LE LAME DI DON LUIGI PENNINO

A Lungo Crati c’è un ristorante, “Lungo Crati” appunto, che fa angolo col vicolo dei Casciari, dove la gente, oltre che mangiare, ci va per passare il tempo bevendo qualcosa in compagnia.
Anche la sera del 30 maggio 1926 c’è una combriccola di amici che si diverte facendo una passatella a caffè e liquore Strega.
Altri clienti se ne stanno per conto loro a chiacchierare, uno è seduto da solo al bancone in attesa che il gestore del locale gli porti qualcosa da mangiare. 
– Una Strega la do a Paolino – fa Giuseppe Carbone, che nel gioco è uscito sotto.
– Paolino mi sta bene – gli risponde Vincenzo Piscopo, il Napoletano, che è uscito padrone.
In questo frattempo Luigi Cozza si accorge che Antonio De Rose, conosciuto come Totonnu ‘u merciauiolu, sta facendo dei cenni al Napoletano per far si che questi lo lasciasse all’umbra.
– E finiscila Totò, fatti i cazzi tuoi e gioca!
– Fatteli tu!
– Mò ti prendo a schiaffi Totò – insiste Luigi.
– Andiamo fuori e fammi vedere come mi prendi a schiaffi – replica De Rose, mettendo una mano in tasca come a voler estrarre un’arma.
Giuseppe Carbone, infastidito dalla discussione, si intromette per pacificare gli animi:
– Nessuno deve uscire fuori, siamo venuti per divertirci e non per litigare! – e sembra che le sue parole abbiano fatto effetto.
Ma nessuno fa caso a quell’uomo seduto da solo al bancone. Lui le parole di Giuseppe Carbone le prende molto male. Si alza con fare spavaldo e gli si piazza davanti a gambe divaricate e le mani nelle tasche della giacca:
– E chi sei tu che impedisci alla gente di uscire?
– Io sono un cristiano come te…
– No, tu sei una merda! – replica l’uomo, che fulmineamente estrae un rasoio e taglia la faccia a Carbone.
Si scatena un parapiglia, Carbone fa per avventarsi sull’uomo ma viene trattenuto da Antonio De Rose. Vede la lama del rasoio avventarsi di nuovo sulla sua faccia ma, con uno sforzo disperato si divincola e, nonostante sanguini copiosamente, riesce a estrarre la sua rivoltella e a sparare sull’uomo che, con un balzo salta il bancone e si rifugia in cucina. Qui fa cenno al gestore del locale di starsene zitto e, indisturbato, se ne va dalla porta di servizio, nel vicolo dei Casciari.
L’uomo è Luigi Pennino, 29 anni, ai vertici della malavita cittadina e di lui si perdono le tracce.
Una pattuglia di Carabinieri, attirata dal colpo di pistola, interviene sul posto e porta tutti i presenti in caserma per interrogarli. Qui, Giuseppe Carbone, tornato dall’ospedale dove gli hanno ricucito il taglio di una decina di centimetri, la cui cicatrice gli resterà per tutta la vita, denuncia sia Pennino che Totonno ‘u merciaiuoluPennino, che ha combinato quella cazzata per affermare il suo potere, si è rifugiato in un cantiere edile lungo la strada che porta a Mendicino e vuole uscirne indenne. Avvertito di come si stanno evolvendo le cose, manda a chiamare De Rose e gli fa un bel discorsetto:
– Totò, tu ti devi accusare della cosa. Abbiamo i testimoni che diranno come Carbone ti ha aggredito con la rivoltella e tu per legittima difesa lo hai ferito e io sono intervenuto per difenderti.
Giggì, ma chi cunti? Io non me la posso prendere questa responsabilità – obietta.
– Totò, stai tranquillo, pensiamo noi all’avvocato e ad aiutare la tua famiglia. È tutto a posto. In quattro e quattr’otto siamo fuori tutti e due. Totò, un fare ‘u fissa… abbiamo già parlato con l’avvocato…
– Quand’è così… va bene… ci sto.
– Oh!  Tu si ca si ‘nu cristianu! – fa Pennino, tirando un sospiro di sollievo.
De Rose torna a Cosenza, ma invece di andarsene a casa e prepararsi a dichiararsi colpevole del ferimento, va dall’avvocato a chiedere come deve comportarsi davanti ai Carabinieri e qui ha una brutta sorpresa:
– Ma quando mai! – esclama l’avvocato – qui non è venuto nessuno a farmi questa proposta! – qui è venuto Luigi Scaglione a dirmi che ti saresti costituito e che mi avresti nominato come difensore…
– Ah! Così è la cosa? Ho capito tutto… stativi bbuanu, avucà!
È chiaro che hanno tentato di incastrarlo. Una volta accusatosi del delitto, lo avrebbero lasciato al suo destino. Ovviamente, Totonno non va dai Carabinieri per accusarsi del ferimento.
Ma Pennino non molla. Il giorno successivo quattro picciotti lo vanno a trovare a casa:
– Totò, com’è che non ti sei presentato dai Carabinieri? Non li rispetti i patti? Totò, Gigginu ha dittu ca si fa ‘u fissa… – è la velata minaccia.
Jativinni, un fazzu ‘u fissa, voi, piuttosto, mi volevate fare fesso e non mi presento né mò e né mai!
Le cose per Pennino si stanno mettendo davvero male, sa che non può restare latitante a lungo e così decide di costituirsi, ma, Totonno o non Totonno, darà la sua versione dei fatti, avvalorata dalle false testimonianze dei suoi compari. Pensa davvero di cavarsela?
I Carabinieri, confortati da varie testimonianze, ovviamente non gli credono e non gli crede nemmeno il giudice che lo rinvia a giudizio.
Gli danno 3 anni e 6 mesi, più 2 anni di vigilanza speciale. Fa ricorso in appello e tira un mezzo sospiro di sollievo: 1 anno e nove mesi e senza vigilanza speciale. Ma vuole di più: fa ricorso in Cassazione: ricorso respinto.[1]
Luigi, dopo la galera per lo sfregio sul viso di Carbone, verso la fine del 1930 torna un’altra volta in galera, un altro paio di anni da scontare con l’accusa di associazione per delinquere. Ma questa volta in galera ci torna da capo riconosciuto della malavita cittadina. Uscito, sarà sottoposto anche alla vigilanza speciale. Adesso per tutti è don Luigi [cfr. Francesco Caravetta, Guagliuni i mala vita, Pellegrini 2012. Nda]
È il pomeriggio del 2 aprile 1935, don Luigi incontra i suoi compari Albino Montera, Giovanni Del Buono, Michele Montera, Francesco Parise e Luigi Palermo, da poco affiliato.
Jamu ara Riforma ca ni facimu ‘na jocata ari bocce e pù ni facimu ‘nu patrune e sutta – propone don Luigi, aspirando una boccata di fumo dalla sigaretta inserita nel bocchino dorato.
Quale posta del giuoco fu stabilita una quantità di vino, chini perda paga, che servirà per fare il gioco del padrone e sotto. I compari giocano tre partite a bocce e quindi devono essere fatte tre mani di padrone e sotto. Nelle due prime mani, padrone del vino esce don Luigi il quale, da buon capo, ha cura di far bere tutti, mentre nell’ultima mano don Luigi viene lasciato all’umbra, cioè a bocca asciutta, da Albino Montera e Luigi Palermo, usciti padrone e sotto.
Don Luigi si sente offeso e non le manda a dire:
Albì, si nu mmerda!
Compà Luì, stamu jocannu… ‘un ti ‘cazzà!
Vafanculu! – dice don Luigi che abbandona il luogo.
Albino Montera e Luigi Palermo dicono qualcosa tra di loro, poi seguono il capo che, con la coda dell’occhio li vede, si ferma, si gira, si avvicina ai due e dice loro:
Veniti ccu mmia c’ham’i parrà… e vi dicu ca si minni vaju, minni vaju picchì minni vuagliu jire, no picchì mi signu ‘ncazzatu! – poi prende Montera sotto braccio e si dirigono verso il gasometro, seguiti a breve distanza da Luigi Palermo e dagli altri, discutendo a bassa voce, ma in modo che alcuni passanti hanno la precisa sensazione che la discussione piegava al dramma.
Nel momento in cui la discussione fra don Luigi e Albino si fa minacciosa, Luigi Palermo si distacca dagli altri, si avvicina alle spalle del boss, estrae dalla tasca un coltello e gli tira un colpo al collo ferendolo leggermente. Don Luigi emette un grido di dolore e si gira mentre Palermo gli vibra una seconda coltellata all’altezza del petto. Forse l’emozione del novellino gli fa tremare la mano e la coltellata riesce solo a bucare la giacca del capo che, ripresosi dalla sorpresa, estrae a sua volta un lungo ed acuminato coltello e vibra al Palermo un tremendo colpo all’altezza del fegato. Palermo, da parte sua, sebbene ferito, non ha perduta né diminuita la sua combattività e cerca di reagire ma don Luigi lo prende a calci e lo costringe ad allontanarsi mentre, da esperto tiratore di coltello,  gli lancia con satanica gioia la frase:
Tu scappi, ma io ti ho ammazzato!
I Carabinieri vengono avvisati subito e nel giro di qualche ora arrestano tutti i partecipanti alla partita di bocce, mentre Palermo viene portato in ospedale dove i medici gli riscontrano una lesione al fegato che ha determinato una imponente emorragia con pericolo di vita, per cui si rende necessaria la laparatomia per suturare lo squarcio, ma malgrado l’intervento chirurgico col quale si è scongiurato l’incombente pericolo di vita, quattro giorni dopo Palermo muore, a cagione di bronco-polmonite traumatica in conseguenza della cloroformizzazione cui fu sottoposto ed alla quale i suoi organi respiratori non adeguatamente reagirono.
Adesso l’accusa non è più di lesioni volontarie, ma di omicidio volontario.
– Non posso negare di averlo colpito… l’ho colpito con un calzatoio… – si difende don Luigi – ma l’ho fatto perché mi sono trovato in istato di legittima difesa – continua mostrando il taglietto sul collo e la giacca bucata.
– Un calzatoio? Non fatemi ridere! L’autopsia dice che per causare quella ferita è stato usato un coltello lungo e acuminato.
– Va bene eccellenza… era un coltellino…
– E dove sarebbe adesso questo coltellino?
– L’ho buttato e non mi ricordo dove… ma lo potete cercare, non mi sono allontanato di molto – dice sorridendo sotto i baffi – e poi… e poi Palermo non era da solo, anche Montera Albino mi ha aggredito perché loro due avevano deciso di sopprimermi perché non vedevano di buon occhio che, uscito dal carcere, mi sia ritirato a vita privata – termina con un’espressione da angioletto.
– Vita privata! Pennino, c’è scappato il morto e c’è poco da fare lo spiritoso, lo sappiamo bene che Montera non ha fatto niente e che semmai siete stato voi a chiedergli spiegazioni! E sappiamo anche bene che il coltello del capo della malavita non lo troveremo mai! Adesso sparite… Guardia! Guardia! Riportatelo in cella!
Il Giudice Istruttore, ovviamente, non gli può credere e, nel rinviarlo a giudizio, scrive: tra il Pennino e il Palermo non corse alcuna sfida. Pennino, invero, ben poteva rendere inoffensivo l’inabile avversario senz’uopo di far uso del lungo coltello di cui andava armato, bastando allontanare a calci il nemico, così come ebbe a fare e con successo, dopo averlo ferito. Quantomeno, esso Palermo, esperto tiratore di coltello e tale da essere assunto a temuto capo della malavita del luogo – come è notorio – poteva, ferendo, risparmiare le regioni vitali dell’avversario, né doveva riuscirgli difficile (pur non esasperando la lotta) di aver ragione di lui. Egli invece volle colpire a morte.
Che don Luigi sappia usare bene il coltello e il rasoio lo sanno tutti fin dal 1920 quando, ventitreenne, per la prima volta di cui si ha notizia, taglia la faccia a un tale che avrebbe espresso apprezzamenti non graditi sulla donna che si era messo a sfruttare [cfr Francesco Caravetta, Guagliuni i malavita, Pellegrini 2012]. Da quella volta lame ne userà ancora, per esempio nel 1926 nella cantina “Lungo Crati”, di cui vi abbiamo raccontato sopra, e poi nel 1945 durante l’epico duello con il suo delfino (e nemico) Francesco De Marco, in arte ‘U Baccu.
Così don Luigi dovrà rispondere, davanti alla Corte d’Assise di Cosenza, di un reato che potrebbe costargli una quindicina di anni di galera, più altri reati minori come la contravvenzione alla vigilanza speciale e porto d’arma abusivo. I compari Del Buono, Parise e i due Montera dovranno, invece, rispondere di contravvenzione all’ammonizione di Pubblica Sicurezza.
Nel dibattimento la questione è se don Luigi ha ucciso per legittima difesa, come sostiene la difesa, oppure se ha ucciso volontariamente, come sostiene la Procura.
La questione la risolve la Corte nella sentenza: sebbene il Pennino, col fatto di sentirsi offeso per essere rimasto olmo (il che era nel giuoco) e, peggio ancora, col fatto di volere in merito a ciò ragionare (felice eufemismo  e si tenga conto quanto di tragico si nasconde in quel ragionamento!) non si sia originariamente posto dal lato della ragione, tuttavia essendo stato proditoriamente – per quanto in maniera assai lieve – ferito dal Palermo, certamente egli si trovò nella necessità di doversi difendere per impedire che il Palermo potesse continuare ad aggredirlo. Ma indubbiamente egli eccedette i limiti entro i quali la sua reazione poteva essere legittima e venir giustificata se, come è prescritto, fosse stata proporzionata al pericolo che incombeva e cioè adeguata alla necessità contingente. Volle colpire a morte ed ebbe, a colpo inferto, piena coscienza che l’evento corrispondesse all’intenzione. Or un ferimento di tanta gravezza fu senza dubbio un eccesso di difesa, non ricorrendo la necessità, pel capo della mala vita, di ferire a morte un novellino dal quale, avendolo di fronte, non avea più nulla a temere. Il novellino avea avuto, è vero, l’ardire di aggredirlo, ma ciò avea fatto con l’improntitudine del vile e cioè a tradimento alle spalle; di fronte invece la cosa sarebbe stata ben diversa anche perché il Palermo o non avrebbe avuto l’ardire, o il Pennino non avrebbe schivato i suoi colpi. Già è evidente  che il Palermo, o perché sprovvisto di un mezzo acconcio (un temperino), o perché ubbriaco per le precedenti libagioni, o per altra causa che funzionò da minorante psichica (forse terrorizzato dal sapersi caduto in disgrazia del suo capo per non avergli dato da bere) era rimasto mortificato nelle sue naturali energie e non costituiva un serio pericolo.
Ciò premesso, devesi dichiarare esso Pennino colpevole di omicidio colposo per avere ecceduto i limiti imposti dalla necessità di difendere la sua integrità personale contro il pericolo dell’offesa ingiusta del Palermo e, in considerazione dei di lui pessimi precedenti e delle gravi modalità del fatto, credesi proporzionata la pena di anni 4 di reclusione e mesi 3 di arresto. In quanto ai danni si stimano in £ 20,000, compreso onorario per difesa.
Albino Montera e Giovanni Del Buono se la cavano con 4 mesi di arresto ciascuno per la violazione degli obblighi di Pubblica Sicurezza.[2]
A don Luigi è andata di lusso, ma lui è una vecchia volpe e sa come districarsi nei
cavilli del codice penale.

 

[1] ASCS, Processi Penali.
[2] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.

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