L’INVIATO DI DIO

Il ventunenne Vincenzo Buda di Oppido Mamertina sta facendo il servizio militare e torna a casa in licenza. È la metà del mese di luglio del 1919. Riabbracciati i familiari e sinceratosi delle condizioni di salute della sua sorella minore Serafina, a letto ammalata, esce a va a salutare gli amici nella solita cantina.
– Aspetta! – lo ferma l’altra sorella Evelina – ti devo dire una cosa importante – Vincenzo, sbuffando, torna indietro – Andiamo nell’orto così non ci sente nessuno…
– Ma non puoi dirmela dopo? – protesta, mentre apre lo sgangherato cancelletto di legno che immette nell’orto.
– No, adesso.
– Allora sbrigati che ho fretta!
– Ecco… Serafina… Serafina… – esita non trovando le parole giuste.
– È grave? – chiede Vincenzo facendosi serio.
– Peggio! È in relazioni illecite col parroco!
– Cosa? Non ci credo!
– Eppure è così… ho trovato due frammenti di una lettera del prete nei quali si accennava a “coito”!
– Me ne accerterò… – dice, molto impressionato per tal fatto. Poi rientra in casa dimenticando gli amici.
E come fare per accertarsene? Aspettare che il prete torni a casa Buda per confessare Serafina, nascondersi e vedere cosa succede. Non ci vorrà molto tempo perché Serafina, isterica al sommo grado e giacente da parecchio tempo a letto, è invasa da mania religiosa, per cui sentiva il bisogno di confidar tutto al suo confessore, che riteneva un inviato di Dio.
Nel pomeriggio del 19 luglio 1919 il sacerdote Giovanni Sposato si reca, come di consueto, in casa Buda, in Oppido Mamertina, per ricevere la confessione della signorina Serafina Buda, degente a letto.
Vincenzo sta andando a Varapodio dove è stato invitato ad una festa, quando qualcuno gli dice di aver visto il prete bussare alla porta di casa sua. Al diavolo la festa, Vincenzo torna di corsa a casa dove trova due vicine e, dopo aver fatto loro constatare attraverso un buttaluce ciò che il prete facesse con la Serafina, si mette ad osservare egli stesso.
Serafina è riversa sul letto con gli occhi semichiusi e il petto alquanto scoperto perché le coperte erano spostate in giù, mentre il prete stava vicino fermo. Dopo pochi secondi il prete porta la mano destra sulla fronte di Serafina e la sinistra sotto la testa di lei; poscia porta la destra sulle parti genitali di lei, sulle coperte però, e si dà a dare ripetuti colpi con le dita.
A Vincenzo, vedendo la sorella scamiciata e il prete in quell’atteggiamento, viene in mente la parola “coito” e perde la testa. Corre nella sua camera, prende il fucile e torna verso la stanza del fatto. Apre violentemente la porta, Serafina urla e don Giovanni si gira di scatto, bianco in viso. Davanti a lui, in primo piano, ci sono i due occhi neri delle canne del fucile; più indietro Vincenzo rosso di rabbia che, uno dopo l’altro, tira i due grilletti dell’arma. Don Giovanni cade a terra senza un lamento e Vincenzo scappa portandosi dietro il fucile ancora fumante.
Arrivato sul posto, il Pretore non può che constatare la morte di don Giovanni, poi raccoglie le querele dei fratelli del sacerdote, Mariantonia e Giuseppe, i quali insistono molto sull’ipotesi della premeditazione. Anzi, per rafforzare questa tesi, querelano anche i genitori di Vincenzo, Luigi Buda e Fortunata Morizzi, e lo zio materno Giuseppe Morizzi, siccome coloro che, ciascuno per la sua parte, avrebbero eccitato in Vincenzo Buda la risoluzione di commettere l’omicidio, facilitandone l’esecuzione prestandogli aiuto prima e durante il fatto e fornendogli i mezzi per commetterlo. Al momento non ci sono che voci a suffragare questa ipotesi, ma poi, indagando, gli inquirenti cominciano a sospettare che Evelina Buda e suo zio Francesco Pandolfini avevano specialmente concorso alla perpetrazione del misfatto. Il motivo dei sospetti? Pare che tra costoro esistesse una tresca illecita e che Serafina Buda, venutane a conoscenza, avesse fatto le debite rimostranze alla sorella, interessando anche lo Sposato perché avesse interposto i suoi buoni uffici di direttore spirituale per farla cessare. Da qui l’odio di Evelina, la quale, coadiuvata dallo zio Francesco, avrebbe fatto al fratello Vincenzo le rivelazioni sugli incontri tra Serafina e don Giovanni, togliendo pretesto da alcune lettere che, effettivamente, lo Sposato aveva indirizzato a Serafina, in un frammento delle quali alcuni testimoni dichiarano di aver letto chiaramente: “Fatemi sapere se siete ancora malata … ché quando vengo dobbiamo fare il coito”. Nelle lettere sequestrate questo frammento non c’è e, anzi, dalle varie lettere alligate in atti e indirizzate dallo Sposato alla sua filiana spira tutto un sentimento mistico e nelle quali non vi è neppure l’ombra più lontana che accenni al peccato.
Come è mai possibile,  si chiedono gli inquirenti, che Don Giovanni, persona di specchiata moralità, tutta compresa dai doveri del suo ministerio di parroco, che non rifiutava mai consigli quando ne veniva richiesto, avesse scritto in altra lettera di cui, secondo si assume, fu rinvenuto un solo frammento, le parole peccaminose? La risposta è affidata alla logica del buon senso: Bisognerebbe per lo meno credere che tutte le altre lettere avessero la maschera dell’ipocrisia e dell’inganno ed in tal caso non sarebbe neppure verosimile che un uomo cotanto astuto avesse avuto la dabbenaggine di mettere in iscritto parole tanto chiare che lo avrebbero potuto seriamente compromettere, tanto più in quanto quelle lettere erano abitualmente recapitate per mezzo di terze persone e potevano non pervenire direttamente alla destinataria. La cosa sa molto di favola. Guarda caso, osservano gli inquirenti, tra tutte le lettere proprio quella fatale è andata smarrita, come smarrito è anche il frammento incriminato.
Viene seguita anche un’altra pista: Serafina sarebbe spesso assalita da stimmate della carne e il prode Sposato, credendo in ciò una tentazione del demonio, consigliò qualche rimedio per attenuare quegli stimmati come, ad  esempio, le applicazioni sui genitali di pannolini bagnati di acqua fredda. Ma pare che la Serafina avesse ripugnanza di toccarsi e il prete le consigliò in una lettera, di calzare un guanto ed è forza ritenere che, per allontanare quella che lo Sposato riteneva tentazione diabolica, egli stesso, vincendo ogni ripugnanza, le abbia qualche volta applicato il rimedio, specie quando la Serafina veniva assalita da attacchi convulsivi. Beh, anche questa sembra una favoletta, ma spiegherebbe ciò che hanno visto le due donne e Vincenzo spiando dal butta luce, a meno che qualcuno, la favoletta, non l’abbia costruita ad arte per coprire lo scandalo.
Così stanno le cose e nei guai finiscono tutti i parenti di Vincenzo. Poi si fanno avanti alcune ragazze che dicono di essere state in casa Buda la mattina del 19 luglio 1919, ma di essere state mandate via da Evelina, la quale disse loro di andarsene perché sarebbe venuto il fratello per uccidere il prete. Queste nuove notizie aggravano la posizione della ragazza e al contrario, se interpretate nel modo giusto, potrebbero alleggerire quella dei genitori e dello zio Giuseppe Morizzi.
La Sezione d’Accusa smentisce tutte le ipotesi investigative e, semplicemente, ritiene che non ci siano elementi sufficienti contro i genitori e lo zio Giuseppe Morizzi, i quali vengono prosciolti. Viene esclusa la premeditazione perché nessun elemento concorre per poterla sostenere. La determinazione di Vincenzo Buda fu indubbiamente istantanea e se al seguito del racconto della sorella Evelina pensò alla possibilità della vendetta, è certo che in concreto nessuna proposta da attuare formò perché ancora si era nel periodo del dubbio e occorreva ancor prima la prova della realtà di quanto gli era stato accennato.
Con queste parole è logico che anche Evelina e lo zio Francesco Pandolfini siano prosciolti e ad affrontare il processo presso la Corte d’Assise di Reggio Calabria resta solo Vincenzo Buda.[1]
E, in fondo, questo è ciò che tutti auspicavano per salvare la memoria di don Giovanni, che curava le stimmate pelviche di Serafina, opera del demonio.

 

[1]
ASCZ, sezione di Lamezia Terme, Corte d’Appello di Catanzaro, sentenze della Sezione d’Accusa.

 

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