Non sapevamo che egli fosse ricercato dai Carabinieri e neppure lo sospettavamo perché egli girava indisturbato per il paese… fu arrestato inaspettatamente… – dicono all’unisono i fratelli Schiavo quando vengono interrogati. E non hanno tutti i torti.

Il Maresciallo Galasso, interrogato, mostra un certo imbarazzo

Ammetto che l’Acciardi, finché non ritenni opportuno arrestarlo, girava liberamente per il paese, si recava in casa dei suoi amici e particolarmente dagli Schiavo

Forse lo ha fatto pascere per qualche mese in attesa di coglierlo in fallo e beccarsi una promozione.

Un certo imbarazzo c’è anche nella sentenza del Giudice Istruttore che deve ammettere la perfetta buona fede degli imputati, i quali non potevano lontanamente sospettare di aiutare l’Acciardi quando questi circolando impunemente dava dimostrazione di non essere ricercato. Per questo motivo i fratelli Schiavo vengono prosciolti perché il fatto non costituisce reato e Ciccio Acciardi torna a vedere il sole a scacchi.[3]

E il sole a scacchi lo vede per altri 22 anni, poi, il 24 agosto 1966, il Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat accoglie la domanda di grazia avanzata da Francesco Acciardi, con la condizione che il beneficio si intenderà per non concesso qualora entro dieci anni dalla data del decreto, commetta un delitto non colposo per il quale riporti una condanna a pena detentiva superiore a mesi sei.

Subito dopo essere tornato in libertà, Ciccio Acciardi, a 73 anni suonati, sposa la ormai cinquantaseienne Emilia Schiavo che lo ha aspettato fedelmente per 21 anni.

Per quanto riguarda Salvatore Musso, bisogna dire che gode, oltre al primo indulto di 5 anni, di altri due indulti per un totale generale  di 11 anni, facendo scendere la pena da scontare a 7 anni.[4]


[1] Biblioteca Civica di Cosenza, Cronaca di Calabria, annata 1919.

[2] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, sentenze della Corte di Assise di Castrovillari.

[3] ASCS, Processi definiti in istruttoria.

[4] ASCZ, ibid.

2 commenti

  1. Non si è detto che il vero assassino dell’Abbruzzini
    confessò in punto di morte la sua colpa, scagionando
    così Ciccio Acciardi, quando ormai era troppo tardi!

  2. In realtà non ho trovato alcun atto giudiziario ufficiale in cui è riportata la confessione. Se qualcuno fosse in grado di farmelo conoscere, provvederò immediatamente a rettificare il mio scritto. Grazie per l’attenzione.

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