IN FAMIGLIA SI MUORE MEGLIO

La sera del 28 giugno 1945 il trentaseienne Ambrogio Ferrari di San Giovanni in Fiore cena a casa con alcuni amici, tra i quali un certo Mahoney, sergente dell’esercito inglese.

Verso mezzanotte, dopo aver bevuto e mangiato in abbondanza, gli amici se ne vanno e Ferrari, dopo qualche minuto, esce per andare a casa della sua amante Maria Laratta. In realtà Ambrogio Ferrari è sposato con la ventenne Caterina Lopetrone, ma i due vivono separati in quanto Caterina, non andando d’accordo con le tre cognate che abitano nella stessa casa, è tornata dai genitori. Questa è la versione ufficiale, ma la verità è che Caterina ha un amante, il ventottenne Giuseppe Magnolfi. C’è un’altra cosa da dire prima di continuare: Caterina e Ambrogio hanno una bambina di 2 anni allevata in un collegio privato di Catanzaro.

Eravamo rimasti al punto in cui Ambrogio esce per andare dalla sua amante e potremmo dire, senza allontanarci troppo dalla realtà, che Ambrogio è completamente ubriaco e barcolla vistosamente. Un paio di volte, lo ammetterà egli stesso, cade ma riesce ad alzarsi e a continuare a percorrere la strada verso il piacere.

Madonna mia! Mi sento male… – sono le prime parole che pronuncia appena Maria gli apre la porta.

– E certo! Sei ubriaco! – lo rimprovera la donna, costretta a fare un salto per non essere investita dal vomito che, come un vulcano in eruzione, esce dalla bocca di Ambrogio. Poi quasi sviene e deve essere materialmente adagiato sul letto, poi Maria gli prepara un decotto di sambuco per attenuargli gli effetti dell’alcol.

È la mattina del 29 giugno e le sorelle di Ambrogio sono molto preoccupate perché ancora non è tornato a casa. Gilda, la maggiore, sta di vedetta sul balcone di casa e nota Caterina Lopetrone, in compagnia di suo fratello Luigi e del suo amante, in atteggiamento sospetto. Teme che abbiano fatto qualcosa di male al suo adorato fratello. Si gira verso l’interno della casa e dice alle altre due sorelle:

Volete vedere che stanotte uccisero ad Ambrogio? – poi, come una furia, esce di casa per andare a cercare il fratello, ma tutto le riesce vano e quando ha già fatto ritorno a casa, bussa Maria Laratta.

– Vedi che Ambrogio è a casa mia che ha un forte dolore di testa… è venuto dopo mezzanotte ubriaco…

Ma è grave?

È grave, si… no, no, che dico! È  cosa da nulla, ma comunque a piedi non può tornare

Proprio in questo momento si trova a passare Mahoney, il sergente inglese, che assiste allo scambio di parole tra le due donne, si offre di trovare un’automobile per andare a prendere Ambrogio e così egli stesso trasporta il malcapitato dalla casa della Laratta alla sua abitazione.

– Qui non è questione di ubriacatura, ci deve essere qualcos’altro che non riesco a diagnosticare, ci vogliono esami e analisi approfonditi. Bisogna portarlo in ospedale a Cosenza! – è il consiglio che dà ai familiari il dottor Edoardo Marini, chiamato a visitare Ambrogio. E così le sorelle fanno immediatamente.

In ospedale viene supposto che Ambrogio abbia potuto ricevere un colpo alla noce del collo e, fatta una radiografia la diagnosi viene confermata, riscontrando anche una lieve rima di frattura all’osso occipitale.

– L’ipotesi più probabile – dice il radiologo, dottor Nitti – è che il colpo sia stato inferto con legno avvolto di stracci o con gomma.

Questa circostanza, ovviamente, desta l’attenzione dell’Agente della Polizia in servizio all’Ospedale, Alfonso Garofalo,  che prova a fare qualche domanda al ferito. Per esempio, se conosce il nome del suo, eventuale, aggressore.

Non ricordo nulla… solamente vi dico che i miei nemici sono mia moglie, i suoi famigliari e certo Magnolfi

– Ma avete visto qualcuno di questi mentre vi aggrediva? – insiste l’Agente.

Non mi ricordo nulla

– Vi ricordate almeno come avete passato la serata?

– Ho mangiato a casa con gli amici… assai… verso mezzanotte sono andato dalla mia amante… ho rimesso tutto quanto avevo mangiato e bevuto e lei, per agevolarmi la digestione mi ha preparato un decotto con erba di sambuco che mi somministrava col caffè… poi non mi ricordo più niente… datemi le tredicimilalire che ho nel portafogli…

L’Agente Garofalo fruga tra le cose di Ferrari, trova il portafogli, ma delle tredicimilalire non c’è traccia. A questo punto è facile fare due più due: Ferrari, ubriaco, va a casa dell’amante che gli somministra qualcosa stordendolo del tutto e gli ruba i soldi, poi lo colpisce alla nuca, forse per simulare che tutto sia accaduto per strada. Si, è plausibile.

Maria Laratta, l’amante, e tale Rosa Chiodo, una prostituta che abita con lei e che dalle indagini è risultata essere presente in casa la notte tra il 28 e il 29 giugno 1945, vengono interrogate e denunciate per furto e lesioni. Poi accade l’inatteso. Alle ore 4,45 del 7 luglio 1945 Ambrogio Ferrari muore.

E qui cominciano i problemi: se da una parte è plausibile pensare che, per nascondere il furto commesso, Maria Laratta e Rosa Chiodo abbiano potuto colpire Ferrari causandogli lesioni così gravi da portarlo alla morte, è pur vero che agli atti c’è la dichiarazione dello stesso Ferrari che, in qualche modo, accusa sua moglie, i familiari e l’amante di questa di essere i suoi soli nemici. Quale strada intraprendere?

Gli inquirenti raccolgono molte testimonianze e credono che Maria Laratta e Rosa Chiodo con la morte di Ferrari non c’entrino nulla e quindi arrestano Caterina Lopetrone, i suoi fratelli Salvatore e Luigi, nonché l’amante (e cugino) Giuseppe Magnolfi. Però, scremando tutte le informazioni in possesso degli inquirenti, ben presto bisogna ammettere che contro i Lopetrone c’è molto poco e quindi vengono rimessi in libertà. E se non sono stati i Lopetrone devono per forza essere state Maria Laratta e Rosa Chiodo. Niente da fare. Anche nei confronti delle due donne c’è troppo poco e il 17 novembre 1945 vengono prosciolte in istruttoria per insufficienza di prove.

Il fascicolo, ora intestato contro IGNOTI, viene archiviato.

È il 20 settembre 1946. Dalla notte in cui Ambrogio Ferrari “si sentì male” per strada sono passati 15 mesi.

Gilda Ferrari bussa alla porta della caserma dei Carabinieri di San Giovanni in Fiore. Ad accoglierla c’è il Maresciallo Maggiore Tommaso Pietropaolo, al quale la sorella del defunto Ambrogio racconta:

Comandante, è inutile che io mi dilunghi in questo doloroso argomento; sappiate che, sicuramente, mio fratello Ambrogio è stato ucciso dalla sua moglie Caterina Lopetrone con la correità del fratello Luigi e del parente Giuseppe Magnolfi, unici nemici del mio povero fratello.

– Signora, questo è un argomento ormai chiuso…

– Comandante, ho delle cose importanti da riferire, fatemi continuare – al cenno quasi rassegnato del Maresciallo, la donna va avanti – Ambrogio era molto attaccato alla famiglia paterna e ciò non era di gradimento alla moglie, tanto che costei si è allontanata dalla mia famiglia recandosi presso sua madre e continuamente minacciava di morte il marito.

– Avete prove? Testimoni? – la incalza il Maresciallo, forse per costringerla a rassegnarsi. Gilda Ferrari gli fa cenno di aspettare e, leggendo da un foglio, continua:

Il 23 gennaio 1945 la moglie in compagnia del fratello Salvatore e dell’amico Magnolfi, hanno percosso mio fratello nei pressi del molino e menomale che in quell’istante transitava il Brigadiere Rizzuti il quale ha allontanato i mali intenzionati, accompagnando poscia a casa mio fratello; il 29 aprile 1944, sempre dagli stessi, ma in casa della signora Maria Olivito, mio fratello fu aggredito e percosso, nonostante pendesse procedimento penale per la precedente aggressione, procedimento poi definito per amnistia; il 2 giugno 1945 Caterina Lopetrone diede incarico alla serva Maria De Marco di pestare un pezzo di vetro, vetro che essa Lopetrone mise in una focaccia per somministrarla al marito. La serva, che era a conoscenza degli attriti fra i coniugi e ritenendo a male l’incarico avuto di spezzettare il vetro, avvertì i miei famigliari e così accertai, presente Pietro Maria Angotti, che la Lopetrone aveva l’intento di sopprimere mio fratello dandogli la focaccia a colazione. Formai un’altra colazione, la consegnai alla De Marco che gliela portò al cantiere dove lavorava e ritirò la focaccia che, per fortuna, non aveva ancora cominciato a mangiare. Quando ebbi in mano la focaccia, la esaminai con mio fratello e, effettivamente, dentro vi erano moltissimi piccoli pezzetti di vetro. A questo punto mio fratello chiese alla moglie spiegazioni ed essa rispose: “Puoi sapere se l’avessi fatta per me?”. Mio fratello le rispose: “Giacché l’avevi fatta per te, perché cercavi di farla mangiare a me?”. La moglie non rispose; dopo il fatto del 28 giugno 1945, quando mio fratello si aggravava in ospedale, ad un certo punto mi disse: “Dite al paese che io sono più grave, in modo che lo sappia la disgraziata e così voglio vedere se ha il coraggio di presentarsi davanti a me!”. Io chiesi spiegazioni e aggiunsi se avesse desiderio di volere vedere la moglie ed egli rispose: “Non la voglio vedere… se vivessi me la piglierei e dopo otto giorni dalle mie mani dovrebbe morire!”; la mattina del 29 giugno 1945, verso le ore 8, quando ancora nessuno sapeva niente della sorte di mio fratello, la madre della Lopetrone andò presso l’Albergo “Silano” e disse a certa Filomena Gallo che durante la notte precedente mio fratello, mentre era sulla macchina, subì un investimento con un camion, facendosi male alla testa e che probabilmente moriva e allora la Gallo disse che avrebbe avvertito i famigliari, ma l’altra la pregò di tacere; verso la fine di gennaio di quest’anno, il ragazzo Agostino Mazzei, di San Giovanni, disse che, trovandosi presso il calzolaio Giovanni Lopez, il Magnolfi profferì le seguenti parole: “Ambrogio Ferrari aveva impugnato la rivoltella per spararmi ed io lo ammazzai…”; il 2 luglio 1945, verso le ore 22, transitava dalla via Cappuccini certa Teresa Gallo e sentì Luigi Lopetrone che diceva ridendo: “Volete vedere che muore e incolpano me?”; in seguito ad un diverbio avvenuto nei primi del mese di Agosto ultimo con Caterina Lopetrone e avendola apostrofata con la parola “assassina”, essa mi rispose che ancora non è finita e che mio fratello fu ucciso dal sergente inglese

– È tutto? – fa il Maresciallo, terminando di prendere appunti e guardando il Carabiniere che gli fa cenno di avere, anche lui, preso nota.

– Si…

– Bene, vi farò sapere…

Al Maresciallo il racconto di Gilda Ferrari sembra credibile e, comunque, vale la pena ascoltare le persone che ha nominato per avere, o meno, conferma. E le conferme arrivano. L’istruttoria viene riaperta e questa volta con tre indagati: Caterina Lopetrone, Luigi Lopetrone e Giuseppe Magnolfi. Spunta anche la brutta copia di una lunga lettera che Ambrogio scrisse a sua figlia per futura memoria:

San Giovanni in Fiore 5/10/944

Mia carissima

Avrei piacere dirti a voce tutto ciò che scrivo, ma penzo che mi sarà difficile e perciò voglio che tu sia a giorno di tutto! Nel 942 una ragazza praticava spesso la mia casa. Me ne innamorai come non avrei mai fatto. Nel 943 uscì incinta di te, che io per mie ragioni non potevo sposare subito, ci furono delle questioni, ma io dato che avevo detto tutto e promessogli di sposarla, la portai in albergo dove convivemmo per quattro mesi circa; dato che io non potevo sostenere due famiglie, mi allontanai di comune accordo per un po’ di giorni, se non che per dissidi avuti con i suoi famigliari, lei, imbottita dalla madre e particolarmente dal fratello Salvatore, il 28 dicembre 943, alle ore 6, si presentò nel portone di casa mia chiedendomi £ 50 per pagare la stanza dell’albergo (ma non è questo) io presi £ 100 e gliele diedi, poi mi disse che  sarebbe andata a casa con i suoi, io per risposta gli dissi di andarsene a casa sua che non era lontano il matrimonio, mi giurò che non ci saremmo visti più (data la mia intenzione!…) e così rimasimo zitti un minuto, poi si decise, tirò un coltello da maiale e me lo tirò ad una gamba che mi ferì. Appena alle grida accorsero gente, inclusa mia sorella Gilda spaventata, mentre la madre fremeva di gioia del bell’atto fattogli commettere, lei andò ad abitare una casa vicina; io andai dal Maresciallo dei Carabinieri e feci relativa denunzia. Data la gente che erano, sia di nascita che di condizione, i miei non volevano che avvenisse questo matrimonio, e ne avevano ragione, ma dato l’affetto, io non ho guardato altro. Incontrai matrimonio il 28 gennaio 944, con tutto accordo ci amavamo come se nulla fosse avvenuto fra noi. Con i miei c’era l’affetto come prima, tanto anche loro avevano dimenticato pur di vedermi felice… ma non lo sono mai stato.

Quando lei, madre ingrata, il 2 giugno 944 alle ore 10 ½ di sera, senza nessuno avergli fatto niente, piantò la casa e se ne va lasciandoti all’età di 67 giorni, figurati il mio dolore per te. Il giorno dopo pensai per una nutrice e così feci; mi costò un po’ di soldi, ma non mi ànno dispiaciuto. Dopo circa un mese, a furia d’incoraggi di gente estranea, questa si presenta ed io accettai, credendo ed augurandomi che tutto fosse passato e finito. Ci furono delle discussioni che è inutile scrivere – che spero quando sarai grande poterti dire a voce – e tutto tornò come prima ma lei, maligna, senza far capire niente a nessuno, il 23 agosto 944 alle ore 10, dopo aversi buttato dal balcone i quattro stracci che aveva portato per corredo, di nuovo pianta te a casa e va via! Ecco come ti ha trattata!! Nel mese di settembre ti sei ammalata e le tue zie ti hanno prestato le cure più efficaci e lei era contenta che tu morissi. La vidi in mezzo la strada con delle amiche, tutta gioiosa a spasso; ad un tratto sento una risata allegra e forte di contentezza a poca distanza da me: allora non ci vidi più e la feci avvicinare e chiamandola “troia assassina e ladra” le tirai due schiaffi. Lei continuò la sua passeggiata e quasi a fine del paese si fermò e continuò la discussione ed ebbe il coraggio di dirmi in faccia che aveva piacere che tu morissi. Ti ho scritto questi due righi chissà dovessi subire qualche disgrazia, almeno sarai a giorno di tutto.

Ti bacio, tuo padre

P.S. Dimenticavo il meglio: siccome lei, intanto che amava me, era fidanzata con un giovane per non dare all’occhio, io mi presentai da una sua vicina di casa dicendole che non volevo scrupoli di coscienza e che ero disposto a sposarla, ma che lei avrebbe tolto ogni relazione col fidanzato, cosa che lei non fece e così vennero a conoscenza i suoi e la misero fuori dicendole che lei non doveva sposarmi perché c’era molta differenza d’età, ma dopo 3 mesi, visto che era in cinta di te, obligarono lei a farsi sposare.

Io, oltre dei tre titoli “troia assassina e ladra” gli do anche il quarto e così la imparerai tu e cioè la “vedova allegra” perché lei non fa altro che uscire e ridere continuamente ma con mio grande rincrescimento.

Devo avvertirti che lei è incinta, non so di quanti mesi, e spero quello che nascerà, maschio o femmina che sia, di non lasciarcelo, anche a costo della mia vita.

Quando sarete grandi mi giudicherete bene o male… io spero vedere il secondo appena nato, ma se il destino non vuole, ti prego leggergli la stessa lettera e dirgli che anche per lui o lei ci penserò, però a 21 anni compiuti.

Chissà quante cose vorrei scriverti, ma non lo faccio e spero che abbia la forza di dirtelo a voce. Finisco col baciarvi caramente e la preghiera di ricordarvi che siete orfani di madre.

Vostro affettuoso ed addolorato padre.

Se avrò vita, in appresso vi scriverò altro.

Molto inquietante. Sembra evidente che Ambrogio si aspetti di morire da un momento all’altro e non di morte naturale.

A proposito di morte: dalla nuova autopsia viene esclusa la frattura all’atlante, che solo erroneamente era stata radiologicamente intravista. Anche per quanto riguarda la causa della morte i periti confutano i primi esami medici: non più un colpo di bastone, ma una caduta a corpo morto del Ferrari che andò a sbattere con la testa su una pietra del selciato della strada.

Arrivano anche delle lettere anonime, una delle quali ipotizza che ad uccidere il povero Ambrogio Ferrari fu il colpo vibrato dalla mano esperta di lotta giapponese, in maniera così misteriosa perché abile conoscitore di tali metodi di lotta senza lasciare traccia

Non solo. Arrivano due lettere uguali, una al Questore e l’altra al Procuratore del re, a firma di Caterina Lopetrone che dicono:

Sono stuffa il rimorso mi fa parlare. Io mio fratello Luigi e Peppino Magnolfi la notte del 28 al 29 Giugno passato verso le tre abiamo ammazzato mio marito Ambrogio Ferrari

Lopetrone Caterina

La lettera è palesemente falsa per il semplice motivo che non c’era bisogno di scrivere due lettere per confessare, bastando andare dai Carabinieri e mettere la confessione a verbale. Ma è meglio essere sicuri e fare una perizia grafica. No, meglio due perizie: una del professor Antonio Aloe e l’altra dal Direttore tecnico della Scuola Superiore di Polizia Scientifica, entrambe concordi nel dichiarare false le lettere.

Per il Pubblico Ministero i risultati dell’indagine sono chiari e ci sono prove sufficienti per chiedere il rinvio a giudizio di tutti e tre gli imputati, ma il Giudice Istruttore ritiene, al contrario, che l’incertezza regna sovrana su tutti i punti del processo e pertanto, chiudendo l’istruttoria, in difformità con le richieste del Pubblico Ministero, dichiara non doversi procedere contro gli imputati per non aver commesso il fatto.[1]

Tra errori e chiacchiere le indagini falliscono sempre…


[1] ASCS, Processi definiti in istruttoria.

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