IL SOGNO SPEZZATO DI RITA

È l’estate del 1942 e a Torano Castello fa molto caldo.
– Zia Marì… sono disperato… aiutatemi… – Vincenzo De Paola si presenta a casa di Maria Sabato, zia acquisita per avere sposato il fratello di suo padre. È sanguinante e accanto a lui c’è una bicicletta semidistrutta.
– Vincenzì che ti è successo?
– Sono caduto dalla bicicletta… ma non è questo il problema più grave…
– Entra e raccontami… Rita! Rita! Porta delle pezze e dell’acqua pulita – ordina a sua figlia.
– Insomma… – comincia a raccontare il giovanotto – lo sai che ho una donna…
– Faustina?
– Si, lei… ora mamma si è messa in testa che non la devo vedere più, che è uno scandalo, che i miei figli sono uno scandalo e mi ha cacciato di casa… sono disperato, non so dove andare e adesso pure queste brutte ferite ci mancavano!
– E si, sono proprio brutte! Rita, vai a chiamare il medico. Tu – dice al nipote – adesso ti metti a letto e quando sarai guarito se ne riparlerà, nel frattempo tua madre si sarà calmata!
Maria Sabato ha ragione, una volta guarito, Vincenzo torna a casa sua, ma il breve periodo di tempo trascorso in casa di detta zia fu per lui sufficiente perché avesse rapporti carnali con la Rita la quale, poco tempo dopo, restò incinta da lui. I due si amano, non ci sarebbe alcun problema se non che la regolarizzazione di tale situazione non poteva avvenire per la opposizione della madre del De Paola, Elena Lanzillotta, la quale ostacolava le nozze.
Che fare? Rita potrebbe abortire clandestinamente come si è sempre fatto, ma la creatura che porta in grembo è il frutto del suo amore e non vuole perderla, anche a costo di sommare lo scandalo allo scandalo. Così i due cugini, giorno dopo giorno, si convincono sempre di più che l’unica soluzione possibile per risolvere il problema è quello di scappare insieme e cominciare una nuova vita in un altro posto. Come faranno a vivere? Vincenzo è un valente fabbro, a Torano ha anche un’avviata officina, e Rita ha imparato a cucire. Il lavoro non potrà mancare.
È la sera del 18 dicembre 1942, la sera della fuga. Rita, che nei giorni passati ha messo da parte le poche cose del suo corredo in un sacco, è pronta. Apre la sua borsetta, ci mette dentro alcuni bottoni, possono sempre servire, un ago e un metro da sarta, le serviranno per lavorare. Dormono tutti, li guarda tutti con amore e gli occhi le si fanno lucidi. Basta, è ora di andare; indossa il cappotto, apre la porta senza fare rumore ed esce nel buio. Poi si gira a guardare la casa dove è cresciuta, pensa che se ci fosse stato il padre forse sarebbe stato tutto diverso. Se ci fosse stato il padre, che se ne è andato in Brasile abbandonandoli. Asciuga una lacrima col dorso della mano, poi prende il sacco che aveva nascosto nel basso e va all’appuntamento con Vincenzo, senza più voltarsi indietro.
Rita arriva davanti all’ufficio postale di Torano e aspetta qualche minuto, nascosta, l’arrivo di Vincenzo e del suo aiutante di bottega, Antonio Mortale o, come lo chiamano tutti, Totonnu ‘u ‘mpacchiatu, il quale ha l’incarico di precederli fino a che non saranno usciti dal paese per avvertirli della presenza di qualcuno lungo la strada e poi di seguirli una volta usciti dal paese, per avvisarli se qualcuno li segue.
Rita abbraccia con trasporto il suo amato, ma lui, molto nervoso, quasi l’allontana, insistendo per avviarsi immediatamente. La notte è fredda e lo spicchio di luna crescente non aiuta il loro cammino.
È la mattina del 19 dicembre 1942, Maria si alza e non trova nel letto sua figlia Rita. Sospetta che sia scappata di casa e la va a cercare. La prima persona a cui chiede è Totonnu ‘u ‘mpacchiatu.
– Totò, sai dov’è Rita? L’hai vista?
– No, né so dov’è e né l’ho vista…
Poi va a casa del nipote Vincenzo. Se lui non c’è vuol dire che sono scappati insieme.
– Vincenzì, dov’è Rita?
– Non lo so zia Marì…
– Ohi madonna mia! – il dubbio che per la vergogna della gravidanza abbia potuto fare una sciocchezza comincia a farle scoppiare la testa.
Poi arrivano i Carabinieri di Montalto Uffugo.
La mattina del 19 dicembre 1942 in contrada Mascari di Torano Castello fu rinvenuto il cadavere di una giovane donna, identificata per la ventenne Rita De Paola. Il cadavere fu trovato accanto o meglio alla distanza di un metro circa da una pianta di fichi; non fu notato alcun disordine nell’abito che indossava; aveva le gambe completamente distese, le braccia alzate verso la testa, le dita delle mani ripiegate contro il palmo; accanto, e precisamente a trenta centimetri, vi era una borsetta aperta da cui erano caduti alcuni bottoni. Si rilevò che una ferita, considerata da arma da fuoco dal medico che fu chiamato ad osservare il cadavere, esisteva alla regione destra del naso e si sospettò che il proiettile fosse penetrato nella scatola cranica; si sospettò che potesse anche trattarsi di suicidio. Nella borsetta c’è un borsellino con qualche lira, un metro e un ago da sarta. Poco discosta dal cadavere c’è una rivoltella con due colpi esplosi e altri quattro che hanno fatto cilecca perché di un calibro inferiore e adattati alla camera di scoppio con della carta.
Maria Sabato ha notato qualcosa di strano nello sguardo di Vincenzo; poi, quando i Carabinieri perquisiscono casa alla ricerca di conferme, si accorge che manca il corredo.Non crede più al suicidio. Dopo l’identificazione della donna, si apprese dalla madre di essa che nella sera precedente aveva preso la fuga insieme con il cugino Vincenzo De Paola: si indirizzarono così le indagini e si accertò che tra costui e la Rita, da alcuni mesi erano corsi rapporti carnali, dai quali la donna era rimasta incinta.
Allora i Carabinieri vanno a prendere Vincenzo e lo interrogano:
– Rapporti carnali? Ma quando mai! Io non avevo nessun motivo di scappare con mia cugina
La cosa puzza e Vincenzo passa la notte in camera di Sicurezza. La mattina seguente lo fanno sedere davanti al Pretore e accanto a lui c’è anche sua madre.
– Vincè, dici al signor Pretore quanto ti risulta – il tono di Elena Lanzillotta è perentorio come al solito. E Vincenzo ubbidisce. 
– Siamo stati io e Totonno Mortale – Elena Lanzillotta sbianca in viso.
– Perché?
Per non sposarla dato che trovavasi in istato di gravidanza per opera mia
 Il Pretore non fa nemmeno in tempo a chiedergli come l’ha ammazzata, che Vincenzo ci ripensa e racconta tutta un’altra storia:
Rita, giunta insieme con me nel luogo in cui fu trovata morta, sentendosi stanca si distese per terra e mi chiese la rivoltella, se la puntò all’orecchio destro e si sparò un colpo, ma non essendo immediatamente morta, mi restituì la rivoltella pregandomi di sparare contro un altro colpo; io, avuta l’arma, esplosi un secondo colpo che andò ad attingere la detta alla regione del naso a destra – il Pretore è sconcertato, non gli era mai capitato un caso di omicidio di persona consenziente e forse nemmeno ci crede, ma continua a fare domande per chiarire meglio la posizione di Mortale e Vincenzo gli spiega perché si trovava con loro e aggiunge – la rivoltella me l’ha data Mortale che, dopo l’esplosione del secondo colpo, si avvicinò e mi domando: “è morta?”, io gli risposi di si e lui tornò indietro per la stessa strada lasciandomi solo.
Un paio di giorni dopo i Carabinieri riescono a rintracciare Totonnu ‘u ‘mpacchiatu e lo interrogano:
Ho soltanto accompagnato i due cugini fino all’estremità dell’abitato di Torano
– La rivoltella gliel’hai data tu?
– No!
Quando tutti si stanno convincendo della veridicità del racconto di Vincenzo, il risultato dell’autopsia rimette tutto in gioco: nel cranio di Rita non ci sono proiettili, quei fori, frettolosamente osservati dal medico legale, non sono stati prodotti da proiettili ma da un corpo contundente. Ad ucciderla fu lo shock traumatico conseguente alla grave lesione all’osso nasale e frattura dello stesso prodotta da corpo contundente. D’altra parte, l’ipotesi del suicidio “assistito” sarebbe dovuta essere scartata subito perché una ragazza di quasi venti anni che vuole suicidarsi non scappa di casa con il suo innamorato portandosi dietro il suo piccolo, modesto corredo, un ingombro del tutto inutile, e gli attrezzi per esercitare il proprio mestiere.
E allora come andarono realmente i fatti in quella maledetta notte? Secondo i risultati dell’autopsia Vincenzo la colpì in faccia, presumibilmente con il calcio di una rivoltella, e poi di nuovo sull’orecchio destro, così violentemente da perforare l’osso come se fosse stato colpito da un proiettile e da asportare parzialmente l’orecchio destro. Una morte orribile provocata con metodi altrettanto orribili.
– Ci hai detto un sacco di fesserie… non l’hai sparata, l’hai ammazzata con un corpo contundente appuntito
– Non è vero! Lei si è sparata e poi ha chiesto a me di spararle!
Questa ostinazione convince il Giudice Istruttore della necessità di procedere alla riesumazione del corpo di Rita per procedere a nuovi e ancora più accurati accertamenti. In attesa dei risultati, ormai siamo nel mese di febbraio 1943, Vincenzo chiede di essere ascoltato dai Magistrati e fornisce una nuova versione dei fatti:
– Eravamo sulla strada che porta alla stazione di Mongrassano e Rita cominciò a borbottare dapprima e ad inveire subito dopo… perciò mi irritai e tirai un pugno con la mano destra nella quale impugnavo la rivoltella. Rita, in conseguenza al colpo ricevuto cadde per terra e dopo circa mezz’ora cessò di vivere… nessun colpo di arma da fuoco è stato sparato… Totonno ci accompagnò fino alle ultime case del paese, facendo così ritorno.
E l’orecchio strappato? E i due bossoli esplosi nella rivoltella? e gli altri quattro che qualcuno ha tentato di sparare ma hanno fatto cilecca? No, non è credibile, è solo un tentativo, maldestro, di avvalorare l’ipotesi dell’omicidio preterintenzionale e diminuire gli effetti della sua responsabilità. La cosa sorprendente è che Mortale, interrogato, fornisce la stessa versione. Evidentemente i due hanno avuto la possibilità di parlare tra loro in carcere e concordare questa nuova versione.
No, non è stato un delitto d’impeto, dettato dal presunto inveire di Rita o dalla sua incredibile richiesta di essere uccisa. No,  la verità, secondo gli inquirenti, è un’altra: Vincenzo De Paola ha ucciso con premeditazione sua cugina Rita perché non voleva sposarla dopo averla messa incinta, d’altra parte lo ha confessato l’imputato nel suo primo interrogatorio poi ritrattato. Resta solo da stabilire le modalità di questo barbaro omicidio.
 Intanto un nuovo sopralluogo effettuato sul luogo del delitto permette di ritrovare, conficcati nel terreno a poca distanza da dove era adagiato il corpo di Rita, due bossoli dello stesso calibro della rivoltella, quindi Vincenzo ha mentito quando ha detto che non erano stati sparati colpi di arma da fuoco. Ma i colpi non furono sparati contro Rita, la rivoltella fu adoperata come arma da fuoco in un secondo momento, dopo, cioè, che fu adoperata come corpo contundente. Rita fu colpita prima alla regione parietale destra con la parziale asportazione dell’orecchio e poi, con violenza inaudita, in faccia. Quindi Vincenzo tentò per ben quattro volte di sparare, senza riuscirvi, poi i due spari per simulare il suicidio. Le prove di questa ricostruzione vengono sia dalla nuova perizia necroscopica che non ha trovato tracce di polvere da sparo sulla pelle del viso di Rita e sia da una considerazione logica: come mai Rita, contro la quale suo cugino cercava ripetutamente di sparare senza riuscirci, non scappò? Non scappò perché colpita all’improvviso col calcio della rivoltella alla testa.
La volontà omicida è, secondo gli inquirenti, dimostrata dalla parte del corpo presa di mira, dal mezzo adoperato, dalla reiterazione dei colpi. E poi il segno rivelatore più preciso della volontà omicida dell’imputato si ha in quello che egli stesso affermò, sia pure sperando di poter fare attenuare la propria responsabilità: affermò, egli, nel suo primo interrogatorio di avere sparato contro la Rita per assecondarne il desiderio che aveva di avere stroncata la vita e di farla finita.
E Totonno Mortale? Non meno precisa e non meno completa è la prova del suo concorso nel delitto confessato dal De Paola. In tutti i momenti salienti dei rapporti tra Vincenzo De Paola e sua cugina Rita si incontra il Mortale. Aveva frequentato l’officina di fabbro del De Paola, amoreggiava con una parente del De Paola. Con il Mortale la Rita comunicò al cugino che era rimasta incinta. La lettera con la quale il De Paola fissò alla Rita il giorno in cui essi dovevano prendere la fuga fu scritta alla presenza del Mortale e fu da costui portata alla destinataria, la quale inviò la risposta a mezzo dello stesso latore. Nella sera della fuga fu il Mortale che informò il De Paola che la Rita attendeva nei pressi dell’ufficio postale, fu il Mortale che accompagnò i due cugini; l’indomani fu visto a casa del De Paola. Fu lo stesso Mortale che accompagnò i due fin sul luogo nel quale poi la Rita fu uccisa; fu egli stesso a fornire l’arma con cui il De Paola compì il delitto; fu presente alla consumazione del delitto, tanto da avvicinarsi al lato dell’uccisore ed a domandargli se la Rita fosse morta. La povera madre, quando si accorse che la figlia mancava dalla casa, chiese al Mortale il quale disse di nulla sapere e non accennò neppure alla fuga che la Rita aveva, la sera precedente, preso con il cugino: nessuna ragione poteva avere il Mortale a portare il segreto se non perché sapeva che quella sera doveva essere uccisa la Rita. Cosicché nessun dubbio sulla responsabilità del Mortale.
I due imputati sono rinviati a giudizio per l’omicidio in danno di Rita De Paola, con l’aggravante della premeditazione e dei motivi abietti.
La Corte d’Assise di Cosenza, l’8 marzo 1944, escludendo la premeditazione, ma riconoscendo l’aggravante dei motivi abietti, condanna Vincenzo De Paola all’ergastolo e Antonio Mortale alla pena della reclusione per 30 anni, più pene accessorie e assegna a Maria Sabato una provvisionale di 25.000 lire.
Tutte le parti propongono appello e, il 29 luglio 1959, la Corte d’Appello di Catanzaro, accogliendo il ricorso del Pubblico Ministero nei confronti di Vincenzo De Paola, rettifica la pena, sostituendo la pena dell’ergastolo a quella della detenzione per anni 30. Accoglie, invece, il ricorso di Mortale, eliminando l’aggravante dei motivi abietti e fissando la pena in 24 anni di reclusione. Mortale godrà anche di due condoni per un totale di 6 anni. La pena definitiva è di 18 anni di reclusione.[1]
In realtà Vincenzo De Paola, in concorso con Antonio Mortale, ha commesso due omicidi perché insieme a Rita ha ucciso anche la creatura frutto del suo seme, senza che nessuno si sia mai degnato di nominare.
Rita voleva una vita nuova con l’uomo che amava e con il frutto del suo amore, ma quell’uomo, invece, la vita gliel’ha tolta barbaramente.
In nessun atto del processo è riportata una sola parola di pietà o di pentimento da parte di quell’uomo, di quei due uomini, se questi sono uomini.

 

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.

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