UNA BAMBINA VIVACE

Sono le sei di pomeriggio del 15 luglio 1935 e a Cosenza il clima è afoso. Giuseppina De Francesco è sulla porta della sua casa in Via della Neve quando si sente chiamare da una donna che abita al secondo piano del palazzo di fronte:
– Venite! Accorrete! La mia bambina sta male!
Giuseppina non se lo fa ripetere due volte e corre su per le scale ma, fatta la prima rampa, incontra la donna che sta già scendendo con in braccio la bambina completamente coperta di sangue.
– Che è successo?
– Sangue dal naso… sangue dal naso…
Le due donne corrono giù per le scale e una volta in strada si imbattono in un giovanotto che le vede e si accorge subito della gravità della situazione perché la bambina boccheggia e lascia dietro di sé una scia di sangue. Antonio Sorrentino, così si chiama il giovanotto, toglie la bambina dalle braccia della mamma e di corsa va verso la casa del dottor Vercillo, che è a qualche decina di metri da lì. Antonio comincia a salire le scale del palazzo di Via Cafarone a quattro a quattro ma, arrivato al primo pianerottolo, si accorge che la bambina è morta.
Il medico dà alla bambina un’occhiata superficiale, le tasta il polso, che è ovviamente assente, le pulisce il visino dal sangue e constata che non presenta segni di violenza, ma solo del sangue che ancora continua a scorrere dal naso:
– Oggi per due volte ha perso sangue dal naso e la seconda volta… la seconda volta… – fa la mamma indicando il corpicino senza vita steso sul lettino del medico.
– Morte per epistassi – osserva il medico, poi fa segno a Sorrentino di riprendere la bambina.
Così il giovanotto con il cadaverino in braccio, la madre e Giuseppina ridiscendono le scale in silenzio, in una specie di corteo funebre che, lungo Via della Neve si ingrossa sempre più di vicini e curiosi, commossi per la morte improvvisa e assurda di Carmelina La Manna di appena cinque anni.
Arrivati a casa, Antonio depone Carmelina sul letto e, molto coinvolto emotivamente, comincia a chiedere in che modo si erano verificate le due emorragie e perché la mamma non si era preoccupata già alla prima di portarla da un medico:
– Ne soffriva continuamente… le usciva il sangue e poi si fermava da solo…
Antonio accarezza la testolina con i capelli che poche ore prima dovevano essere ricci e invece adesso sono appiattiti e appiccicaticci per il sangue che li ricopre e nota qualcosa di strano sulla camicetta, completamente rossa di sangue, di Carmelina: un buco sulla parte destra, all’altezza della mammella. Insospettito, spoglia il cadavere e vede una ferita che sembra molto profonda, dalla quale ancora esce un po’ di sangue:
– E questa cos’è? come se l’è fatta? – chiede alla mamma, quasi con rabbia.
– Forse quando è caduta svenuta…o forse è stato il fratellino…
– Ma che significa? È assurdo quello che dite! – poi Antonio comincia ad osservare con ancora più attenzione il corpicino e si accorge di altre stranezze:  i segni di un morso e una lividura sul braccio destro, un livido al fianco destro e un altro alla tempia dello stesso lato. Gli sorge il sospetto che Carmelina sia stata selvaggiamente picchiata e ne chiede conto alla mamma – E queste che gliele ha fatti?
– Il fratellino…hanno litigato…
– Non è il morso di un bambino… sembra la bocca di un orco! – È troppo per Antonio Sorrentino. Esce senza salutare e va dritto in Questura a raccontare tutto.
I Commissari di P.S. Guglielmo Lauro e Alessio Maiorano ascoltano il racconto di Sorrentino e decidono di andare dal dottor Vercillo per saperne di più. Lo incontrano per strada e lo interpellano, apprendendo che, senza alcun esame sul corpo, aveva constatato il decesso della bambina la quale presentava sintomi di una forte emorragia nasale, a seguito della quale era, indubbiamente, deceduta.
No, non basta, c’è un testimone che dice di aver visto delle ferite e bisogna approfondire. Incaricano delle indagini il Vice Brigadiere Francesco Benevento che va subito ad interrogare i genitori di Carmelina e si sente ripetere sempre la stessa versione dell’abbondantissima fuoriuscita di sangue verificatasi per ben due volte nel corso della giornata. Per nulla convinto di tale versione. Il Vice Brigadiere fa svestire la bambina e constata con i propri occhi la veridicità del racconto di Antonio Sorrentino.
– Io non ero in casa quando è successo… – racconta il padre.
– Forse quando è caduta svenuta…o forse è stato il fratellino… – ripete la madre.
Ritenendo questa versione poco convincente, Benevento dichiara in arresto la donna e la porta in Questura.
Maria Serafina Dele, così si chiama la donna, è nata a Catanzaro nel 1913. Persi in tenera età il padre, dedito al vino, pare in una rissa, e la madre, morta per tubercolosi, nel 1919, a sei anni, venne raccolta dalla Signora Ida Astorino che la condusse a Carpanzano, tenendola presso di sé fino al matrimonio con Vincenzo La Manna, avvenuto il 21 novembre 1929: matrimonio precoce perché fra i due vi era stata congiunzione carnale.
Ha sempre mostrato un carattere stravagante, ma non risulta abbia percosso i figli, oltre quanto, per consuetudine, ogni madre usa distribuire ai figli, anche quotidianamente, scappellotti o altro a scopo di correzione, relazionano immediatamente i Carabinieri di Carpanzano, che continuano: nei riguardi della fedeltà coniugale, non risulta abbia tenuto un contegno onesto e la si può considerare senz’altro fedifraga. A Cosenza praticamente non la conoscono perché lei, il marito e i figli si sono trasferiti in città da nemmeno due settimane. Eventualmente, per avere altre informazioni bisognerà interrogare qualche abitante di Carpanzano.
Maria racconta la sua versione dei fatti;
Da tempo perdeva sempre sangue dal naso e questo l’aveva estremamente indebolita. Non potei provvedere alle cure del caso in quanto vivo in misere condizioni economiche, né mi curai in alcun senso d’interessare del caso pietoso persone amiche o parenti… oggi, verso le 16,30, la bambina subì una forte emorragia nasale. Provvidi a lavarla e pulirla, riuscendo a stagnare il sangue. In quei momenti c’era pure mio marito con un suo amico, Piro Vincenzo, il quale mi aiutò. Pochi minuti dopo la bambina scese in strada col fratellino di due anni e mezzo, rimanendovi con altri coetanei a giocare. Qualche tempo dopo richiamai in casa i bambini i quali, dopo avere consumato la cena, continuarono a trastullarsi. A un certo punto, per ragioni che ignoro, presero a bisticciarsi. La bambina aveva fra le mani un paio di forbici e, riconoscendo che essa era la più irrequieta, mi alzai e senza badare a disarmarla delle forbici, le diedi un morso al braccio e poscia la colpii nella persona, facendola cadere per terra. presumo che nella caduta essa si sia ferita al torace con le forbici, ma senza che io me ne accorgessi sul momento
Ormai è mezzanotte,  Maria è spossata e in più l’ufficio matricola del carcere sta per chiudere e una donna non può restare in camera di sicurezza durante la notte. Meglio interrompere l’interrogatorio, portarla in prigione e ricominciare il mattino successivo.
Alla ripresa dell’interrogatorio, però, Maria ritratta tutto: non le ha dato morsi, non le ha dato lo schiaffo che l’ha fatta cadere per terra e le forbici che prima erano in mano a Carmelina adesso sono collocate per terra. Maria si accorse che la bambina perdeva di nuovo sangue dal naso, la prese in braccio mentre chinava il capo impallidendo. Si affacciò al balcone e chiese aiuto.
– Mi sono accorta che era ferita al petto solo quando il giovanotto, tornati a casa, la spogliò…
– E secondo voi come è accaduto?
Non so spiegare come sia stata determinata la ferita
– Dove eravate mentre i bambini litigavano?
Mi trovavo sul balcone a cucire una sottana della bambina ed avevo con me le forbici che, sono certa, non furono prese dai bambini
– Avete appena detto che le forbici erano per terra e adesso invece le avevate voi in mano? Quante forbici avete?
Posseggo due paia di forbici e quelle che scorsi per terra probabilmente furono prese dai piccoli da uno scatolo che si trovava su un tavolo
Secondo il racconto di Vincenzo Piro, presente durante la prima emorragia, questa non fu spontanea, ma provocata da un violento schiaffo che Maria dette alla bambina:
Il marito la redarguì e lei rispose malamente, senza peraltro preoccuparsi dell’emorragia. Con la massima indifferenza prese un tovagliolo e pulì il naso della bimba, aiutata dal marito….
Per Maria le cose cominciano a complicarsi e si complicano ancora di più dopo la conferma di suo marito:
Verso le 16 di ieri, avendo la bambina litigato col fratellino, fu da mia moglie colpita con uno schiaffo al naso, procurandole una forte emorragia. Per tale fatto richiamai mia moglie… poi uscii col mio amico – certo, niente di strano che il padre esca con un amico se la figlia perde sangue dal naso dopo essere stata picchiata dalla mamma.
– Solo questa volta l’avete richiamata per gli schiaffi?
Altre volte dovetti intervenire e redarguire mia moglie perché picchiava i bambini, esagerando nei mezzi di correzione
– Siate sincero… pensate che Carmelina sia stata colpita con la forbice da vostra moglie? – azzarda il Vice Brigadiere Benevento.
Non sono convinto che mia moglie sia innocente, pure non sapendo precisare la causale della morte della bambina
La causale della morte, secondo il risultato dell’autopsia, è stata la perforazione del ventricolo destro del cuore, prodotta dal colpo di forbice, altro che epistassi!
E che non sia stata una fatalità lo afferma il fratellino minore di Carmelina in due interrogatori, per quanto valore possano avere le parole di un bambino di tre anni, interrogato senza tutele prima in una caserma dei Carabinieri e poi nell’ufficio del Giudice Istruttore:
– Chi ha menato a tua sorella?
– Mamma.
– Con che cosa?
– Con la forbice.
– Chi ha menato a tua sorella?
– Mamma.
– Chi ha menato a tua sorella?
– Io
Che cosa vide Vercillo? (in vero, parrebbe non abbia portato, nel caso, una metodica osservazione; che cosa rilevò il medico del referto?  Tutto ciò conviene sia stabilito esattamente. Al caso, fatto oggetto d’ulteriori spiegazioni e risposte da parte del perito d’autopsia. Il Pubblico Ministero pretende, come è giusto che sia, la massima precisione sia per poter procedere, eventualmente, con un capo d’imputazione certo e a prova di giuria, sia per stabilire se ci siano state omissioni penalmente rilevanti da parte dei medici. È il 16 settembre 1935.
Mi portarono a casa la bambina per vedere che cosa avesse, ma io, avendo constatato la morte, non ebbi cura di visitarla nelle carni e perciò nulla posso dire se sul suo corpo vi fossero lividure o meno – ammette candidamente il dottor Vercillo.
Quale sanitario municipale sono stato chiamato per constatare la morte della bambina. Non mi si disse che era deceduta per morte violenta però, denudato il cadavere, constatai che la morte era avvenuta per ferita e redassi il referto – conferma il dottor Emilio Barbieri.
A mio opinare, un bambino di tre anni non avrebbe potuto produrre la ferita che ho riscontrato sul corpo della bambina – assicura il dottor Ludovico Serra che eseguì l’autopsia.
Dopo queste deposizioni, che non aggiungono niente a quanto è già agli atti, l’istruttoria può considerarsi chiusa e il Giudice Istruttore può pronunciare la sua sentenza:
Non può che concludersi che la lesione sia stata prodotta dalla Dele. Di carattere iroso e violento, ella usava verso la figlia, inquieta come le bambine della sua età, e che portava nel suo piccolo essere la tara della nervosità materna, mezzi di correzione eccessivi. Mezzi eccessivi di correzione soltanto, ma che non possono concludere il reato di maltrattamenti, escludendo nei fatti il dolo necessario per detto reato. Insegna la scuola, invero, che “il dolo necessario all’integrazione del reato di maltrattamenti è dato dalla volontà libera e cosciente di maltrattare il soggetto passivo, che è rappresentato da quell’atteggiamento psichico determinato da una passione qualunque o da uno scopo diverso dal fine di correzione o di disciplina”.
Ora, ben si vede come tutto ciò non esiste nel caso in esame.
La possibile obbiezione che il mezzo adoperato fa escludere lo scopo disciplinare, mentre mette in evidenza, se non la completa assenza di esso, almeno la concorrenza di un fine ignobile o di un movente selvaggio, onde è applicabile il titolo del delitto comune di omicidio e non quello di abuso dei mezzi di correzione, non regge. Nel caso, escluso ogni movente malvagio e ogni fine ignobile, deve concludersi che la Dele non avesse steso la mano che impugnava la forbice, che serviva pel cucito cui era intenta, coll’intenzione di ferire, ma semplicemente d’intimorire la figlia, la quale ne fu colpita per una concorrenza d’inesplicabili eventi. Il mezzo adoperato, in altri termini, fu eccessivo perché concludentesi con una minaccia a mano armata: l’eccesso è consistito nel mezzo “minaccia” e non nel mezzo “arma”.
La Dele, pertanto, va rinviata al giudizio del competente tribunale per rispondere del reato di abuso di mezzi di correzione con esito di morte. È il 23 gennaio 1936.
Ha solo esagerato un po’.
Il 3 marzo successivo, il Tribunale Penale la ritiene colpevole del reato ascrittole e la condanna a 5 anni di reclusione, più pene accessorie.
Maria Dele ricorre in appello ritenendo, in base ai risultati del dibattimento, di dover essere assolta per non aver commesso il fatto in quanto un gesto di minaccia, inteso ad intimorire un bimbo per farlo desistere dal compiere una qualsiasi monelleria, non è abuso dei mezzi di correzione.
Ma ricorre in Appello anche, infuriato, il Procuratore Generale del re:
Una fragile creatura di cinque anni, dopo lunga serie di maltrattamenti e di sevizie, dopo essere stata schiaffeggiata a sangue, fustigata, morsicata, sbattuta per terra come inutile e indesiderato cencio, veniva da una degenere madre uccisa con un colpo di forbice al cuore.
Non voleva uccidere la Dele Maria: d’accordo. Ma voleva ferire, così come aveva fatto con altri mezzi in precedenza e in quello stesso pomeriggio in cui le “aveva assestato uno schiaffo così violento da cagionarle una profusa emorragia nasale” e “un morso al braccio in maniera così bestiale da lasciare nelle tenere carni l’impronta ben marcata di cinque denti” (vedi sentenza del tribunale). E poco dopo, in un bestiale crescendo di violenza, il colpo di forbici al cuore.
Volontà di uccidere? No; ma non si parli, per carità, di fronte al costante comportamento della madre verso la figlioletta e al cospetto delle violenze prima attuate, di “semplice volontà d’intimidire mediante l’uso di forbici, che sarebbero andate a colpire la bambina per una concorrenza d’inesplicabili eventi”!
Con queste ed altre certo rispettabilissime teorie, le imputazioni si sono venute mano mano sbriciolando fino a diventare abuso di mezzi di correzione. Ed oggi il rito impedisce che sulla figura giuridica si possa tornare. Ma s’infligga, almeno, a chi ha seviziato la sua creatura e l’ha infine uccisa con un’azione che, se anche andata oltre l’intenzione, era però volontariamente diretta a lasciare un altro sanguinante segno nelle misere carni della piccina, una pena che, al di là di quella, del tutto inadeguata, inflitta dal Tribunale, che apparisca un po’ più proporzionata alla estrema gravità del crimine.
È questo, appunto, che si chiede alla giustizia e sensibilità della Corte eccellentissima.
Il 10 luglio 1936, la Corte d’Appello respinge il ricorso dell’imputata e dichiara inammissibile quello del Procuratore Generale, confermando la condanna inflitta dal Tribunale Penale di Cosenza.[1]
Carmelina, una bambina vivace.

 

[1] ASCS, Processi penali.

 

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