L’ULTIMO GRIDO DI ACCUSA

È il 23 aprile 1939. Come ogni sera, il ventinovenne contadino Pietro Laerte va dalla sua abitazione in contrada Loreto di Falconara Albanese alla stalla di contrada Vignale, a circa due km di cammino, per governare i propri bovini e mungere una vacca. Quando sua moglie, Maria Svevo, prima di andare a letto non lo vede tornare non si preoccupa più di tanto, è già accaduto altre volte che Pietro dormisse nella stalla. Maria la mattina seguente si alza, osserva la parte del letto nella quale dorme suo marito, intatta, e guarda fuori dalla finestra, rallegrandosi perché sarà un’altra bella giornata di sole. Poi apre la porta di casa e vede, posati davanti alla porta, il secchio pieno di latte e la scure di Pietro.
– Pietro! Pietro! – nessuna risposta. Gira intorno alla casa e non lo trova; non è nemmeno nell’orto e non risponde ai suoi sempre più preoccupati richiami. “Sarà andato in paese… lo raggiungerò lì” pensa, avviandosi verso Falconara. Ma Pietro non è nemmeno in paese e nessuno lo ha ancora visto. Incontra due vecchi amici di famiglia, racconta loro la sua preoccupazione e li prega di andare ad avvisare il podestà, Alberto Pellegrino, il quale ritiene opportuno informare i Carabinieri.
Le ricerche vanno avanti per tutta la giornata e per tutta la notte seguente senza che si riesca a trovare traccia dello scomparso. I Carabinieri, essendo risultato che il Laerte fosse un giovane serio, mite, laborioso, che non aveva mai dato luogo a contrasti o risentimenti tali da giustificare l’ipotesi sinistra di una soppressione, né che avesse motivi di amarezza o di sconforto tali da giustificare la supposizione di un suicidio, sospettano che durante il notturno tragitto, in una contrada aspra e impervia, gli fosse accaduto qualche mortale accidente e controllano attentamente ogni anfratto e ogni dirupo presente lungo la strada che è necessario percorrere per andare da Loreto a Vignale: niente di niente, Pietro non c’è e questa rappresenta comunque una buona notizia. I Carabinieri si prendono la briga di andare a ispezionare la fossa comune del cimitero, nel caso qualcuno lo avesse ucciso e ne avesse occultato il cadavere nel posto forse meno ipotizzabile, ma lì dentro ci sono solo delle ossa ammucchiate. L’ultima ipotesi che resta è quella di un allontanamento volontario per qualche ignorato motivo, ma questa è una ipotesi che non può essere verificata e le ricerche si fermano.
La preoccupazione di Maria, però, è altissima e, pensa che ti ripensa, le vengono in mente un paio di cose che ritiene importanti per cercare di ritrovare suo marito e le va a raccontare al podestà:
– Se Pietro viene trovato morto, autore del delitto deve essere Giuseppe Naccarato.
– È un’accusa grave, cosa te lo fa credere?
– Per due motivi… il primo è che da quasi un anno sono fatta segno alla assiduità persistente del Naccarato, che senza esprimermi i suoi sentimenti o farmi proposte, cerca di avvicinarmi, seguirmi, parlarmi, tanto che ne informai Pietro il quale, un mattino in cui Naccarato passava davanti alla nostra casa, lo diffidò a non permettersi più di fermarsi lì dinanzi e a non disturbarmi oltre
– E il secondo? – Ecco… il 9 aprile scorso, Naccarato, con una premura assai sospetta, avvertì Pietro di non rincasare tardi perché l’avrebbero potuto ammazzare, esortando nello stesso giorno anche me e mia madre di insistere presso Pietro che si guardasse dalle minacce di morte aggravantisi sul suo capo, senza dare chiarimenti e spiegazioni circa i motivi che lo spingevano a dare quell’avvertimento
Il podestà racconta tutto ai Carabinieri di San Lucido, competenti per territorio, i quali, andando a casa di Giuseppe Naccarato che è sulla strada solitamente percorsa da Pietro, eseguono un sopralluogo nella zona e questa volta fanno caso che, a breve distanza l’una dall’altra ci sono quattro abitazioni, tre lungo la strada e una un po’ più internata. Chiacchierando con il proprietario della prima casa che incontrano lungo il tragitto dalla stalla a Loreto, Angelo Chiappetta, questi racconta che la sera della scomparsa, Pietro si era fermato a parlare con lui verso le 20,00. Allora la scomparsa di Pietro Laerte deve essere avvenuta in quei paraggi e i sospetti di Maria acquistano più forza. I Carabinieri pongono in stato di fermo Giuseppe Naccarato e perquisiscono la sua abitazione, senza però trovare nulla di interessante. Ma c’è di più: il podestà crede che Maria sappia più di quello che gli ha raccontato e, secondo le sue prerogative, la trattiene in stato di fermo, affidandola poi ai Carabinieri.
Le indagini però non consentono di acquisire prove o almeno indizi sufficienti a trattenere i due, che sono rimessi in libertà nel giro di poche ore e l’ipotesi più accreditata resta quella dell’allontanamento volontario.
Passa quasi un mese, poi al podestà si presenta la guardia campestre Raffaele Valente che gli riferisce le confidenze fattegli dagli abitanti delle altre due case vicine a quella di Naccarato: verso le 20,30 del 23 aprile 1939 hanno sentito un colpo di fucile e una voce, riconosciuta per quella di Pietro Laerte che diceva: “Peppino, che mi hai fatto… che mi hai fatto… Peppino Cozzolino, mi hai ammazzato… zio Vincenzo… zio Vincenzo…”. Ora, siccome il soprannome affibbiato a Giuseppe Naccarato è Cozzolino, è chiaro che Naccarato ha ucciso Pietro Laerte. Ma il cadavere dov’è?
Naccarato nega, nega anche quando viene messo a confronto con i suoi accusatori. Poi, all’improvviso, dice al Pretore che lo interroga:
Se mi portate a casa mia vi farò le mie rivelazioni per iscritto
Il Pretore acconsente e Giuseppe, guardato a vista da due Carabinieri, si mette a scrivere un lungo memoriale nel quale confessa di avere ucciso Pietro con una fucilata, ma di non averlo fatto per un suo particolare interesse, bensì per istigazione di Maria Svevo che odiava il marito a causa di una violenta scena che era avvenuta fra loro nel maggio del 1938, in cui ella era stata percossa a sangue, tanto che vi era stato bisogno dell’intervento del medico.
Ha approfittato di un mio particolare stato di ubriachezza per il vino che mi aveva fatto ingerire… – si giustifica e continua ad accusare – mi ha fornito l’arma e ha presenziato all’assassinio nascosta tra i cespugli
– E il cadavere? – gli chiede il Maresciallo.
Lo ha fatto scomparire lei o nascondendolo in qualche burrone o buttandolo a mare o trasportandolo al vicino cimitero
Il Maresciallo è molto scettico sulla veridicità di queste affermazioni in ispecie per quanto concerne il motivo ad uccidere e l’asserita sua ignoranza sulla sorte toccata al cadavere e insiste:
– Naccarato, tu hai sparato e lei era con te, è impossibile che tu non sappia dove è il cadavere! Parla!
– È nel cimitero… guardate nell’ossario…
– Menti! Ci abbiamo già guardato e non c’è niente!
– Guardate nell’ossario, vi dico!
Per scrupolo i militari vanno a guardare di nuovo e, tolte le tavole che coprono la chiusura, nell’incuria nella quale quel cimitero è tenuto, scorgono una scarpa che indica la presenza dei resti di un cadavere che è stato di recente buttato. Ad uno ad uno tirano fuori l’arto inferiore destro quasi intatto, l’arto inferiore sinistro completamente privo dei tessuti molli, il bacino, la parte superiore della colonna vertebrale con poche costole, di cui alcune staccate, una scapola, gli omeri e il teschio privo della sostanza cerebrale e mancante della parte anteriore. Tutti i resti sono anneriti, ustionati e in parte carbonizzati. Che quei poveri resti appartengano a Pietro Laerte lo confermano i brandelli di pantalone che ancora coprono la gamba destra, lo stesso pantalone che indossava la sera della scomparsa. La perizia che viene immediatamente ordinata ed eseguita, certifica che il corpo del povero Pietro è stato esposto all’azione prolungata del fuoco che ha distrutto gli organi interni, quasi tutti i tessuti molli e parte dello scheletro. Non è possibile determinare la causa della morte, ma il perito evidenzia un avvallamento osseo nella regione occipitale sinistra cagionata indubbiamente da colpo di un corpo compatto e pesante che, se inferto in vita, bastava da solo a determinare la morte. Il terriccio attaccato a quei resti dimostra che, dopo la combustione, ciò che restava del cadavere fu sotterrato.
Nonostante i forti dubbi sulla confessione di Giuseppe Naccarato, Maria Svevo viene di nuovo arrestata e l’assassino aggiunge particolari a particolari nel sadico desiderio di perdere la donna insieme a lui:
Siamo diventati amanti circa tre anni fa… i suoi due ultimi figli li ha fatti con me… mia moglie è a conoscenza della tresca e, buona e malata qual è, la tolleravain seguito alle violenze subite dal marito, più volte, per vendicarsi, mi ha proposto di ucciderlo, ma non lo avrei fatto – racconta cambiando versione – se un paio di mesi prima Francesco Frangella non mi avesse confidato che Pietro, sospettando della nostra tresca, aveva espresso il proposito di sopprimerci entrambi se ci avesse scoperti in flagrante. Fu allora che decisi di ucciderlo e per dissimulare tale proposito detti quell’avvertimento a Maria, a sua madre e a Pietro stesso
– Come è andata quella sera?
– Avevo studiato i suoi orari e quella sera mi sono armato del mio fucile a due canne e mi sono appostato a 150 metri da casa mia e ad otto metri dal viottolo che Pietro doveva percorrere. Lui veniva verso di me con un secchio in mano e la scure sul braccio; mi vide e mi chiese se stessi venendo dal paese ed io, nel rispondergli negativamente, spianai senz’altro l’arma e gli sparai un colpo. Fu allora che Pietro cadde gridando… allora gli saltai addosso per spegnergli l’ultimo grido di accusa e di soccorso e gli assestai con la doppia canna del fucile alcuni colpi alla testa che lo finirono
– E poi?
Nascosi il cadavere in una siepe, corsi a casa a deporvi l’arma e a prendere una caraffa di petrolio che avevo comprato qualche giorno prima e, tornato sul posto dopo avere informato mia moglie dell’opera compiuta, trascinai il cadavere una ventina di metri più su, lo cosparsi di petrolio e appiccai il fuoco facendolo ardere, ma siccome alcune parti del corpo resistevano alle fiamme, con la scure di Pietro lo feci a pezzi, lo misi in un sacco e lo portai al cimitero buttandolo nell’ossario
– Quindi Maria non c’era…
– No, però è stata lei ad istigarmi… aggiungo che io ce l’avevo con Pietro anche perché continuamente veniva a rubarmi qualcosa…
La moglie di Giuseppe conferma che le raccontò tutto, ma dice di essere stata costretta al silenzio, pena la vita. Francesco Frangella, da parte sua, conferma di avere raccontato a Giuseppe il proposito omicida di Pietro ma c’è sempre qualcosa che non quadra. Non può avere fatto tutto nella notte dell’omicidio perché tre giorni dopo le ossa ancora non erano state buttate nella fossa comune. Questo a Pietro sembra non interessare, ormai ha confessato e se le ossa sono state buttate prima o dopo non importa. A lui importa, piuttosto, trascinare con sé all’inferno Maria e si concentra su questo:
L’illecita relazione è cominciata il 9 dicembre 1936, giorno in cui, scendendo dall’abitazione di mio cognato che, all’epoca abitava sopra la casa di Pietro e Maria, quest’ultima, che mi attendeva sulla porta, mi afferrò per la giacca e mi tirò dentro, dove si è data a me. La relazione carnale è durata sino al 5 luglio 1938, avendo io avuto notizia dei sospetti e delle cattive intenzioni di Pietro. Ma abbiamo continuato a vederci e l’ultima istigazione l’ho ricevuta verso la Pasqua di quest’anno
Poi ritratta tutto ciò che ha detto finora e fornisce una nuova versione: le relazioni carnali con Maria sono false; falsi, quindi, i sospetti e le minacce di Pietro il quale, nella sera del delitto, era penetrato nel suo pianterreno dove sua moglie, ammalata, si riscaldava al focolare, mentre lui se ne stava al piano di sopra.
Ho sentito che chiedeva a mia moglie dove fossi, mi sono armato di fucile e sono sceso e, trovatomi al cospetto di Pietro che imbandiva la scure e voleva colpirmi, iniziai con lui una colluttazione nella quale riportai graffiature al viso e alle mani, poi, divincolatomi, gli sparai un colpo uccidendolo. Dopo, avvilito, tornai al piano superiore e poco dopo sentii un forte odore di bruciato che proveniva da giù, accorsi e trovai il cadavere di Pietro quasi carbonizzato dalla brace del focolare. Mi sorse allora il proposito di nascondere nella stessa notte i resti dell’ucciso nell’ossario del cimitero
– Questo è falso e te lo abbiamo già contestato… i resti di Pietro li hai buttati dopo qualche giorno.
Li ho nascosti nel vano terreno dietro certe pietre
– Naccarato, anche questo è falso, i Carabinieri li avrebbero trovati quando hanno eseguito la perquisizione!
A questo punto è chiaro che Giuseppe, forse consigliato, sta tentando di diminuire le proprie responsabilità facendo intravedere qualcosa di simile alla legittima difesa: Pietro entra in casa e vuole aggredirlo con la scure, Giuseppe si difende e lo ammazza, poi ne distrugge il corpo. Sotto questa nuova luce, anche le accuse contro Maria cominciano a perdere consistenza: le pretese rivelazioni del Naccarato su gli incitamenti della Svevo, avvalorati dalla perfida calunnia delle sue relazioni carnali con la donna, alla quale avrebbe fatti procreare perfino gli ultimi due figli, erano fandonie create dal colpevole per attenuare, se non per discriminare l’orrendo delitto commesso e per trascinare nel baratro della sua responsabilità la donna della quale lui si era invaghito e di non altro colpevole che di avergli accordato, talvolta, un po’ di confidenza.
È questa la conclusione a cui arriva il Giudice Istruttore nella sentenza di rinvio a giudizio e Maria, dopo sette mesi d’immeritata prigionia, viene prosciolta da tutte le accuse. A rispondere dell’orrendo delitto davanti alla Corte s’Assise di Cosenza sarà solo Giuseppe Naccarato. Omicidio qualificato per premeditazione e per motivi abietti.
Il dibattimento comincia il 21 giugno 1940 e la Corte rigetta subito la richiesta della difesa di sottoporre l’imputato a perizia psichiatrica.
Tutto il suo piano costruito è caduto di fronte ad una domanda del Presidente: “Come mai, se aveva ucciso il Laerte per difendersi nell’interno del vano terreno, le grida del povero ferito, che egli per il primo ammette e ribadisce, erano state udite in quella sera dai testi abitanti nelle due case, che pure erano alquanto discoste da quella dell’uccisore?”.
Il Naccarato, comprendendo l’importanza della domanda ha creduto, con una risorsa del suo spirito inventivo, di spiegare tutto dicendo che il Laerte era andato a cadere innanzi la porta che era aperta e con ciò, si è contraddetto con l’altro assunto che l’ucciso era caduto presso il focolare, allo scopo di spiegare come fosse rimasto ustionato. Contestatogli che la porta si trova dalla parte opposta a quella delle case dei vicini e quindi le grida non potevano giungere sino ad essi, il Naccarato non ha potuto dare altra risposta, ammutolendo nella sua confusione.
Quindi un mendacio per insinuare una legittima difesa che non esiste, mentre vero è quello che egli attese il Laerte al suo consueto ritorno dalla stalla, proditoriamente gli sparò il colpo a breve distanza e per spegnere la voce della vittima che lo denunziava alla notte illume ma auricona, gli fu sopra e lo finì coi colpi delle canne, a dimostrazione che come conseguenza della propria azione egli volle la morte dello sventurato Laerte. Comprò, qualche giorno prima anche il petrolio per bruciare il cadavere e il preordinato tentativo di cremazione ebbe luogo nel locale terreno della sua casa, dove vi era una specie di forgia e lì cercò di compiere la macabra operazione, senza riuscire a distruggere interamente il corpo del nemico, per cui occorse depezzare i resti dell’ucciso e di nasconderlo sotto terra in luogo più o meno vicino alla casa. Di questo la Corte è convinta perché in casa altro non gli occorreva che il silenzio della moglie infermiccia che, sventurata, sentiva e tremava nel suo letto al piano superiore.
Manca solo di determinare il movente per compiere questo orrore. Naccarato si atteggiava a conquistatore irresistibile di donne, tuttavia Maria Svevo gli resisteva nonostante che da una parte non ne disdegnasse le premurose attenzioni e dall’altra ne sconfortasse le disoneste speranze. Ciò non deve meravigliare, secondo i Giudici, perché la donna, quando un alto sentimento di dignità e di decoro non ne corregge le naturali inclinazioni, vuol sempre dissimulare la propria vanità, la sua frivolezza o il suo impuro desiderio sotto un’apparenza di disdegno e di fierezza, che preventivamente o posteriormente le serve per invocare a propria giustificazione di fronte a coloro i quali deve dar conto di sé. Or, con questa condotta della donna, che non ebbe nulla di peccaminoso e che fu solo corrispondente all’intima natura femminile, esasperò l’idea del possesso nel Naccarato e incominciò a formarsi l’idea che, siccome la Svevo pur respingendolo non lo disdegnava, sarebbe bastato che le fosse soppresso il marito per poterla ottenere. Insomma, quasi quasi la colpa di tutto è di Maria.
Ogni atto, in questo processo, attesta la perversità e la pericolosità del delinquente e non c’è più via di scampo per Giuseppe Naccarato, che non ha mai pronunciato una parola di pentimento per il crimine commesso e non ha mai pronunciato una parola di pentimento nemmeno per le accuse infami, non una ritrattazione esplicita, clamorosa, come esplicita e clamorosa era stata l’offesa nei confronti di Maria Svevo.
La Corte d’Assise di Cosenza dichiara Giuseppe Naccarato colpevole di omicidio con le aggravanti della premeditazione e dei motivi abietti, nonché di distruzione e soppressione di cadavere e di porto abusivo di fucile. La pena è quella dell’ergastolo con l’isolamento diurno per due anni e pene accessorie. Inoltre ordina la pubblicazione della sentenza per estratto sui giornali “Calabria Fascista” e “Messaggero” e per affissione nei comuni di Cosenza e di Falconara Albanese. È il 22 giugno 1940 e l’Italia è in guerra da dieci giorni.
Non risultano ricorsi né in Appello, né per Cassazione.[1]

 

[1] ASCZ,
Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.

 

Lascia il primo commento

Lascia un commento