BIRRAI A COSENZA OVVERO IL DELITTO GIORDANO

Sono le 18,00 di lunedì 8 febbraio 1932 e fa freddo. Giuseppe Giordano chiude il suo negozio di Corso Mazzini a Cosenza e, in compagnia del suo garzone Rosario Esposito, torna a casa. Sono poche decine di metri e in giro non c’è quasi nessuno, nonostante siano i giorni di carnevale.
– Don Peppì, buona serata, io vado al tabacchino…
– Buona serata a te, io salgo a casa e poi mi vado a fare una camminata, ho bisogno di rilassarmi…
Don Peppino Giordano, concessionario esclusivo per la provincia di Cosenza della Birra Peroni, in casa ci sta pochissimo, giusto il tempo di salutare sua moglie e le sue figlie, poi scende due rampe di scale e comincia a percorrere l’androne del palazzo, illuminato solo parzialmente.
Dall’esterno un uomo si affaccia nell’androne e, prima che don Peppino possa capire cosa sta per accadere, gli spara contro un colpo di pistola.
Il colpo va a vuoto, Giordano istintivamente alza lo sguardo e, nella penombra appena illuminata dalla fiammata, scorge una figura maschile, di media statura, magra, un cappello scuro a tesa calato sugli occhi e il bavero del cappotto, forse nero, alzato in modo da occultare i tratti del viso. Poi altre due detonazioni e questa volta i proiettili vanno a segno: il primo al ginocchio sinistro, il secondo al torace.
Don Peppino, aggrappato al corrimano della scala, urla per il dolore. La moglie e le figlie, che hanno sentito distintamente le detonazioni ma le hanno attribuite a qualche monello che ha fatto esplodere delle bombette nell’androne e quindi non ci hanno badato più di tanto, riconoscono la sua voce e si precipitano giù per le scale temendo, ora, che sia accaduta qualcosa di grave.
Lo sconosciuto, nel frattempo, è scappato lungo Corso Mazzini, passando davanti al tabacchino nel quale è Rosario Esposito che, udite le detonazioni, fa per uscire sulla via. Vede passare a corsa velocissima un individuo con un cappello scuro calato sugli occhi e il bavero del cappotto alzato fin sopra il mento ma, pensando ad una quistione che  avveniva in istrada e temendo di essere raggiunto da qualche proiettile, rientra nel locale, mentre lo sconosciuto devia in direzione di Via XXIV Maggio. Un uomo cerca di fermarlo, ma lo sconosciuto, facendo segno con la mano verso un punto dietro di sé, dice:
Aiutatelo! Aiutatelo!
L’altro si distrae per guardare dietro lo sconosciuto e questi può allontanarsi indisturbato.
Don Peppino Giordano viene immediatamente trasportato in ospedale, a qualche centinaio di metri da casa. Mentre gli infermieri lo spogliano per facilitare le operazioni dei medici, arriva sul posto il Maresciallo Michele Pelaia che prova a fargli qualche domanda.
– Sapete chi è stato?
– No…
– Avete dei sospetti, inimicizie, persone che potrebbero avere dei risentimenti verso di voi?
Io non ho altri nemici che gli Spadafora… – farfuglia prima di entrare in sala operatoria. Ma don Peppino non ce la fa e dopo qualche ora cessa di vivere.
Gli Spadafora a cui accenna don Peppino Giordano sono suoi lontani parenti e per cercare di capire come mai li ha accusati, bisogna, come fanno gli inquirenti, tornare indietro di cinque anni, al mese di maggio del 1927.
Antonio Spadafora e i suoi due figli Pasquale e Giuseppe sono i titolari di un’avviatissima ditta di commercio all’ingrosso di bevande, la cui fetta più grossa è rappresentata della commercializzazione in esclusiva della Birra Peroni per la provincia di Cosenza e di Messina, ma la ditta entra in dissesto a causa di alcune spericolate operazioni finanziarie e vengono avviate le procedure per il fallimento dell’attività. Temendo di perdere tutto, gli Spadafora propongono a Giuseppe Giordano, concessionario della Birra Meridionale da poco acquistata dalla Peroni, di assumere la rappresentanza esclusiva della Birra Peroni verso il compenso di lire quarantamila in unica soluzione oppure di lire mille al mese per il periodo di cinque anni. Don Peppino non accetta, vuoi perché trova troppo onerosa la richiesta, vuoi perché, prevedendo prossimo il fallimento degli Spadafora, nutre in cuor suo la bottegaia speranza di conseguire, senza spesa di sorta, l’intera concessione della birra. La cosa non piace affatto agli Spadafora che non fanno niente per nascondere il disappunto. A questo punto, col consenso della Peroni, cedono la commercializzazione della birra ad un prestanome, Lorenzo Pellegrini, marito di una figlia di Antonio. La cosa funziona per un po’, poi nel mese di agosto del 1929 arriva la sentenza di fallimento e l’artificio è smascherato dai periti del Tribunale. Ora la società produttrice della Birra Peroni non può più fare finta di niente e revoca la concessione a Pellegrini.
La bottegaia speranza di Giuseppe Giordano si avvera e a don Peppino la concessione cade  come un frutto maturo, diventando così il  padrone di tutta la piazza.
Farò vestire a te e a tutta la tua famiglia le gramaglie!” è il messaggio che fa pervenire Giuseppe Spadafora a don Peppino per mezzo del comune amico Santo Filice. Non solo. Antonio, ormai più che settantenne, davanti a testimoni lo minaccia velatamente di morte: “stai attento perché io ormai i miei anni li ho vissuti…”.
Nel 1931 gli Spadafora presentano una proposta di concordato nella misura del 25% dei debiti, mediante cui concepiscono la speranza in una ripresa commerciale, tanto più fondata in quanto il Banco Commerciale di Calabria ha loro assicurato la fidejussione del concordato, ma trovano un ostacolo in Giuseppe Giordano il quale, essendo loro creditore per una somma cospicua, rifiuta l’adesione al concordato perché non vuole adattarsi ad una così bassa percentuale, mentre egli sa che il patrimonio dei falliti è ottimo ed alcuni creditori saranno pagati al 100 per 100. Nemmeno questa volta gli Spadafora la prendono bene e ora, incuranti di ogni riserva, non si peritano di esplodere in aperte minacce, come per esempio quella del patriarca Antonio: “ti farò ammazzare da mio figlio Peppino che è irresponsabile perché è già stato in manicomio!”. O proprio come quella del figlio Peppino: “ti fazzu mugliare!”, cioè emettere l’estremo gemito di colui che viene colpito a morte.
Alla fine don Peppino si convince e, il 4 dicembre 1931, accetta il concordato al 25%. Ma ad una condizione: gli Spadafora gli devono versare, tramite il Banco Commerciale di Calabria, un compenso extra di lire quarantatremila. La condizione è accettata, il denaro viene accreditato e adesso si deve solo aspettare che l’accordo sia omologato. Ma anche questa volta c’è un intoppo. No, non è propriamente un intoppo, ma qualcosa di veramente insuperabile e definitivo: i primi di gennaio del 1932 il Banco Commerciale di Calabria fallisce da un giorno all’altro e tutto salta. Gli Spadafora sono in ginocchio e sospettano che don Peppino, avendo forse avuto preventiva conoscenza, a mezzo del genero impiegato bancario, dello stato di dissesto in cui si trovava il Banco Commerciale di Calabria, ne aveva approfittato per incassare le quarantatremilalire in corrispettivo della sua adesione al concordato, tanto più ipocrita in quanto questa era ormai divenuta inutile.
Motivi di rancore che rappresentano pesanti indizi ce ne sono, secondo gli inquirenti, in tutto questo vissuto, così il Commissario di Pubblica Sicurezza D’Amico si presenta a casa degli Spadafora e arresta il vecchio Antonio con il figlio Pasquale. Giuseppe non può essere condotto in Questura perché è a letto con segni di una emiparesi al braccio e alla gamba sinistra. Lo arresteranno il giorno dopo.
Sembra essere tutto risolto, basta solo individuare chi, fra i tre, ha sparato. Ma quando vengono ascoltati i testimoni che hanno visto scappare l’assassino, è subito evidente che non può essere stato nessuno dei tre. Lo sconosciuto è descritto come di media statura, magro e agile, mentre nessuno dei tre Spadafora ha queste caratteristiche. E quindi? Quindi bisogna seguire altre ipotesi investigative, compresa quella che gli Spadafora potrebbero essersi serviti di un sicario per vendicarsi.
Le piste seguite si dimostrano ben presto fallaci e vengono abbandonate, tranne una quella di un sicario al soldo degli Spadafora.
Chi mai si sarebbe potuto prestare a questo? La malavita locale viene messa sotto torchio ma non c’è nessuno ritenuto in grado di ammazzare a pagamento. Allora si cerca di capire se c’è qualcuno, giovane e di media statura, che, essendo a contatto con loro e avendo consimili motivi di rancore contro il Giordano, meglio di chiunque altro abbia potuto subirne l’influenza ed accettarne il tristo mandato.
A indicare una strada alternativa, ma coincidente al tempo stesso, è la vedova Giordano, che racconta al Commissario come anche il fratello di Antonio Spadafora, Saverio, nutriva rancori contro la buonanima di suo marito. E una veloce indagine conferma questa ipotesi perché non solo Saverio era stato anch’egli coinvolto nel fallimento dell’azienda di suo fratello e dei suoi nipoti, per quanto poi le due masse fallimentari fossero state tenute separate, ma aveva anche altro suo particolare motivo di rancore contro il Giordano per l’affare di una casa rispetto alla quale, nonostante la proprietà ne fosse già passata al Giordano per il mancato pagamento del riscatto fissato in lire undicimila, tuttavia Saverio Spadafora, non volendo adattarsi al fatto compiuto, aveva richiesto inutilmente al Giordano un compenso di lire quarantamila a tacitazione di ogni sua pretesa, divenuta ormai infondata, sulla predetta casa. Anche questo potrebbe essere un movente plausibile, ma il problema è sempre lo stesso: Saverio non corrisponde alle caratteristiche dell’assassino. Si, ma questa volta c’è qualcosa di diverso: tra i figli di Saverio ve n’è uno, Stanislao, che alla Pubblica Sicurezza è noto come tipo impulsivo a sfondo criminale e facilmente suscettibile, anche per le sue minorate condizioni psichiche, a subire le istigazioni altrui e anche le caratteristiche fisiche sembrano corrispondere.
In Questura si convincono che Stanislao, Stanuzzu, Spadafora sia l’assassino di don Peppino Giordano e che alla consumazione del delitto costui si fosse indotto per le istigazioni sia del di lui padre, sia dei cugini Giuseppe e Pasquale Spadafora e dello zio Antonio, coi quali egli aveva anche avuto insoliti e frequenti contatti nel periodo immediatamente precedente il delitto.
Il Maresciallo Pelaia con i suoi uomini va ad arrestare padre e figlio nella casa di famiglia a Timpone degli Ulivi, ma non li trovano.
– Sono al mulino… – dice, titubante, la moglie di Saverio Spadafora.
– Quale mulino?
– Non lo so…
In attesa di avere notizie più precise, Pelaia comincia a perquisire minuziosamente l’abitazione e quando entra nella camera di Stanuzzu, il fratello di questi, Antonio, si siede sul letto e cerca in tutti i modi di evitare che i Carabinieri spostino il materasso.
– No, il letto no… sotto il materasso ci sono i panni sudici delle donne di casa… è vergogna…
Due Carabinieri lo spostano di peso ed ecco la sorpresa, una pistola Alharca calibro 7,65 dal cui caricatore a sei colpi mancano tre bossoli. Tre bossoli come i bossoli repertati sul luogo del delitto e, se non bastasse, dello stesso calibro e della stessa marca di quelli sequestrati.
– E questa cos’è? – chiede, ironicamente, Pelaia ad Antonio – Dove sono le tre cartucce che mancano?
Non sapevo che fosse lì… ci ha sparato qualche giorno fa un nostro parente al tiro al bersaglio…
– E chi sarebbe questo parente?
– Non ricordo…
Pelaia annusa la pistola per capire se davvero ha sparato di recente e sgrana gli occhi: la pistola odora di sapone! Che bisogno c’era di lavarla se non si ha niente da nascondere? In questo frattempo un Carabiniere trova in un armadio un cappello a tesa di colore scuro e un cappotto scuro, consimili a quelli stessi che erano stati visti addosso all’assassino mentre scappava.
Intanto rientrano Saverio e Stanuzzu, che vengono arrestati. Il giovane a lungo ed ostinatamente nega di sapere che la pistola era nascosta sotto il suo materasso, ma il padre ammette di conoscere l’esistenza in casa della pistola e aggiunge che anche Stanuzzu e gli altri figli ne erano a conoscenza. Guai molto seri.
Dopo molti interrogatori Stanuzzu ammette di sapere della pistola e si giustifica dicendo di avere mentito perché l’arma non è dichiarata, ma suo padre lo smentisce di nuovo: l’arma è detenuta legalmente. Il giovane prima nega che suo padre avesse debiti verso il Giordano e che nulla avesse a che vedere col fallimento della ditta di Antonio Spadafora, poi ritratta e ammette queste circostanze; ammette anche che il cugino Giuseppe lo aveva sempre “assicurato che si sarebbero venduti prima i beni di lui e del fratello Pasquale e poscia quelli del padre suo Saverio”. Inoltre, conferma di essere a conoscenza che i cugini avevano ottenuto un concordato mercé la fidejussione del Banco Commerciale di Calabria, mentre suo padre non aveva potuto ottenerlo per mancanza di un fideiussore e che aveva inutilmente chiesto la garanzia a Giordano per due volte. Dice di essere stato buon amico di don Peppino il quale, ogni volta che si incontravano, gli offriva il caffè, ma di non avere accettato l’invito proprio il giorno dell’omicidio. Nega di essere stato a Cosenza il pomeriggio del delitto e ammette di esserci stato il giorno prima per fare visita a suo cugino Giuseppe, ammalato a letto. Il cappello e il cappotto?
Non li ho mai indossati
Ma anche in questo caso viene smentito sia da suo padre il quale sostiene che gli indumenti li indossava, che da un testimone, Carmine Mirabelli, il quale giura di averlo visto scendere a Cosenza nel pomeriggio del delitto con addosso il cappello ed il cappotto. Un altro pesante indizio a suo carico, secondo gli inquirenti, è il fatto che suo cugino Giuseppe, dopo averlo denunciato per il furto di un fucile ritirò la querela meno di un mese prima del delitto.
Le indagini accertano che nei giorni immediatamente precedenti al delitto, Stanuzzu si recò quasi ogni giorno a casa del cugino ammalato, addirittura un paio di ore prima dell’omicidio e adesso nessuno ha più dubbi.
Per il Giudice Istruttore il cerchio è chiuso e, il 29 luglio 1932 emette la sentenza di rinvio a giudizio nei confronti di Stanislao Spadafora con l’accusa di omicidio premeditato e di Antonio, Giuseppe e Pasquale Spadafora con l’accusa di concorso in omicidio premeditato per avere determinato lo Stanislao a commetterlo. Saverio Spadafora viene prosciolto per insufficienza di prove.
Il giudizio, dopo essere stato più volte fissato ed anche parzialmente celebrato, subisce vari rinvii per sopraggiunti impedimenti legittimi delle parti, si tiene a partire dal 9 febbraio 1935.
La difesa sostiene la tesi che gli Spadafora non avevano alcun motivo per volere la morte di don Peppino Giordano perché, seppure ebbero mai alcun astio contro di lui prima della sua adesione al concordato, venne in seguito a mancarne ogni motivo per il fallimento della banca.
No, ribatte l’accusa, i motivi, se anche irragionevoli ed infondati, non mancarono e, d’altra parte, quel che conta non è il motivo o il fatto in sé, ma l’idea che se ne fanno coloro che il vento delle passioni mulina e travolge. Ed in questo ambiente di odio che non si placa, vive anche Stanislao Spadafora, il quale ne resta avvelenato tanto più facilmente in quanto non solo egli è un tipo psichicamente minorato, come risulta dalle informazioni della Questura nonché dalle dichiarazioni di molte persone dabbene che l’ebbero al loro servizio, ma la sua anima ha avuto l’occasione di assorbire in maniera più grave e diretta anche nella casa paterna l’avversione che suo padre aveva, indubbiamente, pure esso contro il povero Giordano, sia per la comunanza di interessi col fratello Antonio ed i nipoti Giuseppe e Pasquale nella vicenda fallimentare, sia per la quistione della casa in Timpone degli Ulivi.
Da tale assunto deriva che al rafforzamento della risoluzione criminosa di Stanislao abbia contribuito l’opera cosciente di qualcuno del gruppo familiare.
Secondo la Corte la posizione di Stanislao Spadafora è netta e chiara, ma la prova sicura e tranquillante dell’opera fatta per rafforzare la sua determinazione ad uccidere non può ritenersi pienamente raggiunta nei confronti di Antonio e Pasquale Spadafora perché l’ipotesi di un mandato multiplo appare poco verosimile: per quanto sia rimasto provato che nell’animo di tutti i pretesi mandanti urgessero ragioni comuni di bieca inimicizia contro il Giordano, sembra tuttavia difficile ammettere che nessuno di essi, neppure il vecchio Antonio, sia insorto a fermare gli altri quando si trattò in concreto di concertare la strage di un uomo colla voce della pietà o anche soltanto del timore che il delitto avrebbe travolto tutti nel baratro. Nemmeno l’odio e le minacce si possono ritenere necessariamente legati alla produzione dell’evento.
Diversa, secondo la Corte, è la posizione di Giuseppe. Non c’è dubbio che abbia partecipato al delitto, pur ritenendo che l’opera da lui prestata abbia avuto minima importanza nella preparazione ed esecuzione del delitto stesso. È Giuseppe il maggiore danneggiato dal fallimento, è Giuseppe che ha continui e frequenti contatti con suo cugino Stanislao, è Giuseppe che meno di un mese prima del delitto, stranamente, ritira la querela contro Stanislao, è Giuseppe che appena due ore prima del delitto riceve in casa Stanislao.
Per la Corte, i responsabili dell’omicidio di Giuseppe Giordano sono Stanislao e Giuseppe Spadafora al quale va concessa l’attenuante della partecipazione non necessaria. Ma, dicono i giudici, i due imputati al momento del fatto avevano la capacità di intendere e volere grandemente scemata, se non abolita, a causa delle minorate condizioni psichiche di entrambi e quindi ad entrambi spetta la diminuente del vizio parziale di mente.
Stanislao Spadafora viene condannato, esclusa la premeditazione e con l’attenuante del vizio parziale di mente, a 18 anni di reclusione, più pene accessorie.
Giuseppe Spadafora viene condannato, con le attenuanti che l’opera prestata ha avuto minima importanza nella preparazione del reato e del vizio parziale di mente, a 10 anni di reclusione.
Ad entrambi vengono applicati due Regi Decreti di amnistia e indulto (R.D.  5/11/1932 e R.D. 25/9/1934). Stanislao gode complessivamente di 7 anni di condono e la sua pena scende così a 11 anni di reclusione; Giuseppe gode complessivamente di 5 anni di condono e la sua pena scende a 5 anni di reclusione.
Entrambi, considerate le loro condizioni psichiche, dovranno essere ricoverati per un tempo non inferiore a tre anni in una casa di cure per malattie mentali.
Gli altri due imputati vengono assolti per insufficienza di prove.
Non sono segnalati ricorsi in Appello o per Cassazione.[1]


[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.

 

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